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La lezione del Black Metal
Era l’anno 1982 quando uscì l’album Black Metal dei Venom, che successivamente darà il nome a un intero genere musicale. Erano gli anni del governo di Margaret Thatcher e delle sue riforme neoliberali, del capitalismo rampante, dell’ottimismo economico e della crescita senza limiti. Il mondo sembrava prendere una piega irreversibile, la storia era finita (citando Fukuyama) e l’unica cosa che rimaneva da fare era adattarsi a questa nuova inerzia.
In quegli anni, chi non voleva adattarsi a questo nuovo immaginario fighetto e patinato, si rintanava in sottoculture dedite a immaginari estremi, distopici, oscuri e apocalittici: una di queste era proprio quella del black metal.
Come già anticipato, il genere nasce dall’omonimo album dei Venom, ma trova la sua massima espressione in Norvegia negli anni ‘90, grazie a band come Mayhem, Darkthrone, Satyricon, Emperor, Burzum e via dicendo. In Norvegia il black metal sale agli onori di cronaca quando viene associato a una serie di atti terroristici (in particolar modo distruzione di chiese) compiuti dal cosiddetto “Inner Circle” – una sorta di “setta” che raggruppava gli artisti più attivi del black metal norvegese – culminanti nell’omicidio di Øystein Aarseth (Euronymous) da parte di Varg Vikernes (Burzum).
Lo stile del black metal si caratterizza per il suo essere oscuro e opprimente, dove a riff di chitarra distorti e ossessivi si accompagna il martellante suono della batteria “blast beat” e la gelida voce in “scream”. Le sue tematiche riguardano il satanismo, il nichilismo, il paganesimo, l’oscurità, le foreste, il suicidio, fino addirittura ad arrivare al genocidio e al nazismo (questo in particolar modo nell’NSBM, che io personalmente considero una perversione del black metal). La glorificazione del “male” è un aspetto quintessenziale nel black metal, tanto che Aaron Weaver dei Wolves in the Throne Room dichiarò in un’intervista: «Credo che il vero black metal debba essere negativo. Ha bisogno di essere radicato negli aspetti più oscuri dell’esperienza umana – amarezza, negatività, odio, violenza, guerre tribali, omicidi di massa, questo genere di cose si nascondono nell’esperienza umana».
Non voglio scrivere un articolo sulla Black Metal Theory (su cui è stato già ampiamente scritto in “Hideous Gnosis”), ma riflettere su cosa può insegnarci questo genere musicale in questi tempi di pandemia e di catastrofe ecologica e umanitaria.
Quando ascoltai per la prima volta il black metal, nella fattispecie l’album Filosofem di Burzum, la prima sensazione che provai fu una fortissima angoscia, tanto che mi ci volle qualche ora per farmela passare. La causa dell’angoscia era dovuta alla profonda incomunicabilità che tale genere mi trasmetteva: i riff di chitarra distorti e ossessivamente ripetitivi, il gelido scream di Burzum e la pessima qualità della registrazione che sporcava irrimediabilmente il sound e che dava la sensazione di una “nebbia” di interferenza. La sensazione è quella di trovarsi catapultati in un mondo oscuro, informe, svuotato di ogni significato, totalmente indifferente a noi e ai nostri significati.
La cosiddetta “oscurità” tanto evocata nel black metal è proprio questo orizzonte di incomunicabilità dove esso ci catapulta, dove ogni significato viene annullato e ci si ritrova essenzialmente soli, svuotati e spaesati in mezzo a questa valle di suoni cacofonici e distorti. Questa sensazione di solitudine e di vuoto sono una vera e propria dimensione esistenziale, assai diffusa nel del tardo capitalismo, che tuttavia tendiamo a nascondere dietro le false certezze dei prodotti di consumo, dietro l’estetica patinata e pastellosa del neoliberismo che ci fa credere di vivere nel “migliore dei mondi possibili”.
