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Il difficile equilibrio tra democrazia e diritti
Il riferimento è a uno dei problemi politico-costituzionali della nostra epoca: a mio avviso tra i due o tre più rilevanti. Dalla sua soluzione dipende il nostro futuro. Ma non ho l’impressione che vi sia sul punto una diffusa consapevolezza; vi è anzi gran confusione. La recentissima sentenza della Corte Suprema statunitense ha fatto emergere la contraddizione sistemica da cui siamo avviluppati: una conseguenza di una specie di stratificazione storica di formanti delle nostre strutture di stato e di governo. Il campo dell’aborto è minato: il rischio di essere fraintesi è altissimo per la passionalità e l’ideologicizzazione dominanti. Prendo perciò le mosse da quel che ci hanno detto due filosofi che dovrebbero essere immuni dalla critica immotivata o inconsulta.
Mi riferisco innanzi tutto a Jurgen Habermas che individua nel connubio tra sovranità popolare e diritti umani l’essenza della statualità contemporanea in Occidente. Analisi, naturalmente, corretta, veritiera. Ma abbiamo davvero tenuto in conto l’ammonimento che l’accompagnava, di non separare questi due elementi, di evitare che ognuno vivesse autonomamente dall’altro? È invece accaduto proprio questo; anzi si direbbe che un formante (i diritti) abbia preso il sopravvento e che l’altro (la sovranità popolare) sia in crisi, quasi rappresentasse un retaggio proveniente da un passato sempre più lontano.
Vi è poi l’Hannah Arentd di Verità e politica: il passaggio è, a mio avviso, fondamentale per mettere ordine a livello categoriale, a costo di apparire distonici rispetto al trend oggi corrente. Che dice allora la Arendt? Semplicemente come stanno le cose e cioè che il consensus populi deve stare a fondamento anche dei diritti: questi, per quanto possano apparire fondamentali, inviolabili, naturali ecc., devono essere sorretti dal proceduralismo democratico. Arendt è radicale, ma logicamente ineccepibile quando – lei – ha il coraggio di scrivere che «l’affermazione – di cui alla Dichiarazione d’Indipendenza americana – “tutti gli uomini sono creati uguali” non è evidente di per sé, ma ha bisogno dell’accordo e del consenso».
Ecco le coordinate corrette perché congrue al modello repubblicano e democratico: il principio di sovranità popolare ne è l’essenza e ciò non può piacere o non piacere a seconda delle circostanze (piace se estende i diritti, non piace o peggio, se li nega o limita); d’altra parte non tutti i diritti sono eguali ed è possibile che entrino in conflitto tra loro (un diritto civile versus i diritti politici collettivi che si esprimono anche attraverso la volontà maggioritaria).
Dire che non tutti i diritti sono eguali implica un’altra, non irrilevante, conseguenza: ovvia, ma spesso dell’ovvio ci si dimentica. Ne è possibile seriamente sostenere che una costituzione (scritta) garantisca tutti i diritti, presenti e futuri: anche se la questione effettivamente si pone in quanto le costituzioni adoperano formule sempre più ampie in tema di diritti ed esse stesse forniscono un comodo ‘gancio legale’ per il riconoscimento, specie in via giudiziaria, di sempre nuovi diritti. È a questo punto che i sistemi vanno in corto circuito: in questo contesto decideranno i giudici e ciò indubbiamente costituisce – o può costituire – un vulnus alla sovranità popolare. Può, cioè, compromettersi quell’equilibrio che saggiamente Habermas invita a ricercare.
Semplicemente questo è accaduto negli USA: prima con la sentenza Roe vs. Wade del 1973 (l’aborto è un diritto costituzionalmente garantito), oggi con la sentenza Dobbs vs Jackson Women’s Health Organisation (l’aborto non è un diritto costituzionale). La Corte Suprema aveva ragione nel ‘73 o ha ragione nel 2022? Dipende dalla lettura e dall’interpretazione di un testo, il XIV Emendamento, che fonderebbe il diritto alla privacy dentro il quale starebbe anche il diritto di abortire che non potrebbe essere negato dalle legislazioni statali: «nessuno Stato porrà in essere o darà esecuzione a leggi che disconoscano i privilegi o le immunità di cui godono i cittadini degli Stati Uniti in quanto tali …».
Ora, da queste parole si possono ricavare norme alquanto diverse, anche opposte: qualunque giurista lo sa bene. E saranno determinanti le presupposizioni – cioè le opzioni soggettive – che il singolo decisore ha in testa. Si intende che i giudici del 1973 erano corredati di presupposizioni alquanto difformi da quelle dei giudici del 2022.
Cosa c’è che non va in questo sistema? Dal punto di vista giuridico assolutamente nulla: i poteri di una corte costituzionale son quelli ed erano stati correttamente esercitati 50 anni fa come è accaduto anche oggi. È dal punto di vista politico, diciamo di costruzione di un sistema democratico e repubblicano, che la discussione è aperta e la questione essenziale (se non sbaglio) è precisamente questa: è congruo che un potere sostanzialmente legislativo sia allocato presso i giudici, anche se di una corte costituzionale? Qui cominciano le contraddizioni o incongruenze: quei giudici non sono espressione della sovranità popolare, sono nominati e sono nominati dai politici di vertice (il Presidente degli Usa o il Presidente della nostra Repubblica) ed è naturale che queste nomine riflettano gli orientamenti politici del titolare del potere di nomina (che può anche servirsene per fare degli ‘sgarbi’ istituzionali o, peggio, per consumare delle ‘vendette’ politiche).
Se diamo un’occhiata ai lavori preparatori della Costituzione italiana, leggiamo che uno come Palmiro Togliatti era contrario alla previsione di una corte costituzionale: un organo con gran potere, ma elitario, slegato da ogni reale legittimazione popolare. Aveva torto? Forse no. Ma vi è anche chi teme che lo stesso Parlamento possa abusare del suo potere in danno dei cittadini e, particolarmente, delle minoranze e dei loro pretesi diritti. Ecco allora che la corte costituzionale si erge a supremo organo di garanzia; e per questo è ormai comunemente accettata la sua presenza nelle democrazie occidentali.
Difficile uscirne, se non impossibile. Molto dipende dalle persone dei giudici i quali dovranno avere effettivamente un’altissima cifra culturale ed essere capaci di indipendenza innanzi tutto da sé stessi. Sono scrutini che chi nomina ha il dovere – questo certamente costituzionale – di compiere scrupolosamente. Ma vi è da dubitare fortemente che, nei contesti attuali, lo si faccia sempre o fino in fondo. Ovvio che si potrebbero ipotizzare delle alternative: per esempio, elezione popolare; o, radicalmente, nessuna corte costituzionale, come auspicava Togliatti.
L’optimum non è di questo mondo. In Italia, però, abbiamo fatto – questa volta, almeno – meglio degli USA: al divorzio e all’aborto siamo pervenuti attraverso un ampio dibattito consumatosi anche sulle piazze e culminato in leggi e referendum popolari. Questa è la via politica per decidere questioni del genere: la migliore, la più repubblicana, la più democratica. Quel che fece a suo tempo Loris Fortuna (con il divorzio) ha il valore dell’exemplum: dovremmo ricordarcelo, dovremmo narrare quella storia. È un itinerario istituzionale da seguire; quel che ognuno di noi può pensare in tema di divorzio od aborto ha minore rilevanza.
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