Tra facoltà di giudizio e legge comunitaria
È anzitutto nel mondo ebraico che si compie, ad un certo punto, una grande scissione: «Per la prima volta in Israele la giustizia, la “legge”, viene sottratta al potere e riposta nella sfera del trascendentale»[1]. La giustizia, attraverso questa sottrazione, viene posta altrove rispetto al potere, o quantomeno altrove rispetto a quello che, qualche secolo più tardi, verrà definito “potere temporale”. Sarebbe interessante analizzare tutto quanto il processo che porta da qui sino all’instaurazione cristiano-cattolica di un nuovo ordine secolare, del tutto simile a quello apparentemente osteggiato in principio e forse ancora più autoritario; tuttavia è il primo slancio che appare fervido di possibilità ed energie, anche da un punto di vista totalmente laico come il presente. Credere che la vera giustizia, al netto di tutti i soprusi, le tribolazioni, le sofferenze terrene (quantomeno economico-sociali), sia in ultima istanza una questione che non riguarda più il giudizio degli uomini, è certamente un modo, da un lato, per porla in un luogo trascendentale (nell’inferno e nel purgatorio per esempio, cioè nei luoghi super partes del giudizio di Dio), ma, dall’altro, è anche una modalità per sottolineare come la giustizia trascenda completamente le possibilità morali dell’uomo politico (èunicamente Dio che, ex lege, può giudicare rettamente le colpe degli uomini e redimere tutti quanti i loro peccati). Depauperare il potere secolare dall’esercizio – ma soprattutto dal monopolio – della giustizia significa avere «Una sede alternativa, rispetto alle sedi del potere politico, per di-scolparsi o per in-colpare»[2], cioè in fondo permette agli individui di avere il potere di giudicare liberamente le incongruità di quella stessa giustizia umana troppo spesso arrogante, fallace ed impunita. Quel che risulta rilevante, al di fuori delle circostanze inizialmente spirituali di tale spostamento, è il furto del “potere di giudizio” dal “potere” al “giudizio”: giudicare la Giustizia, le ingiustizie, i giudizi, etc., secondo quella legge interiore più imperativa di ogni Legge scritta. Sarebbe insomma auspicabile, al di fuori di qualsiasi trascendenza, farsi carico personalmente di questo “potere sottratto al potere” ed assumere su di sé l’onere di questo dovere: bisognerebbe cioè, quantomeno nel nostro animo, mantenere in stato di vigilanza quel luogo di giustizia neutra che possediamo profondamente. «– Se ovunque geme un vostro simile, ovunque la dignità della natura umana è violata dalla menzogna o dalla tirannide, voi non foste pronti, potendo, a soccorrere quel meschino o non vi sentiste chiamati, potendo, a combattere per risollevare gli ingannati o gli oppressi – voi tradireste la vostra legge di vita»[3].
È proprio per assecondare questa imprescindibile “legge di vita” che il Diritto, la Legge, le Norme, dovrebbero – nel massimo grado culturale dello sviluppo di ogni buona società – essere prodotti solamente dalla fonte meno autoritaria di ogni ordinamento, cioè quella della “consuetudine” (usus). È poiché cioè si agisce ripetutamente in una tal maniera che si dovrebbe costituire una Legge, mai viceversa. Questo atto così naturale, e pertanto certamente inviso a quello Stato Moderno fondato idealmente sulla sudditanza, se portato ai suoi estremi più maturi, potrebbe tuttavia comportare una grande acquisizione sociale: poiché la Legge sarebbe null’altro che il prodotto ultimo di un certo modo di agire condiviso – non un che di calato assiomaticamente dall’alto, ma il frutto (in continua maturazione) di un’azione collettiva –, essa diverrebbe allora un che di indissolubilmente legato ad ogni individuo, cioè di intrinseco al buon vivere comunitario. Una Legge di tal natura non sarebbe solo totalmente comprensibile, ma la sua infrazione acquisterebbe tutta un’altra accezione rispetto a quanto si vede accadere nell’ordinamento vigente: un atto illegale non sarebbe più solo l’algida infrazione di un codice, di un articolo, di un comma tra i tanti (passibile – a volte – di una qualche