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La sostenibilità ambientale: una questione politica
Ciò che sconcerta, nel panorama della sinistra italiana, è l’assenza di un reale tentativo di mettere al centro delle piattaforme politiche la questione ambientale. Presente, ma relegata a tema marginale, la crisi climatica ci riporta a una tale complessità da coinvolgere la gran parte delle materie soggette alla decisione politica.
Il tema ambientale non può esser la cenerentola della politica, bensì deve costituirne la condicio sine qua non affinché si possa ancora parlare di una politica non subordinata all’elemento economico.
L’emergenza climatica richiede risposte adeguate da parte della politica che i mercati non sono in grado di dare. Questi possono reagire e adattarsi ai cambiamenti climatici per conservare determinati profitti. La finanziarizzazione della crisi climatica, con prodotti derivati che assicurino contro eventi avversi, è già in corso ma non rappresenta una soluzione al problema, bensì un correttivo economico per limitare i danni.
È ormai fuori di discussione che il surriscaldamento dell’atmosfera sia dovuto all’attuale modello di sviluppo improntato a un capitalismo iperaccelerato, funzionale a una società il cui valore primario è rappresentato dal consumo smodato di merci e che drena risorse rilasciando inquinamento e rifiuti nell’aria, nell’acqua e nel sottosuolo.
Per questo, mettere la crisi ambientale al centro dell’agenda politica dovrebbe essere prioritario per quelle forze che anelano a un cambiamento che, dati gli eventi tragici che si profilano, non può che richiedere soluzioni radicali. Una nuova critica ecologica, interessando il modello di sviluppo, coinvolge una pletora di questioni che, separatamente, vengono dibattute quotidianamente da politici e media: disuguaglianza tra e all’interno degli stati, migrazioni, guerre, qualità della vita delle persone e loro benessere psicofisico.
La disuguaglianza rappresenta uno dei principali sintomi di uno sviluppo capitalista improntato alla competitività sfrenata tra gli attori economici e al ridursi del perimetro di intervento degli stati nelle materie socio-economiche. I cambiamenti climatici, con il corollario di eventi quali uragani, allagamenti, innalzamento del livello dei mari, salinizzazione dei suoli, siccità e crisi alimentari, solo apparentemente ricadono su tutti in modo uniforme. In realtà, ripercorrono le fratture sociali ampliandole. Le carestie, ad esempio, sempre più frequenti a causa di scarsità idrica, non sono affatto determinate da eventi naturali. In realtà è la gestione politica delle risorse alimentari disponibili a determinare il numero delle vittime. I sempre più frequenti eventi atmosferici avversi impoveriranno oltremodo le frange già povere delle popolazioni costringendole, in molti casi, a migrare.
È ormai assodato che gran parte dei migranti che si spostano per il mondo possono essere definiti migranti climatici. Questi ultimi coincidono spesso con coloro che fuggono da scenari di guerra dato che molte guerre ed eventi violenti sono causati proprio dagli effetti dei cambiamenti climatici. Anzi, spesso, la crisi ambientale, proprio perché riporterebbe alla luce le contraddizioni del capitalismo, viene mascherata da conflitto etnico-religioso, come è successo in Darfur o nella Nigeria di Boko Haram: alla radice di entrambi i fenomeni sta la crisi climatica con il suo strascico di crisi alimentare e di povertà assoluta.
Le guerre sono sempre più originate da logiche di accaparramento di risorse scarse, e tra queste vi è l’acqua, in uno scenario di competizione globale. Si pensi all’opportunità che lo scioglimento dei ghiacci artici offrirà per lo sfruttamento di nuovi giacimenti di combustibili fossili prima inaccessibili. Ciò causerà la competizione tra stati e un ulteriore peggioramento del clima a causa dello sfruttamento di tali giacimenti. Diseguaglianze, corruzione e conflitti interetnici aumenteranno a causa della diminuzione delle risorse e della maggiore frequenza delle catastrofi. Si innesca, quindi, un anello di retroazione positivo tra conflitto, carestia, diseguaglianza, tensione sociale nei paesi più poveri, migrazioni, tensioni sociali nei paesi più ricchi, aumento della povertà, richieste verso gli stati e incapacità degli stessi di fornire risposte adeguate a causa della crisi fiscale; quindi messa in pericolo della stessa tenuta democratica dei sistemi..
L’inquinamento è considerato un male necessario per consentirci un determinato tenore di vita e non si riflette abbastanza sulla sua letalità. Ma rimane la più grave minaccia esistenziale per la salute umana e planetaria e causa nove milioni di vittime nel mondo, come afferma Philip Landrigan, direttore del Global Public Health Program and Global Pollution Observatory al Boston College. Le malattie collegate all’inquinamento, come il cancro, sono affrontate con sempre più difficoltà da sistemi sanitari in affanno a causa delle scarse risorse loro destinate in ossequio alle logiche neoliberali degli ultimi decenni.
Risulta evidente, quindi, come esercitare una severa critica ambientale significa mettere in discussione l’attuale sistema di sviluppo improntato a un capitalismo competitivo e iperaccelerato che fa dei dogmi consumistici e del mantra della crescita del Pil la misura dello stato di salute di una società. Attraverso le lotte ambientali, si pone in maniera incontrovertibile la questione della lotta al capitalismo. Nel 1989, Andrè Gorz introduceva il concetto di razionalità ecologica. Questa consiste nella soddisfazione dei bisogni materiali con una quantità minima di beni con valore d’uso e durata elevati, quindi con un minimo di lavoro, di capitale e di risorse materiali. Esattamente il contrario di quanto necessita la razionalità neoliberale. Alla razionalità ecologica, il capitale contrappone la ricerca del massimo rendimento economico e un maggior profitto resi possibili da un’espansione artificiale dei consumi e dei bisogni. E dalla messa in circolazione di beni la cui vita deve essere necessariamente breve per non saturare i mercati. Come rilevato da Rasmig Keucheyan (La natura è un campo di battaglia), «la crisi richiede la radicalizzazione degli antagonismi di classe, vale a dire la radicalizzazione della critica al capitalismo». Ambiente e conflitto di classe sono due facce di una stessa medaglia e la sinistra dovrebbe assimilare tale lezione. Nulla più della crisi ambientale, nel XXI secolo, può assumere quella portata universale e rivoluzionaria che, nel XX secolo, si riteneva avesse la classe operaia.
La crisi ambientale pone una questione emergente e porta al nocciolo delle contraddizioni del capitalismo. Ma il sistema del capitale non è portato a implodere spontaneamente grazie alle sue contraddizioni. Senza una presa di coscienza ambientale da parte del fronte anticapitalista non si produrrà alcuna crisi che porterà a un cambiamento radicale. Occorre riflettere seriamente sull’occasione di rifondare un pensiero di sinistra su basi ecologiche. Se la critica ecologica viene esercitata all’interno della cultura capitalista le soluzioni non potranno essere che anodine, come dimostrano le aspettative verso tecnologie green che dovrebbero approdare a un velleitario capitalismo eco sostenibile. In realtà, la crisi attuale ci pone davanti all’evidenza che il capitalismo non è sostenibile né socialmente né ecologicamente. Ma tale evidenza potrà essere resa palese solo da chi è fuori da quella logica. Rendere palese tale evidenza dovrebbe essere compito di una sinistra che auspica un vero cambiamento.
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