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Turismo e/o produzione?


6 Ago , 2022|
| 2022 | Visioni

 Nei mitici (e mitizzati) anni sessanta l’Italia vantava il 12% dell’intera produzione europea, immediatamente dopo Inghilterra, Francia e Germania. Sul territorio nazionale insistevano grandi industrie in grande espansione: Fiat, Candy, Ignis, Olivetti ecc. Trainanti le aziende di Stato: l’Eni per le fonti energetiche e l’Iri che determinò la nascita di una moderna industria siderurgica. Un boom non c’è dubbio che alimentava la speranza per il futuro, anche se il costo di questo straordinario balzo in avanti fu sopportato in buona parte dalle classi lavoratrici i cui salari erano eccessivamente bassi. Ciò nonostante, il Paese si avviò a conquistare rapidamente un livello di benessere diffuso e inimmaginabile alla fine della guerra.

 Oggi quella capacità produttiva non esiste più: produciamo sempre meno e compriamo sempre più dai Paesi dell’Oriente del mondo. Le ragioni sono varie; alla fine conta che la nostra economia si è parecchio indebolita e il processo di caduta è ancora in corso. Cosa abbiamo pensato di fare? Di sfruttare il nostro ambiente e di aprirci al turismo: il Paese è il Bel Paese e abbiamo messo a reddito arte, storia e paesaggio. E pensiamo di farlo sempre di più: ora siamo al 5% del PIL nazionale (e il 13% di quello generato indirettamente). È come se avessimo cominciato a godere di una rendita di posizione; e ci siamo ingegnati in questa direzione avvalendoci anche di certe fanfaluche mediatiche globali o quasi globali: un esempio la Padova Urbs Picta divenuta patrimonio Unesco, come se il Giotto degli Scrovegni avesse bisogno di targhette di questo genere. E via di questo passo; era la cosa più facile che si potesse fare. Ma la domanda che ci si deve porre è questa: questo gettarsi nel turismo quale che sia ha avuto solo effetti positivi o effetti più positivi che negativi? Mi pare che si debba rispondere negativamente: vediamo.

 Consegnarsi al turismo ha costituito una sorta di alternativa che ha finito con il favorire il processo di ridimensionamento industriale, con il conseguente arretramento dell’Italia nella scala economica mondiale. Com’è stato scritto da Francesco Iannuzzi, in questa prospettiva, di cronicizzazione della crisi, il turismo è stato una facile e comoda alternativa, «una panacea della deindustrializzazione». Non richiede una particolare specializzazione nei lavoratori, rilancia la proprietà anche piccola (b&b e locazioni ad uso turistico), l’impresa è di massima né particolarmente costosa nelle attrezzature né particolarmente complessa nella gestione. Questo ingresso facile ha condizionato e deviato gli amministratori locali che, pressati da albergatori, ristoratori, commercianti, si sono dimostrati pronti a cedere (in cambio di un po’ di voti) il patrimonio storico, artistico, paesaggistico al desiderio di profitto dei soggetti interessati, in un comparto che non sembra esigere particolari sforzi da profondere o rischi da assumere.

 V’è dell’altro. Il turismo, confermano i dati, resta uno dei settori a più bassa produttività e ha il difetto di essere spartito tra microimprese (che, per il 93%, impiegano da uno a quattro addetti). Le imprese turistiche sono ad alto consumo di risorse, anche (purtroppo) ambientali e di impatto ecologico. I lavoratori addetti sono spesso oggetto di sfruttamento: lavoro stagionale, contratti a tempo determinato o in nero, livelli mediamente molto bassi di inquadramento (i quadri sono lo 0,4% e i dirigenti solo lo 0,6%), basse o quasi nulle le probabilità di avanzamento professionale, orari massacranti, ritmi intensi e pesanti carichi di lavoro. Nel 2020 la più alta percentuale di irregolarità (73%) è stata accertata proprio nel comparto turistico.

 Si potrebbe proseguire; ma preoccupa più di tutto il danno paesaggistico-ambientale certamente provocato da un turismo che ho già definito insaziabile: conseguenza di una commistione tra operatori e turisti troppo spesso non educati al rispetto dei contesti frequentati e piuttosto ansiosi di guadagnare, da una parte, di consumare e divertirsi anche sguaiatamente dall’altra. Con la connivenza colpevolissima, è bene ripeterlo, degli amministratori pubblici.

 C’è da ripensare e riorganizzare strategicamente un settore che ha certamente la sua importanza per il nostro Paese. Il criterio dovrebbe essere quello dell’uso moderato. E moderazione dovrebbe usarsi anche nella valutazione delle positività economiche della scelta di affidarsi al turismo per sopperire al progressivo deficit produttivo. A parte tutto, il comparto turistico è di per sé affidabile fino a un certo punto perché è, com’è stato scritto, molto sensibile a eventi incontrollabili. La pandemia lo ha dimostrato. Ma i fattori che potrebbero influire sono molteplici: terrorismo, criticità ambientali e politiche ecc. Di più, ancora, la volubilità intrinseca delle preferenze dei turisti, oggi qua, domani là. Tutto ciò introdurrebbe il discorso sull’opportunità di una riconversione produttiva del Paese. Non mi pare che nella magica ‘agenda Draghi’ se ne accenni. Ma non ne ha (finora) parlato nemmeno il dott. Calenda. Vedremo.  

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