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Se non voti, poi non lamentarti (e altre stupidaggini pre-elettorali)

La gogna dell’astensionista è una pratica secolare perpetuata allo scopo di evangelizzare i miscredenti di ogni epoca al culto acritico dell’urna elettorale. Bersagliato da ingiunzioni moraleggianti sul sacro dovere di partecipare al rituale democratico, l’astensionista viene esposto al pubblico disprezzo e gratificato di epiteti quali “qualunquista”, “irresponsabile”, “complice dei fascisti” – o dei comunisti o dei populisti o della casta, a seconda della narrazione emergenziale in voga. “Cosa dirai quando verrà l’apocalisse?” s’infiamma l’inquisitore. Oh, sinnerman, where you gonna run to? Sinnerman where you gonna run to? Where you gonna run to? Tramortito, l’empio peccatore vacilla, ed è allora che il sacerdote, fiutata l’opportunità di estorcere il pentimento, ricorre al temibile anatema, minacciando la scomunica, il decadimento del diritto morale di esprimere opinioni politiche e il bando quinquennale dalle taverne del regno: “guarda che se non voti, poi non ti potrai lamentare”. Il reprobo sbarra gli occhi, come inebetito, poi esplode in un’irrefrenabile risata.
È dunque per questo che si vota? Non per un progetto politico né per convinzione, ma per sentirsi in diritto di brontolare? Quale alto scopo!
Ma se chi vota si prepara già a recriminare appena uscito dal seggio, perché mai dovrebbe venir censurato chi, rifiutandosi di andare alle urne, in fin dei conti, non fa che iniziare un giorno prima? Di tutta evidenza non è il malcontento a dividere votante e astenuto, il sentimento sembra anzi essere condiviso. A separarli è perciò solo la dimensione temporale. L’astensionista non viene condannato perché esprime il suo risentimento, bensì perché lo esprime ora, non andando a votare, e non domani, dopo averlo fatto.
A venire stigmatizzato sembra quindi essere il pre-giudizio. La colpa imputata, quella di sentenziare prima di aver assaggiato. Nel caso dell’astensionista prima di aver visto all’opera il tal partito, magari nella sua veste rinnovata, giacché “nessuno ha la sfera di cristallo, non puoi sapere cosa accadrà e certo non puoi emettere condanne preventive”.
Seppur ontologicamente corretto – a rigore non possiamo sapere nemmeno se saremo vivi domani o tra un’ora – questo approccio ci intrappola nella falsa logica dell’istante zero. Il qui e ora diventa il momento-evento da cui sgorga lo spazio-tempo, l’unico sguardo possibile è in avanti, l’unica dimensione politica disponibile è quella futura. Nella trance elettorale il cittadino-elettore perde in un sol colpo la dimensione presente e quella passata. In questo stato di sospensione tutto ricomincia da capo: ogni partito è un nuovo partito, ogni promessa una nuova promessa, tutto è di nuovo possibile ma soprattutto tutto si fa insindacabile.
E invece sindacare si può, altrimenti l’elezione si ridurrebbe ad una scommessa e la scheda elettorale ad una schedina. Il guastafeste richiama allora l’attenzione sul presente, reclama il diritto, anzi il dovere di ciascuno, di giudicare i partiti ora per quel che dicono in campagna elettorale, per quel che scrivono nei programmi, per quel che promettono nei comizi, per le alleanze che stringono. In definitiva, per le prospettive scintillanti che disegnano – e magari anche per quelle più realistiche e meno luminose che tacciono. Non c’è, in verità, nessun momento migliore della campagna elettorale per giudicare l’offerta politica. I partiti si tirano a lucido, indossano il vestito buono, allestiscono le proprie vetrine, ci offrono assaggi gratis dei loro prodotti migliori e sono loro stessi a chiederci espressamente di operare una scelta – si suppone avveduta. E allora ecco che l’astensionista, valutato attentamente il menù scopre che gli è passata la fame; disdegna l’intera proposta, o quantomeno ne diffida. Lo si può biasimare?
La sfiducia – che è cosa diversa dal sospetto, attenzione – apre le porte dell’altra dimensione perduta, quella passata. Quel che racconta, infatti, è la storia di come la fiducia sia venuta a mancare. Siamo quindi passati da posticipare ogni giudizio in attesa degli eventi, a soppesare l’oggi racchiuso nella campagna elettorale, a giudicare il ieri. Il tessuto dello spazio-tempo viene ricucito e tornano disponibili gli eventi passati al di là del qui e ora: cinque anni di legislatura appena conclusi, preceduti da altri cinque e cinque ancora. Scorriamo l’era Conte-Draghi, gli anni Renzi-Pd, il periodo di Monti e Berlusconi. Improvvisamente, il materiale per fare valutazioni macroscopiche e microscopiche abbonda; altro che pregiudizi. Schieramenti, episodi, tendenze, dinamiche di potere, coerenza, competenza, validità delle ricette, solidità dell’ideologia, credibilità dei leader e delle forze politiche: disponiamo di tutti gli elementi per esprimere un giudizio prima del voto, perché non farlo? Perché cullarci nell’illusione che il Pd non sia il Pd, la Lega non sia la Lega, Calenda non sia Calenda?
L’astensionista si strappa a questa ipnosi collettiva e forse, in fondo, è questo a dare fastidio e valergli la nomea di individualista. Nel malcelato sforzo di metterlo all’angolo, si tenta infine la carta delle nuove proposte. “Se non voti nemmeno quelle, allora è proprio malafede”. Si torna al punto di partenza: il tempo non può venire artificialmente sospeso. Che, solo perché nuovi, questi partiti siano vergini e ingiudicabili è una pigra illusione o nel migliore dei casi un ingenuo ottimismo. La discesa in campo è già un atto politico, così come il posizionamento, le alleanze, le candidature, la propaganda e tutto il corollario. La campagna elettorale presente ci fornisce già tutti gli elementi necessari a formulare un giudizio informato. Senza contare che tutti, anche i soggetti politici più recenti, hanno un passato e una storia politica; o se non altro ne sono dotati i suoi esponenti.
Ecco quindi cosa rivendica – per tutti – l’astensionista: il diritto di valutare chi si propone di rappresentarlo, prima di votarlo. E proprio perché vorrebbe votare, proprio perché ci tiene, reclama anche il diritto di lamentare la qualità scadente del menù e di non ordinare alcuna pietanza. Cos’altro potrebbe fare un vegetariano in un ristorante di carne?
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