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Quale politica? Appunti per una cultura della prassi


23 Lug , 2022|
| 2022 | Visioni

Oggi noi assistiamo in parallelo e pericolosamente alla degenerazione dei due modelli di ordine sociale e politico che sono venuti avanti nella modernità: quello politico- statuale e quello economico-mercantile.

Il primo sorto con il Leviatano di Hobbes dalla necessità di scongiurare le morti premature violente dovute alle guerre civili di religione, dunque fondato su di un presupposto assicurativo, da non poco tempo si è avviato lungo una parabola di ripiegamento ed irrigidimento, finendo per incarnare spesso al proprio interno un’ideologia in senso lato xenofoba. Il paradosso è che anche l’altro modello, che risale al ‘700 ed ha ne La Ricchezza delle nazioni di Adam Smith il suo atto fondativo, mostra segni inevitabili di logoramento. Sorto con le migliori intenzioni, su basi simpatetiche ed empatiche, per supplire e superare con l’interazione del «dolce commercio» la contrapposizione degli Stati e, di conseguenza, delle comunità, si è involuto anch’esso in un fanatismo dei mercati e in una mistica della competizione, che dettano legge non solo e non tanto sugli Stati piuttosto direttamente sulle vite concrete degli esseri umani.

Come sempre, l’analiticità dell’approccio non rende giustizia della connessione profonda dei due processi degenerativi. In effetti, «il vivere pericolosamente» imposto dai mercati e dalle agenzie di rating hanno una diretta incidenza sulla chiusura sempre più a riccio dell’altro modello, degenerato a nazionalismo regressivo, che nel cuore dell’Europa si è messo a progettare muri, che sono cose ben diverse dai confini, fino ad arrivare negli ultimi mesi all’aberrazione della guerra in Ucraina. Quest’ultima si può interpretare come l’esito parossistico di un impulso furioso alla sicurezza.

Che fare? La prima mossa è ricominciare a pensare, nel suo significato etimologico di sospensione degli automatismi, nel nostro caso delle coazioni a ripetere delle presunte leggi eterne del mercato. Non c’è dubbio alcuno che se noi ci troviamo al cospetto, in pari tempo, del massimo di superbia da parte della politica e del fanatismo dal lato dell’economico, il difetto è nel manico dell’assenza di pensiero critico. Con le grammatiche di Hegel, il segreto del pensare criticamente è quello di applicarsi sul noto, che quasi mai risulta conosciuto, mediante l’attivazione della struttura autoriflessiva del pensiero, autentica specialità del genere umano. In questo modo le ideologie, quelle derubricate con intento mistificatorio a narrazioni, smettono non tanto di essere ideologia ma di esserlo inconsapevolmente, acquisiscono cioè coscienza di esserlo. La pluralità delle ideologie apertamente dichiarate e non il loro occultamento, sotto un posticcio mantello universalistico, sono l’ancora di salvezza.

Ci sarebbe da subito un guadagno in termini di una pluralità di idee e visioni del mondo alternative che consentirebbe alle società di poter finalmente respirare, al riparo dal pensiero unico e dal politicamente corretto quale suo nefasto correlato. Si aggiunga il particolare che le ideologie richiedono un mondo votato alla pluralità per essere coltivate. Noi oggi con che cosa abbiamo a che fare? Con un decalogo rigidamente mercatista presentato come una teologia senza Dio, che induce, come detto, una involuzione della democrazia in democratura quale sua estrema propaggine caricaturale. Il pensiero unico, con il mercato e non la politica al centro, è il principale responsabile del conformismo imperante e della passivizzazione delle menti, primo male delle nostre società occidentali.

Ovviamente invocare il pensiero critico non basta. Occorre costruire le condizioni immanenti per poterlo esercitare, a partire dal mondo della Scuola e delle Università. Altrettanto ovvio che ci sono rapporti di forza in questo momento così costrittivi e sbilanciati che non consentono di risalire la china tanto facilmente. Ma una politica appena avvertita dovrebbe saperlo ed agire di conseguenza. Pertanto occorre munirsi prima di tutto di una ontologia ovvero di una concezione complessiva della realtà, che la vede non come oggetto inerte intrasformabile, contrapposto al soggetto, ma come possibilità. Detto in sintesi, il pensiero critico richiede un «realismo critico» (C. Galli), vale a dire una concezione del reale inteso come trasformabile, modificabile al fine di umanizzarlo sempre di più. Per fare ciò occorre riprendere, senza magari gli eccessi e gli ardori prometeici, la cassetta degli attrezzi del pensiero idealistico e dialettico, classico (Platone, Fichte, Hegel) ed  eretico (Marx e Gramsci), e ricominciare a pensare il rapporto Soggetto e Oggetto – perlomeno nel mondo sociale e storico – come sinolo di potenza ed atto, alla maniera aristotelica, dove la soggettività è il polo della possibilità  e il mondo storico, sociale e politico, è il terreno di sperimentazioni di sempre migliori libertà. La seconda urgenza da affrontare, come si diceva, è quella di una soggettività politica da costruire già ieri perché non si trova in natura; così da far coincidere, per dirla alla Gramsci, il sentire dolente di quella parte di umanità crescente sempre più esclusa con un pensiero corrispondente dell’emancipazione e del riconoscimento, in primis antropogenetico prima ancora che politico. Una simile costruzione va pensata come impresa corale e dunque agli antipodi dei personalismi tipici di un’antropologia neoliberale a frammenti. Se non si compie questo scarto paradigmatico per davvero saremmo costretti a dare ragione ad Heidegger sulla circostanza che solo un Dio ci potrà salvare.

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