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Elezioni 2022: chi vince, chi perde


26 Set , 2022|
| 2022 | Sassi nello stagno

A spoglio appena concluso abbiamo già abbastanza elementi per capire com’è andata e chi vince veramente questa tornata elettorale.
Si potrebbe suggerire tre criteri per valutare i risultati, corrispondenti alle seguenti domande: com’è andato il voto rispetto ai precedenti, rispetto alle aspettative e rispetto ai propri (eventuali) partner di coalizione.


Centro-destra, poco centro e tanta destra. La coalizione guidata da Fratelli d’Italia si afferma in maniera netta. Il suo partito guida ottiene alla Camera oltre il 26%, resta fuori la “quarta gamba” di Noi Moderati non facendo nemmeno 1%. Complessivamente il totale coalizione è ben oltre il 40% (44% al Senato, 43,8% alla Camera, oltre 12 milioni di voti). Le attese di vittoria delle destre sono pienamente confermate, ma senza sorprese come il trionfo del M5S nel 2018. Ma viene trainata da FdI mentre arranca la Lega, che confermando le attese di grave affanno si colloca poco sopra Forza Italia, non arriva al 9%. La coalizione vede quindi un gigante fra due nani. La Lega, nel saliscendi delle montagne russe che dalla traversata nel deserto del 4% delle politiche del 2013 era risalita al 17% nel 2018 librandosi verso un ipotetico 34% dei sondaggi nel 2018, ridiscende all’8% (reale). Per Salvini è un disastro, rispetto alle scorse elezioni ha la metà dei voti e dagli oltre 5 milioni se ne ritrova a stento due e mezzo. Lo attende una fase congressuale difficile.
Le destre hanno una alleanza rodata, un programma in comune, diverse elezioni già fatte assieme e potevano parlare di programmi quando a luglio il Pd era ancora in trattative in alto mare per le alleanze, che è qualcosa che sa di molto politiche e autoreferenziale, figuriamoci la telenovela di stop-and-go di Calenda. Hanno fatto quasi cappotto sui seggi uninominali. La solidità del risultato di FdI significa che Meloni darà le carte. Nel breve-lungo periodo forse scatterà una competizione interna ma per ora l’egemonia di Meloni, che da sola ha solo sei punti sotto la somma degli alleati messi assieme, sembra solida. Ma è affidata alla forza di uno solo dei soggetti che la compongono, e non raggiunge la quota di 2/3 nel Parlamento.
A dispetto di chi in modo un po’ catastrofista paventa una “onda nera” bisogna ricordare che nel 2018 la stessa coalizione prese il 37%, solo 5-6 punti meno di adesso, ottenendo il 41-43% dei seggi nelle Camere; nel 2013 non erano arrivati al 30%, mentre nell’ormai lontano 2008 ben il 46%. Più di oggi.


Il centro-sinistra invece, conferma le previsioni di sconfitta, se non peggio. Il Pd anziché tallonare FdI resta al 19%, Di Maio non arriva all’1% e +Europa non sfonda il quorum del 3%. Molto meglio Verdi e Sinistra con un 3,6%. La coalizione arriva al 26%, come FdI da solo, ma meglio del Pd di Renzi che senza LeU restava in solitaria con frattaglie progressiste al 18%. La magistrale incapacità di Letta di allargare la coalizione, sacrificando l’alleanza con Conte alla cd. Agenda Draghi (nella presumibile illusione che essa riscuotesse un effettivo consenso popolare) ha regalato alle destre la preminenza in importanti roccaforti, pure in Toscana e Emilia-Romagna.


Il M5S è assieme a FdI il vero vincitore della competizione. È ben vero che il consenso trasversale del 2018 è dissolto per sempre, ma le attese di crollo sotto il 10%, indotte anche dal pessimo risultato delle scorse amministrative, è stato smentito con una ripresa soprattutto al sud, dove in diverse regioni è il primo partito (anche se superato alla coalizione di destra), in Campania supera tutti con il 34,8 % e si aggiudica 4 seggi uninominali su 5 al Senato e tutti quelli in Campania 1 alla Camera. Con un lusinghiero 15,4% nazionale potrà cercare una nuova alleanza col Pd (specialmente con la archiviazione del terrificante grigiore doroteo da burocrate triste di Letta) o competere con esso sul versante progressista da una posizione di quasi parità. È un fatto che il M5S si è ritrovato nella posizione di alternativa progressista rispetto allo scialbo Pd, con la certezza del quorum che presumibilmente ha esercitato la pressione del “voto utile” contro partiti di segno emancipazionista più radicale ma più piccoli. Interessante il sostegno di Tomaso Montanari, per esempio, da sempre molto vicine a istanze si sinistra radicale.
Dopo l’innamoramento per Draghi il Pd si è reso conto che doveva trovarsi un ruolo più elettoralmente fruttuoso che la custodia del cenotafio del draghismo, quindi ha puntato tutte le carte sull’essere la alternativa a FdI. Probabilmente l’elettorato ha recepito tale polarizzazione ma non configurando il Pd come il destinatario dei voti anti-destra in maniera esclusiva.


Calenda viaggia verso l’8% senza arrivarci. Non raggiunge nemmeno la doppia cifra, ma era un obbiettivo molto difficile – e dopo aver basato la campagna elettorale sul riportare Draghi a Palazzo Chigi, dopo la dichiarazione dell’interessato di non essere disponibile pare pure troppo. Perde la competizione col più naturale del suo competitor, e cioè Forza Italia, che col sempre immarcescibile Berlusconi tiene con l’8%. La sia pur limitata affermazione di Calenda probabilmente attinge ai flussi in uscita di FI che nel 2018 era al 14%, ed in parte pure al Pd. Renzi, restato in sordina nella campagna elettorale, esce dal recinto del 2%, ma dato che il partito non ottiene nessuno all’uninominale occorrerà vedere la distribuzione delle liste plurinominali. Per ora le stime di Youtrend ipotizzano 21 deputati e 9 senatori.
Delle forze che sbarcano in parlamento possiamo dire che due sono i vincitori: Meloni (prevista) e Conte (relativamente parlando). I perdenti: Salvini (relativamente) e Letta (in maniera netta), oltre a chi pur in coalizione non arriva al quorum: Di Maio, Bonino, Noi Moderati. L’agenda Draghi non pare particolarmente entusiasmante per l’elettorato


Delle rimanenti forze non entra nessuna: Unione Popolare di Luigi de Magistris, Italia Sovrana e Popolare con Marco Rizzo, Italexit di Gianluigi Paragone e altri partitini anti sistema restano fuori come da previsioni. Accanto ad altri fattori si deve forse notare che i temi della guerra, come delle politiche pandemiche (anti green pass e simili) per quanto abbiano scaldato il dibattito nazionale faticano a tradursi in voti, e chi ha costruito un forte posizionamento su di essi, a prescindere dal consenso e dalla efficacia espositiva, resta ai margini dello spettro politico.

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