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Strategie in mutamento: come cambiano gli obiettivi internazionali ai giorni nostri


11 Ott , 2022|
| 2022 | Visioni

Negli ultimi giorni grandi mutamenti, sia nazionali che internazionali, stanno susseguendosi. In pochi hanno chiaro quali siano i piani delle diverse potenze mondiali, e non perché essi siano di difficile e complessa analisi ma semplicemente perché sono mutevoli e sempre più liquidi, facendo piombare l’intero globo in quello che a ragion veduta potremmo definire caos.

Il 26 settembre si verificano tre distinte esplosioni nelle profondità del Mar Baltico: impossibile che esse si siano verificate in modo casuale, ma tuttora – e probabilmente per sempre – è sconosciuto l’artefice di tale sabotaggio. Le esplosioni distruggono in tre punti distinti il gasdotto Nord Stream 1, in funzione da svariati anni, e il Nord Stream 2, infrastruttura ultimata appena pochi mesi fa e mai messa in funzione. Cosa sappiamo di questi gasdotti e dove ci portano gli indizi?

Il Nord Stream 1 è un’infrastruttura strategica europea per l’approvvigionamento di metano, specialmente per le regioni del Centro-Europa e in particolare per la Germania. Negli ultimi decenni l’intera Unione Europea ha investito molto nell’utilizzo di gas naturale come fonte di energia, vedendola come fonte fossile a basso impatto ambientale e ha fortemente voluto la realizzazione dei vari gasdotti che trasferiscono il gas dalle pianure della steppa russa fino a noi. Ma il Nord Stream – a differenza degli altri gasdotti che si sviluppano via terra – ha un grosso vantaggio per la Germania, molto più di quanto non lo abbiano gli altri paesi europei, in quanto attraversando soltanto mari internazionali (Mar Baltico) traferisce il gas direttamente dalla Russia, paese fornitore, alla Germania, primo acquirente, senza concedere alcun ricarico di prezzo e alcun diritto di dazio ad altro interlocutore, a differenza di tutti i gasdotti di interesse europeo che – attraversando innumerevoli paesi – sono fonte di guadagno per ognuno di essi.

Il Nord Stream 1 è stato finanziato e realizzato con denaro tedesco e russo nel corso di svariati anni, ed è stato utile a entrambi: ai primi per l’approvvigionamento di una importantissima materia prima energetica a basso costo, ai secondi come mezzo di trasporto fondamentale del gas, che tuttora rappresenta la principale fonte di finanziamento estero dell’intera loro economia, con un importo di circa 100 miliardi di euro l’anno. Il Nord Stream 2 è invece nient’altro che il raddoppio della linea di trasporto, infrastruttura anch’essa finanziata a metà da tedeschi e russi, che avrebbe raddoppiato dunque la capacità di acquisto di gas da parte tedesca e il raddoppio delle entrate monetarie per i russi; infrastruttura di fatto mai entrata in funzione in quanto inaugurata proprio all’alba della guerra russo-ucraina. Sorge spontaneo chiedersi quale potesse essere l’interesse russo di auto-castrarsi, compromettendo quasi definitivamente due delle più importanti linee di guadagno internazionale, quando sarebbe bastato chiudere semplicemente i rubinetti alla fonte.

Una “simpatica” coincidenza è l’inaugurazione del Baltic Pipe, un altro gasdotto che permette alla Polonia di acquistare gas dalla Norvegia bypassando sia Russia che Germania, avvenuta guarda caso appena il giorno dopo il sabotaggio dei Nord Stream. Sempre per non andare lontani, pochi giorni dopo le esplosioni, dopo la folle corsa dei prezzi del gas e l’insorgere del grandissimo rischio di deindustrializzazione della principale manifattura europea, il simpatico quanto amichevole ministro degli Esteri polacco, Zbigniew Rau, chiede verbalmente, annunciando quanto prima l’invio di una nota ufficiale, niente di meno che il risarcimento dei danni arrecati dalla Germania nazista al suo paese, quantificandoli in 1300 miliardi di euro, una cifra pari quasi alla metà dell’intero PIL tedesco. Se ciò non bastasse potremmo fare appello anche a un’altra breve nota, del tutto privata e magari senza fondamento, che perviene da Twitter, il nuovo megafono internazionale della politica. Essa non è da sottovalutare, in quanto proclamata dal predecessore dell’attuale ministro polacco, l’egregio signor Radoslav Sikorsk, attualmente europarlamentare, che immediatamente dopo aver appreso delle esplosioni cinguetta «thank you America», mostrando l’immagine dell’enorme fuga di gas del mar Baltico; post che si è affrettato a cancellare dopo poche ore e dopo aver destato non poco scalpore.

Potremmo supporre che alcuni equilibri intraeuropei stiano fortemente cambiando tra Germania e Polonia. Dopo gli ultimi decenni, in cui la manifattura polacca era diventata fonte di grande commercio e spesso delocalizzazioni a basso costo per l’industria tedesca, cosa che è stata di slancio per entrambe le economie, risorgono antichi e mai sopiti malumori tra i due paesi e le rispettive popolazioni. Se a seguito del crollo del muro di Berlino, la Polonia si era fortemente avvicinata alla Germania e così a tutta l’Unione Europea, vedendola come fonte di liberazione dal giogo sovietico, difficilmente i suoi cittadini avrebbero dimenticato secoli di soprusi, distruzioni, deportazioni e dominio tedesco e prima ancora prussiano ai loro danni, ed ecco che oggi in un momento di forte shock economico e internazionale battono cassa a gran voce.

