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Basta! Contro la barbarie dell’alternanza scuola-lavoro
Ha un nome proprio, Giuliano, lo studente schiacciato da un blocco di acciaio di due tonnellate durante uno stage, che le cronache hanno frettolosamente archiviato con l’etichetta di “ennesima fatalità”. A gennaio era toccato a Lorenzo, un diciottenne come Giuliano, in quel caso schiacciato da un lastrone di cemento. Il 14 febbraio è poi morto il sedicenne Giuseppe, dopo che il furgone aziendale su cui si trovava a bordo si è schiantato contro un albero. E ritornano alla mente pagine di Marx del Capitale sulla «strage erodiana dei fanciulli» nelle fabbriche, con relativo feroce sfruttamento, che parevano consegnate per sempre alle pagine di storia. No, non è una fatalità, come vanno ripetendo a mo’ di mantra i principali giornali mainstream, ma è parte di una strage più grande, senza fine: nel primo semestre del 2022 sono già 569 i morti sul lavoro, in media due morti al giorno. Nel 2020 ben 1270 lavoratori non sono tornati più a casa, mentre nel 2021 si è arrivati alla cifra record di 1404 morti. Al lavoro come se si fosse in trincea.
Giuliano era un semplice studente dell’Itis Da Vinci di Portogruaro, probabile un idolo per il suo fratellino di dieci anni, che in ossequio alla legge di riforma denominata in stile orwelliano Buona Scuola si trovava presso una piccola azienda di metalli a caccia di “crediti scolastici”. L’alternanza scuola lavoro incarna l’idea che la scuola debba preparare al lavoro e non più alla vita, distruggendo così l’idea educativa di scuola. Visti gli esiti tragici, ad introiettare precocemente da parte degli scolari che si può anche morire di lavoro. Ma forse è proprio quello che si vuole ottenere: preparare al peggio i giovani. Nel preambolo a La Buona Scuola si legge in bella evidenza che «La scuola serve a promuovere l’autoimprenditorialità degli alunni». Tradotto nelle pratiche quotidiane di insegnamento ciò vuol dire puntare sulle competenze (skills) e allenare, come mastini, al combattimento.
Si badi, però, che la legge di riforma voluta da Renzi, che intensifica solamente la trasformazione delle scuole in azienda e delle aziende in scuola, arrivava alla fine di un lungo percorso partito da molto prima, che anche simbolicamente si può far coincidere col Processo di Bologna, dove ben 29 ministri dell’istruzione europei, compreso l’allora ministro Luigi Berlinguer, gettarono le basi per la svolta. La concezione di fondo, ribadita poi da tutti i trattati ed accordi successivi, era di una scuola quale strumento di formazione di individui atti al lavoro e alla competizione, non più spazio educativo autonomo per formare cittadini e persone pensanti. Ricordiamo che da lì è partito lo scellerato sistema dei debiti e dei crediti scolastici in perfetto stile neoliberista. L’obiettivo dichiarato era quello di creare un’Area Europea dell’Istruzione Superiore per «accrescerne la competitività internazionale».
Ora, una scuola come quella odierna oramai completamente asservita alle esigenze del mercato, si espone al paradosso tragico di scolari che muoiono lavorando, schiacciati da una lastra o da una putrella. Senza che questa ennesima morte generi scandalo e induca a chiedere la sospensione di una pessima legge, fatta eccezione per i compagni di scuola e qualche solitario esponente sindacale. Segno evidente che il processo di assimilazione della formazione scolastica alle logiche del mercato è una strada tracciata difficile da scardinare. Ne è prova ulteriore la circostanza che i Pcto, tardiva traduzione nell’ennesimo acronimo demenziale dell’Alternanza, non si sono fermati neppure durante la pandemia, assecondando così le “catene del valore” che al contrario della talpa rivoluzionaria non dormono mai.
Ma perché la scuola non può limitarsi ad essere un centro di addestramento e di trasmissione di dati tra docenti e discenti, coi primi in veste di capireparto che sottopongono i secondi, in veste di apprendisti, a batterie di test, quiz e misurazioni di ogni genere? E’ di vitale importanza per una società democratica o, meglio, che aspira perlomeno ad esserlo sempre di più, formare delle persone autonome, consapevoli di sé e soprattutto del mondo che abitano. Già Hegel nei Lineamenti di Filosofia del Diritto (1821), della finalità educativa, sottolineava quella «di innalzare i figli […] all’autonomia e alla libera personalità e con ciò alla capacità di uscire dell’unità naturale della famiglia»[1], per accedere alla «famiglia universale» della società, con le sue interne potenzialità e contraddizioni. Per tornare al presente e al nostro Paese, la scuola dovrebbe occuparsi, come recita mirabilmente la nostra Costituzione, della fioritura delle personalità dei giovani e, dunque, della formazione dei futuri cittadini, consapevoli di sé e del proprio posto nel mondo. E, viceversa, dismettere di occuparsi dei consumatori della formazione, come pure recitano taluni programmi ministeriali, emblematico di uno spirito del tempo che con le grammatiche gramsciane potremmo definire del «cretinismo economico».
Basterebbe riferirsi alla radice greca del termine scholé per scoprire che si tratta di quella dimensione di tempo libero, sottratto per principio alle necessità utilitaristiche. Per i Greci era quello il “tempo propizio” o “cairologico” (kairos) alla paideia, intesa come formazione totale di sé. Significato questo che poi trasmigrerà quasi integralmente nel latino, educere che significa per l’appunto condurre su, sollevarsi, trarre da sé mediante uno sforzo (che è poi alla base di quella autonomia del pensiero rivendicata da Kant nel motto sapere aude!).
La relazione, poi, così impostata tra egualmente liberi fa della scuola da sempre il luogo insostituibile per quei processi tanto delicati quanto necessari di riconoscimento reciproco. Agamben al riguardo parla di studentato per riferirsi a quelle comunità coese rigorosamente articolate orizzontalmente: «Chiunque ha insegnato […] sa bene come per così dire sotto i suoi occhi si legavano amicizie e si costituivano, secondo gli interessi culturali e politici, piccoli gruppi di studio e di ricerca, che continuavano a incontrarsi anche dopo la fine della lezione»[2].
Tutta questa immane ricchezza è irrimediabilmente perduta se la scuola si riduce ad essere ancella dell’utile economico. La politica del futuro se ne faccia interprete.
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In questi ultimi minuti si apprende che altri due operai di Como hanno perso la vita nel loro capannone. La macabra media quotidiana risulta così rispettata…
[1] Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari,2004, § 175
[2] Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, 2020, Macerata, p.100
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