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10 punti per un programma sul lavoro costituzionalmente orientato


4 Ago , 2022|
| 2022 | Visioni

Quelli che seguono sono alcuni punti scritti di getto pensando al mondo del lavoro che vorrei.

Li rassegno qui, tra le colonne de La Fionda, la rivista nella quale mi sento a casa, e li metto a disposizione di chiunque.

Non pretendo che risultino esaustivi, ci mancherebbe: il mondo del lavoro ha subito tanti di quegli attacchi, alcuni dei quali dall’esecutivo in carica, che sarebbe difficilissimo riassumere tutto ciò che davvero vorrei per la comunità del lavoro di questo paese. Una comunità che possa godere di diritti e tutele che uniscano, a prescindere da ogni aspetto caratterizzante la persona umana, restituendo dignità all’Italia e al suo popolo.

1. Non è banale elaborare delle proposte in materia di lavoro perché non si tratta solo di ragionare sulla condizione che gli individui vivono sui luoghi di lavoro: essa è centrale, ovviamente, ma lo sono anche (forse persino di più) le implicazioni sul piano sistemico, democratico, costituzionale.

Ricostruire un sistema costituzionalmente orientato in materia di lavoro significa lottare per la democrazia. Detto in altri termini: le riforme in materia di lavoro sono state, sono e saranno sempre riforme di potere.

È al lavoro che la Costituzione affida il compito di vivacizzare la vocazione democratica del paese:

  • L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro;
  • È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli [che limitano] (…) l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori;
  • Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione (…) in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

Sono solo alcuni esempi: se ci discostiamo dal modello costituzionale di lavoro, vengono meno la democrazia e la libertà del popolo. Le élite dominanti, la finanza internazionale, sono perfettamente consapevoli di ciò e difatti è su questo che hanno puntato negli anni: tutti hanno chiesto di flessibilizzare (FMI, OCSE, Banca Mondiale, Unione Europea, BCE, etc.) per ottenere il risultato di incatenare, dominare le masse.

2. È essenziale abbattere, o quantomeno ridimensionare all’osso, la flessibilità del lavoro.

Va tuttavia realizzato senza creare una guerra tra poveri: dobbiamo essere in grado di distinguere le grandi imprese dalla piccola e media imprenditoria. Si è nel tempo creato un sistema vizioso: ogni volta che si riduce la flessibilità, la piccola e media imprenditoria paga i costi maggiori; ogni volta che si aumenta la flessibilità, la grande multinazionale raccoglie i maggiori vantaggi.

Dobbiamo spezzare questa logica.

Ebbene, bisogna ridurre la portata di riforme che hanno flessibilizzato all’estremo i contratti di lavoro. Il contratto c.d. non standard deve tornare ad essere un’assoluta eccezione: oggi tutto lo stock in ingresso nel mondo del lavoro è precario e, in questo momento, l’Italia registra il più alto tasso di precarietà mai registrato nella sua storia.

Il contratto a tempo determinato deve essere assolutamente residuale, limitato a circostanze specifiche previste dalla legge (non dai contratti collettivi aziendali come voluto da Draghi) e soprattutto certificate e verificabili. Non solo: non è giusto affidare gli stessi strumenti ad aziende grandi e piccole. Le grandi imprese, forti economicamente, devono essere escluse dal ricorso a queste forme contrattuali: assumerebbero comunque.

Il lavoro in somministrazione, a tempo determinato ma a maggior ragione a tempo indeterminato (vecchio staff leasing), va abolito.

I contratti di apprendistato (di vario tipo) devono avere programmi seri di formazioni che li sottendano: vanno certificati e verificati prima, durante e dopo il rapporto.

Lo stage non è un contratto di lavoro anche se la vulgata continua a presentarlo in questi termini: va abolito in quanto adoperato quale strumento di sfruttamento e lavoro gratuito.

