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La guerra del default russo


6 Lug , 2022|
| 2022 | Visioni

Riemerge alle cronache di attualità politico-finanziaria un termine che sembrava quasi sparito: il default. La Russia il 27 giugno ha mancato il pagamento relativo a propri titoli di Stato denominati in valuta estera (dollaro e euro). Che succederà adesso?

Occorre tornare al significato del termine, che echeggia un qualche scenario pericoloso se non catastrofico, comparso nel linguaggio corrrente in una luce quasi terroristica durante la crisi dei debiti sovrani del 2011-13; instillava il dubbio che l’Italia potesse venir meno ai suoi impegni finanziari verso i propri creditori e andare in bancarotta. Era la fase terminale del berlusconismo, in cui si alzava lo spread (altro termine comparso in quel periodo, in un crescendo di gesticolazione emergenziale). Il significato di base era che il paese nel 2011 doveva promettere tassi più alti per ottenere prestiti dal mercato finanziario rispetto a quelli del titolo di riferimento (i bond tedeschi) e che alla fine non avrebbe potuto non riuscire a onorare i propri debiti.

Ovviamente non era vero nulla, ma si trattava di una narrativa distorsiva e bugiardosa che, esagerando le reali difficoltà contingenti e spandendosi incontrastata, ci avrebbe traghettati dritti nell’era Monti.

La guerra del default russo

Solo l’anno successivo il gigantesco rapporto della Commissione europea sulla sostenibilità fiscale indicava che l’Italia entro gli anni 2009-12 non era mai stata oltre la soglia di sicurezza (al contrario del Regno Unito come si vede, per cui nessuno ha suggerito che dovesse diventare Primo ministro un tecnocrate piazzato lì dall’alto).

In ogni caso il concetto era un po’ falsato in quanto il default non coincide affatto con la bancarotta, nonostante così si cercasse di gabellarlo: si può venire meno agli impegni per necessità oggettiva ma anche per volontà politica. Alcuni paesi come Argentina, Ecuador e Islanda si sono rifiutati di pagare, in quanto il debito era stato contratto in maniera vessatoria e illegittima rispetto al compito primario che ha uno Stato democratico: il benessere del suo popolo. Quindi l’insolvenza sovrana può essere non solo un obiettivo di liberazione dai lacci dei mercati finanziari ma un atto pienamente legittimato a livello di diritto internazionale. Va ricordato che nel 1863 la Francia di Napoleone III invase il Messico a seguito di una dichiarazione di insolvenza e che qualche anno più tardi la Gran Bretagna occupò l’Egitto per la stessa ragione.

Nel caso della Federazione Russa è diverso. Come tutti gli Stati, la Russia ha un debito pubblico piuttosto basso: 19,2% sul pil nel 2020, 17% nel 2021 e prevede il FMI 16,7% per il 2022; i creditori in parte sono stranieri, anche se dopo il 2014 la Russia ha diminuito molto la sua esposizione verso l’Occidente.

Nonostante la guerra e le sanzioni, Mosca ha continuato a pagare regolarmente i propri creditori, non realizzandosi le aspettative di default di aprile scorso.

La situazione è la seguente: la Russia ha emesso bond in altre valute per circa 18 miliardi $ (quelli denominati in rubli non costituiscono un problema); il 70% dei quali è dovuto a creditori interni (che possono essere pagati in rubli: nessun problema). Del rimanente 30% circa 2/3 possono essere saldati in altre valute senza problemi di sanzioni. Resta quindi quel 10%. Poiché i russi stanno incassando molta valuta straniera, quindi, non hanno certo problemi di solvibilità. Il problema è il pagamento. L’ente statale russo, il National Settlement Depository (NSD), da cui il flusso parte, è soggetto a sanzioni occidentali. Il Tesoro statunitense aveva concesso una scappatoia per permettere ai propri creditori di incassare, fino al 25 maggio scorso. Adesso a quanto pare tale finestra si è chiusa, l’Amministrazione Biden ha deciso di spingere la Russia al default, e la transazione che doveva essere compiuta con il limite massimo del 27 giugno non è avvenuta. Moody’s dichiara l’insolvenza.

Il ministro russo delle finanze nega il problema: secondo lui il pagamento è partito a maggio e se non ha raggiunto i destinatari non è un suo problema.

È un mondo rovesciato: solitamente i governi spingono a far rimborsare i loro creditori ad ogni costo, in questo caso il debitore fa di tutto per pagare ma è lo stato di destinazione a creare problemi.

A parte un episodio di insolvenza nel 1998, è la prima volta che Mosca entra in default dai tempi di Lenin, quando i bolscevichi decisero che non avrebbero onorato gli impegni contratti dal governo dello Zar.

A breve termine non ci saranno conseguenze significative. A seguito di un’insolvenza normalmente il paese viene attaccato e subisce pressioni politico-diplomatiche; i beni dei suoi cittadini ed aziende all’estero possono venire congelati e sequestrati, e si perde la fiducia dei mercati internazionali. Ma questo nei confronti della Russia sta già avvenendo, ed in maniera inusitata, con l’esclusione completa dai mercati finanziari internazionali. Alcuni analisti avanzano l’opinione che una dichiarazione formale di inadempienza debitoria bollerebbe il paese per un periodo più lungo di quanto non possano durare le sanzioni, ma il periodo per cui Mosca resterà un paria per gli Stati occidentali non è conoscibile oggi. Il governo russo fa sapere che se tale dichiarazione avverrà ricorrerà al tribunale contro tale stigma. Non ha specificato a quale foro legale si possa ricorrere nel contesto in cui tutte le istanze istituzionali super partes sono state indotte a schierarsi.

Nel medio termine è probabile che le cose si sistemino anche se il blocco euro-atlantico mantiene le sanzioni. A parte quelle congelate dagli occidentali, la Russia ha riserve in altri paesi che sarebbe difficile sanzionare, e attraverso essi non sarebbe difficile organizzare triangolazioni attraverso governi amici, con un po’ di margine per banche e intermediari.

Non sappiamo come finirà la vicenda. Le dinamiche debitorie durano decenni anche quando l’attenzione mediatica è scemata, ma è probabile che tale atto costituisca un ulteriore suggello dello svincolarsi del gigante asiatico dall’Occidente per spingerlo verso altre potenze emergenti, creando un panorama di nuovi blocchi contrapposti. Nonostante i noti mal di pancia cinesi in merito alla repentina invasione dell’Ucraina, il legame fra i BRICS non solo appare assai saldo, ma in grado di attirare nuovi membri quali Argentina e Iran, entrambi gravidi di pessimi trascorsi con gli Usa.

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