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La lezione di una sconfitta
A distanza di qualche giorno dalla fine di una campagna elettorale a dir poco sfiancante e dopo averne metabolizzato il risultato (poco meno dell’1,5%), pare giunto il momento di stilare un bilancio.
Un bilancio che non può non partire dal considerare che L’Altra Parma, una lista civico-politica sostenuta anche da alcuni esponenti di Ancora Italia, Partito Comunista, Alternativa, Italia Unita e Riconquistare l’Italia, è nata solo tre mesi fa e che la campagna è stata organizzata del tutto in house in poco più di due mesi.
Ciò che fa specie, ma che è significativo di un certo modo di fare politica nel nostro Paese, è che sommando i risultati delle forze antisistemiche emerse dalla cosiddetta Piazza del dissenso – quella che si è creata spontaneamente nei mesi del lockdown e anche oltre – si ottiene un risultato superiore al 3%, ciò che avrebbe permesso, con tutta probabilità, di portare almeno un candidato in Comune.
In realtà, una volta constatata l’inanità dello sforzo di tenere insieme le anime impolitiche di una «Piazza» più unita dalla contestazione che dalla proposta, l’obiettivo della mia candidatura a sindaco è stato quello di rappresentare quella parte di città che è stata tragicamente abbandonata dal decennio pizzarottiano. Ciò si è materializzato con la stesura di un programma elettorale che non si limitava a intervenire sul piano della proposta amministrativa ma osava accostarsi a temi più propriamente politici, come l’incostituzionalità del green pass e in generale del protrarsi di uno stato di emergenza sine die. Non ci siamo, però, limitati a metterne in mostra la natura di dispositivo della governamentalità neoliberale e biopolitica. La differenza della nostra proposta rispetto a quelle messe in campo da altre forze è stata nella scelta di collocare la critica di tale dispositivo all’interno di un discorso che cercava di scavare nel “profondo” del ‘politico’. Nei limiti del possibile, si è cercato di portare al grande pubblico, per esempio, una serie di riflessioni, portate avanti come associazione La Radice, sulle caratteristiche antropologiche della «società della stanchezza» di cui scrive Byung-Chul Han, ovvero di quella forza ideologica che in tutti questi anni si è dimostrata capace, per un verso, di “produrre” un cittadino convinto di essere l’homo liber finalmente sovrano di sé stesso, per l’altro, di smantellare il sociale e il senso di comunità.
Per questo, abbiamo fatto più volte riferimento alla questione dei fondamenti religiosi della vita individuale e collettiva, in modo da far comprendere come tra le ragioni più profonde dell’addomesticamento collettivo vi sia stata la cancellazione di radici, storia e tradizioni, insomma tutto ciò che popola il negativo; una cancellazione avvenuta attraverso la sottomissione degli individui al «bando della prestazione», per cui il cittadino è divenuto, in realtà, l’homo sacer di uno stato di normalità totalizzato, di uno stato della positività.
È anche per questo che abbiamo particolarmente insistito, nel corso di comizi e incontri con la città, sulla necessità di porsi oltre la tradizionale topologia dicotomica “destra – “sinistra”, nella consapevolezza che questi due termini, sebbene ancora dotati di una forte capacità di presa emotiva sulle masse, in realtà siano sostanzialmente categorie interpretative disutili a leggere la peculiare curvatura totalizzante del disegno biopolitico dei nostri tempi – e dunque politicamente deleterie. Questo posizionamento “terzo” ha naturalmente avuto un costo in termini elettorali. Credo, però, che fosse un posizionamento necessitato.
Va sottolineato che, a differenza di certo populismo dell’immanenza, che potremmo sbrigativamente definire “populismo di sinistra”, il nostro tentativo è stato quello di formulare una proposta di populismo puro. Andare oltre la dicotomia “destra”-“sinistra” si è, in altre parole, tradotto anche in un populismo della trascendenza, cioè fondato sull’ambizioso tentativo di far uscire il ‘politico’ dalla gabbia discorsiva per certi versi tradizionale, quella del linguaggio del realismo e dell’economicismo, cercando di mettere le mani nella macchina ontologica dell’Occidente.
Nel piccolo universo di una città borghese e provinciale si è cercata la strada più impervia, quella di offrire nuove scale di valori, a partire dal recupero di certe dimensioni, come quella di un rapporto, non più rinviabile, tra dimensione religiosa e politica; di alludere a una certa idea di autonomia e quindi di trascendenza del momento politico; di un Uno capace di articolarsi nel rapporto con il molteplice, con i suoi poteri mondani e la rete di interessi materiali.
Il nostro obiettivo era estremamente ambizioso: trascinare il cittadino davanti al vero e alla sua intima costituzione dialettica. Alla realtà di quel ‘negativo’ che, nella Scienza della logica di Hegel, è l’«intima fonte di ogni attività, di ogni spontaneo movimento della vita e dello spirito, l’anima dialettica che ogni vero possiede in sé stesso e per cui soltanto esso è un vero»[1]; mostrare lo spettacolo dell’unilateralità demonica e mortifera della razionalità neoliberale, cercando di svelarne il télos: negare il negativo per far emergere un’unica dimensione, quella dell’eterno ritorno di un positivo pacificato in una temporalità ciclico-autoreferenziata che esclude ogni opposizione dialettica capace di arrestarne il corso.
È di qui, a nostro parere, che bisognerebbe cominciare a ragionare anche sul piano nazionale per costruire una forza politica capace di rovesciare l’ordine del discorso.
Se vogliamo trarre una lezione dalla nostra sconfitta è che bisogna saperla interpretare come una prima spinta verso un processo politico che punti a radicarsi nel negativo, a prescindere dal fatto che ciò possa portare inizialmente a scarsi risultati; un processo che sappia coerentemente agire entro quello spazio simbolico ueQueoin cui si giocano le residue speranze di riottenere un normale funzionamento democratico alle nostre società. Non basta più l’economia, ci occorre un «discorso del senso»: la gente ha fame anche di senso! Una battaglia ideologica che comprenda anche l’ambito del senso potrà avere, nel lungo periodo, la possibilità di realizzare il negativo contro il positivo neoliberale, la potenza contro l’atto (in ciò essenzialmente consta la dynamis di un processo egemonico), dando così «forma alla vita che vuole vivere e organizzarsi»[2]?
È una scommessa su cui bisognerebbe provare a investire. Dovremmo probabilmente ragionare sulle possibilità di costruire un’azione politica concepita anzitutto in direzione del popolo dell’astensionismo, che è poi il vero vincitore delle elezioni di Parma (e non solo). A ben guardare, il successo del non voto non è altro che la facies demonica del negativo dell’ordine neoliberale, di cui è una sorta di doppio fantasmatico. Ed è su questo fantasmatico che bisognerà lavorare discorsivamente. Si tratta di un deposito di populismo acefalo che in modo assolutamente informe assolve a una elementare funzione spirituale, poiché introduce nel reale l’assolutamente irrealizzabile. Questo popolo del no è a tutti gli effetti una potenza destituente, dal momento che è resistente all’essere “realizzato” in un potere costituito. Forse per le forze antisistemiche si tratta di accettarne la sfida e parlare lo stesso linguaggio destituente del negativo: paradossalmente, divenire i custodi dell’irrealizzabilità della politica.
[1] Biagio De Giovanni, Figure di apocalisse. La potenza del negativo nella storia d’Europa, il Mulino Bologna, 2022, p. 18.
[2] Ivi.
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