A proposito di formazione, siamo ormai stati abituati all’idea per la quale la formazione fine a se stessa non serva, che debba avere necessariamente una implicazione pratica, economica funzionale al sistema di sfruttamento. Se ci pensate non è un’idea nuova: un tempo la cultura, in particolar modo umanistica, era riservata ai ricchi. Per la finanza, i poveri dovevano imparare un mestiere e rendersi funzionali al profitto di pochi. La c.d. buona scuola, voluta dallo stesso governo (non a caso) che ha approvato il jobs act, va abolita: è inaccettabile che gli studenti vengano strappati dai banchi di scuola e trascinati giovanissimi su luoghi di lavoro pericolosi fino a morirvi.

In generale i contratti precari devono risultare assai onerosi e il contratto a tempo indeterminato più vantaggioso, sostanzialmente più vantaggioso, di qualsiasi contratto precario. È fondamentale investire sui controlli: la funzione ispettiva è essenziale (in questo ambito ma non solo) e servono importanti risorse pubbliche, difficilmente impiegabili nella gabbia eurounitaria.

Fondamentale è una riflessione in tema di appalti selvaggi, delocalizzazioni e contratti di rete: forme di precarizzazione che danno luogo a ricadute sociali incostituzionali e insostenibili.

3. È essenziale abbattere la flessibilità nel lavoro.

Il jobs act ha provato a liberalizzare il controllo a distanza: bisogna fare chiarezza sul punto specificandone l’illegittimità in quanto lesivo della dignità della persona umana.

Il jobs act ha completamente liberalizzato il demansionamento: l’attuale legislazione, oltre ad aver completamente cestinato le conquiste degli anni ’70, ha persino instaurato regole meno protettive di quelle del ’42. Si torni alla normativa precedente agli interventi dal governo Renzi.

La legge Fornero e il jobs act hanno di fatto legalizzato il licenziamento illegittimo. In caso di licenziamento, oggi, se il giudice accerta l’illegittimità del provvedimento non ha gli strumenti giuridici per restituire il lavoro alla persona cui è stato sottratto. Il lavoro è pane: in Italia è stato legalizzato il furto del pane. È essenziale recuperare l’originaria previsione dello Statuto dei Lavoratori: con la reintegra e il risarcimento del danno (assai diverso dalle indennità). E questa volta anche per le piccole e medie imprese: non si allontana la persona dal lavoro senza adeguata motivazione disciplinare ed economica.

La flessibilità nel lavoro (insieme a quella del lavoro) ha reso ricattabili gli individui e questo ha ricadute gravissime sulla democrazia costituzionale: una persona ricattabile, esposta alla ritorsione, non parteciperà, in azienda e in generale nel paese.

4. Esiste conseguentemente un grosso problema legato alla effettività delle regole in materia di lavoro.

Chi è ricattabile, oltre a non partecipare per pretendere migliori condizioni di lavoro, non sarà in grado di lottare perché i suoi diritti vengano rispettati: i morti sul lavoro (oltre 1000 nel 2021 e in salita nel 2022) sono spesso morti di precarietà.

5. Restituire forza contrattuale ai lavoratori, con l’abbattimento della precarietà (e con politiche economiche di piena occupazione), di per sé induce un aumento delle retribuzioni. Nel frattempo, è comunque necessario introdurre meccanismi di indicizzazione delle stesse, abbattendo il falso mito neoliberista secondo cui indurrebbero (tali meccanismi) un circolo vizioso nella spirale inflazionistica. Aumentare gli stipendi crea ricchezza per i più fragili, per i molti, viceversa arricchiamo i soliti noti, impoverendo chi ha più bisogno: il popolo, la vera comunità nazionale.

6. La contrattazione collettiva è fondamentale, ma è importante che sia una buona contrattazione collettiva. I contratti c.d. pirata devono essere messi fuori legge: non sono essi a limitare l’autonomia sindacale.

Ogni forma di deroga peggiorativa introdotta mediante accordi territoriali o aziendali va evitata e, soprattutto, va abolito il c.d. decreto Sacconi, voluto dalla BCE di Draghi nel 2011 e varato dal governo Berlusconi, che consente ad accordi aziendali e territoriali di modificare in peggio persino disposizioni di legge.