Quello prodotto dal tardo capitalismo è tuttavia un mondo contro l’uomo all’interno di un mondo indifferente all’uomo, ossia la Natura. Da quando l’uomo esiste, esso ha sempre dovuto fare i conti con la profonda indifferenza della Natura nei suoi confronti: la Natura infatti non prevede nessun piano, né missione per noi umani, che potevamo benissimo nemmeno venire alla luce. È proprio a partire da questa situazione di indifferenza della Natura che l’uomo sviluppa la tecnologia per poter garantire la propria sopravvivenza ed emanciparsi così da essa. La tecnologia, concepita come orizzonte di emancipazione e liberazione dell’uomo, ha tuttavia finito negli ultimi decenni per renderlo ancora più schiavo e costringerlo a una guerra insensata contro l’ambiente stesso in cui vive. Il capitalismo, la diffusione della cultura del consumo, l’ideologia della crescita infinita, hanno inaugurato un’era geologica chiamata “antropocene” (dove gli umani e i loro prodotti occupano la maggior parte della superficie terrestre) caratterizzata da disastri ecologici che si ripercuotono sulla sfera umana. Parliamo infatti delle nanoplastiche, dell’inquinamento, delle zoonosi, degli antibiotici, dei disastri del riscaldamento globale e così via: tutti questi fenomeni prodotti dall’antropocene si ripercuotono nella sfera umana (tramite crisi economiche, pandemie, migrazioni di massa ecc.) in quanto è l’uomo ad aver bisogno della Natura e non il contrario.
I disastri ecologici e gli effetti che subiamo ci riportano proprio a quella dimensione oscura, angosciante e insensata evocata dal black metal, dove le nostre false certezze crollano e ci sentiamo soli e spaesati. Ricorderemo infatti tutti la sensazione che abbiamo provato durante le prime fasi del Covid, così come ci ricorderemo presto delle sensazioni che ci provocherà la crisi alimentare ed energetica. Il black metal ci insegna esattamente questo crollo delle illusioni, riportandoci proprio a quella situazione di incomunicabilità e di indifferenza che abbiamo cercato di coprire tramite i vari prodotti di consumo. Il riscaldamento globale non parla con noi, così come non parlano con noi le nanoplastiche e i batteri che diventano resistenti agli antibiotici: non saranno i nuovi prodotti di moda a farli parlare e a restituirci quell’orizzonte di senso andato perduto per sempre.
Questo è probabilmente l’insegnamento più importante che il black metal ci vuole dare, ma è solo facendo un passo in più rispetto al suo nichilismo che possiamo comprendere un’altra lezione ancora più grande.
Forse il black metal, oltre a esprimere un disagio, esprime anche un’ambizione: quella di un ritorno a questa Natura che è sì indifferente rispetto a noi, ma è pur sempre la nostra casa. Questo lo si nota soprattutto in quel filone chiamato “pagan black metal”, che invoca un ritorno al paganesimo antico, a un legame profondo con i ritmi naturali, con i suoi cicli. È a partire da questa consapevolezza del legame necessario con la Natura che forse l’uomo può accedere a una dimensione ancora più autentica rispetto a quella dello sgomento e del terrore dinnanzi all’indifferenza, ossia quella che lo vede non più come nemico e dominatore, ma alleato e compagno del non-umano (piante, animali, microrganismi ecc.). Si tratta di quella condizione che Timothy Morton definisce “iposoggettività” (contrapposta all’ipersoggettività): una soggettività non più votata alla grandezza, alla trascendenza, al dominio oppressivo della Natura e dei propri simili, ma ricondotta alla sua immanenza, alla sua impermanenza, al “pensare in piccolo” e alla necessaria solidarietà.
Io mi considero ancora un umanista radicale, quindi non posso certamente sostenere una visione “romantica” della Natura. Come ho scritto prima, la natura è inumana, indifferente e mostruosa (e questo i nostri antenati pagani lo sapevano bene, dal momento che la natura era popolata da spiriti irascibili), ma dobbiamo conviverci, perché siamo noi ad appartenere a lei e non il contrario. Dobbiamo rispettare questo mondo inumano, dobbiamo riconvertire la nostra tecnologia all’alleanza e al rispetto, non al dominio prometeico della natura: solo in questo modo possiamo davvero DIVENTARE umani nel senso più compiuto del termine.
Se così non sarà, se questa lezione non verrà appresa, allora il black metal sarà soltanto la colonna sonora della nostra stessa estinzione.
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