punizione), ma piuttosto una contravvenzione dell’ordine naturale delle cose, del buon vivere sociale e della nostra fiducia comunitaria. Nondimeno fondare la Legge al di sopra di un habitus ontologico significherebbe comprendere istintivamente il senso più profondo e genuino della “giustizia” tout court. Che non deve essere, a differenza di quanto accaduto apertamente negli anni appena trascorsi, un concetto relativizzabile: non può esistere una divisione fioca, fluttuante ed interscambiabile tra “bene” e “male”, tra “buono” e “cattivo”, tra “giusto” e “ingiusto”[4]. È quel giudice imparziale che abita dentro ognuno di noi che lo grida a gran voce! Chi è difatti il miglior guardiano, il colpevole più sincero, il tribunale più severo, il giudice più giusto, che quello dentro noi stessi? «Bisogna forse che il giudice e l’innocente si confondano, cioè che gli esseri vengano giudicati dall’interno»[5]. In un mondo che tende sempre maggiormente alla deriva autoritaria dobbiamo impegnarci ad allenare, prestando sempre meno attenzione agli sproloqui politico-mediatici che ci giungono dall’esterno, quella splendida facoltà di giudizio che naturalmente ci pervade. A dispetto cioè della sovrabbondante malafede, nell’estrema confusione odierna di valori, categorie giuridiche e leggi, solo in noi stessi possiamo trovare con buona certezza il punto esatto in cui porre la linea di demarcazione più sincera tra “bene” e “male”, “buono” e “cattivo”, “giusto” e “sbagliato”.
In fondo, la Legge Giusta – ovverosia quella che ci implica in prima persona –, è quella che non si e-legge e che allo stesso tempo non si può nondimeno eludere (forse ci si può voltare dall’altra parte, ma non si può di certo esimersi dall’indignazione o sentirsi obbligati ad intervenire davanti ad un sopruso perpetuato ingiustamente dal potere nei confronti di chicchessia). Nell’ordinamento vigente, dove ha valore unicamente l’interpretazione della Legge – a proprio favore e svantaggio altrui –, prevale ovviamente una certa intermittenza nel perseguimento della norma: ciò che non mi conviene fare (sotto qualsiasi punto di vista) cerco in tutti i modi (più o meno leciti) di non farlo; nella Legge fondata invece sulla giusta consuetudine non è possibile in alcun modo scavalcare i precetti che essa declama, poiché questo sarebbe un calpestio anzitutto dei nostri modi di vivere o, per tornare da dove sono partito, della nostra spiritualità laica. La buona Legge allora non dovrebbe in alcun modo modificare alcunché della nostra vita (come un’imposizione, una regola, un imperativo esterno sono soliti fare), ma dovrebbe essere il frutto più buono (poiché maturo) del nostro miglior modo di vivere. «Una legge d’aggregazione governa i minerali […]. Svilupparvi, agire, vivere secondo la vostra legge, è il primo, anzi unico vostro Dovere»[6] La Legge, da questa prospettiva, potrebbe allora anche essere dura e granitica, ma solo a patto d’essere allo stesso tempo anche lucente e preziosa come una pietra rara.
[1]P.Prodi, Profezia, utopia, democrazia, in “Occidente senza utopie”, Il Mulino, Bologna 2016, p.13.
[2]P.Prodi, op.cit. p.14.
[3]G.Mazzini, Dei doveri dell’uomo, 1860; RCS, Milano 2011, p.67.
[4]O meglio: il fatto che esista è da imputare unicamente all’immaturità di una società avvezza alla delega politica, all’assistenzialismo sociale e alla creduloneria mediatica. Come comprendere la “giustizia” di coloro che agitano lo spauracchio fascista all’indomani delle elezioni italiane del 25 settembre, ma che al medesimo tempo hanno taciuto – o ancora peggio: hanno appoggiato – le disumane politiche recenti di lockdown, super green pass, obblighi vaccinali ed interventismo bellico? Come è possibile adottare con apparente risoluzione la prima posizione e soprassedere – come nulla fosse! – sulla seconda?
[5]G.Deleuze, F.Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, Les éditions de Minuit, Paris 1991; trad.it. Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2006, p. 63.
[6]G.Mazzini, op.cit., p.45.
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