7. Si parla molto di incentivi e sgravi fiscali in relazione alle assunzioni: è un’arma a doppio taglio.

Al netto delle agevolazioni fiscali, resta un problema di sostenibilità economica del lavoro dipendente: anche se aiuti fiscalmente il piccolissimo artigiano, egli farà comunque fatica a tenere in piedi un rapporto di lavoro. Le agevolazioni fiscali saranno un banchetto per la grande impresa multinazionale, finendo per costituire una forma di redistribuzione economica dal basso verso l’alto. Detto in altri termini, con le imposte finanziamo le multinazionali che sono ricchissime già di loro.

Gli incentivi vanno aumentati di molto, ma riservati alla piccola e media imprenditoria: nessun vantaggio, se non minimo, per la grande impresa.

8. Il fronte del lavoro deve compattarsi: basta scontro tra dipendenti pubblici e privati e basta scontro tra dipendenti ed autonomi. Non è vero che togliendo agli uni si da qualcosa in più agli altri: anni di flessibilizzazione del mondo del lavoro subordinato, che vantaggi hanno dato al lavoro autonomo?

La piccola e media imprenditoria va sostenuta con grandissima forza: è patrimonio economico e culturale del paese. Così come le c.d. partite iva: il fenomeno dei finti autonomi va scardinato, sradicato. I diritti devono diventare il nuovo campo comune. Per tutti: anche per i lavoratori della gig economy, lavoratori di fatto subordinati che meritano le stesse tutele di tutti gli altri.

9. Una ulteriore riflessione meritano le nuove modalità di prestazione lavorativa, prima fra tutte lo smart working. Se marginale, un paio di giorni a settimana ben regolamentati, può essere un ottimo strumento di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Viceversa, inteso come nuovo paradigma ordinario e generalizzato del lavoro (peraltro deregolamentato), finisce col diventare uno straordinario sistema di dominio dei pochi sui molti.

Il diritto alla disconnessione deve essere reale e cogente: superato il limite massimo di tempo previsto da leggi e contratti i sistemi di lavoro devono essere tecnicamente disattivati. Il meccanismo deve essere certificato e verificabile dall’autorità individuata come competente. La lavoratrice e il lavoratore devono avere diritto a tutti gli istituti retributivi (in senso lato) previsti per il lavoro in presenza: quali buono pasto e indennità varie. Deve essere erogato un contributo economico laddove il lavoratore utilizzi mezzi propri: utenze domestiche di vario tipo. Esso deve essere sostanzioso, in modo da coprire il costo delle utenze ma anche l’usura degli impianti (es. di condizionamento ambientale). Il datore di lavoro deve essere responsabile della salute e della sicurezza dei lavoratori: formando adeguatamente il personale e fornendo tutti i dispositivi di sicurezza necessari.

Se il lavoro è smart, deve restare tale: nessun tipo di vincolo circa il luogo dal quale prestare la propria opera deve essere esercitato dal datore di lavoro.

10. Un elemento deve essere chiarissimo: il diritto è sovrastruttura dell’ordine economico pertanto stabilire delle regole protettive in materia di lavoro, che non siano supportate da politiche economiche espansive che puntino alla piena occupazione è semplicemente inutile: resteranno carta straccia perché la fame indurrà qualcuno fuori dal sistema a vendersi per pochi euro pur di sopravvivere e di provare a garantire un futuro alla famiglia.

Ecco perché le élite neoliberiste fingono di voler combattere la disoccupazione: la disoccupazione è strutturale, funzionale al dominio sul fronte del lavoro. La piena occupazione, non a caso prescritta dalla nostra Costituzione, infonde grandissima forza alle lavoratrici e ai lavoratori. Ecco perché gli organismi internazionali e sovranazionali ci spingono verso politiche economiche austere: sono la chiave per indebolire i lavoratori.

In definitiva, il modello di lavoro del paese deve essere costituzionalmente orientato: solo il modello costituzionale di lavoro è in grado di garantire vitalità e vivacità alla vocazione democratica dell’Italia, emancipazione dei più deboli, sovranità popolare.

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