Al termine della guida Merkel, la Germania di Olaf Scholz sembra aver perso il suo slancio di piena centralità all’interno dell’Unione Europea. A fare da contorno alla debolezza carismatica e politica del cancelliere ci sono gli ultimi accadimenti parlamentari; facciamo riferimento al rifiuto a larga maggioranza di proseguire nell’invio di armi all’Ucraina di Zelensky, in totale controtendenza a quella che è l’odierna direzione europea e al contestuale programma di riarmo delle forze armate tedesche, per cui sono stati stanziati 100 miliardi di euro per i prossimi anni. Se da un lato sembra che gli Stati Uniti d’America vedano l’Europa unita come un comodo singolo interlocutore sul piano commerciale, dall’altro pare che una Germania troppo forte sul piano economico, troppo centrale sul piano politico e conseguentemente troppo forte militarmente possa essergli d’intralcio sul piano strategico. Dunque una ipotetica collaborazione USA-Polonia, che al momento si presenta come un alleato fedele al confine con l’eterno nemico russo, non sembra del tutto campata in aria e potrebbe essere alla base del sabotaggio dei Nord Stream.

Cambiando versante ma restando quasi ai confini con l’Europa sorge la questione caucasica; infatti poche settimane fa è tornata ad accendersi l’eterna belligeranza tra Azerbaijan e Armenia. Dopo quasi due anni di cessate il fuoco, sopraggiunto grazie alla forte intercessione russa, il governo azero torna ad attaccare l’Armenia al proprio confine: probabilmente i primi, forti della loro alleanza di protezione a stelle e strisce, vedono aprirsi uno spiraglio nell’impossibilità della Russia di intervenire nei confronti dell’alleata Armenia, visto già l’enorme impegno che la vede impegnata sul fronte ucraino. Tutto ciò comunque sembra essere abbastanza lontano dai nostri radar e poco importa se nel Caucaso ci sono morti, feriti e cittadini deportati, in quanto ciò non desta interesse da parte della stampa libera concentrata esclusivamente sulla questione ucraina.

Proseguendo il nostro viaggio migliaia di chilometri più a Oriente, incontriamo altre due zone molto calde: la prima è quella cinese, che negli ultimi mesi ha fortemente fatto sentire il fiato sul collo a Taiwan, isola di cui nessuno si arrischia a mettere in discussione la “appartenenza territoriale all’unica Cina”, ma che di fatto tutti riconoscono, seppur non formalmente, intrattenendo con essa rapporti commerciali pluridecennali; la seconda è quella che coinvolge la Corea del Nord, la quale tutt’ora si riconosce come “l’unica Corea”e conseguentemente mira alla riconquista territoriale del Sud. Se tra Cina e Taiwan, nelle scorse settimane estive, ci sono state non poche provocazioni da parte della prima, che ha violato più e più volte lo spazio aereo taiwanese, svolgendo ingenti manovre militari di esercitazione sulla costa dirimpettaia e sulle acque che circondano l’isola, da parte degli americani pure non sono mancati guanti di sfida, dato che Nancy Pelosi, speaker della Camera dei Rappresentanti, si è recata in udienza pubblica col primo ministro taiwanese.

Solo un paio di giorni fa invece la Corea di Kim Jong-Un, apparentemente senza preavviso e immotivatamente, ha lanciato un missile balistico a lungo raggio che ha sorvolato tutto il territorio giapponese prima di andarsi a inabissare in una zona imprecisata dell’Oceano Pacifico. Il dittatore coreano non è nuovo a queste prove di forza, ma di certo stavolta ha messo una bella paura al nemico giurato nipponico, il quale dopo aver intercettato nei radar l’enorme razzo ha temuto il peggio e lanciato allarmi e coprifuoco in diverse città con milioni di abitanti.

Restano gli ultimi sviluppi delle nostre parti prima di andare a conclusione: anzitutto sono da non sottovalutare le proteste popolari contro l’invio di armi, contro la guerra e contro il carovita, che hanno coinvolto decine di migliaia di persone a Praga, in Serbia e in molti altri paesi dell’Est-Europa. Tralasciando la Serbia, che non ha mai nascosto il suo filo diretto con la Russia post-sovietica, e l’attuale alleanza militare ne è testimonianza, ci concentriamo sulla Repubblica Ceca.

I cechi non sono gente qualunque, specialmente quando si tratta di difendere il loro interesse nazionale e popolare. Appena trent’anni fa subirono una secessione dalla Cecoslovacchia e siamo certi che i loro nonni non hanno ancora dimenticato il risentimento nei confronti dei russi, specialmente quelli che videro sfilare davanti agli occhi i T-34 sovietici nel pieno centro di Praga, quando l’allora presidente Breznev li inviò per sedare qualsiasi volontà di distaccarsi dal Patto di Varsavia. Eppure, oggi la popolazione ceca sfila e protesta con forza contro le sanzioni imposte dai paesi occidentali e dall’Unione Europea nei confronti della Russia, perché hanno preso coscienza che queste non stanno destando i frutti sperati ma piuttosto cagionando enormi problemi alle nostre economie.

Per ultima, ma non di minore importanza, citiamo una notizia ormai di pubblico dominio pubblicata tramite indiscrezioni provenienti dall’intelligence statunitense, che garantisce – a seguito di indagini svolte – che l’attentato avvenuto a Mosca lo scorso agosto e che ha causato la morte della trentenne Daria Dugina, l’attivista nazionalista russa figlia del celebre filosofo e politologo Aleksander Dugin, è stato compiuto dal governo ucraino senza il benestare americano. Questa notizia, o meglio, il fatto che sia trapelata e pubblicata da tutti i quotidiani internazionali potrebbe essere interpretata forse come un chiaro messaggio da parte degli americani nei confronti del presidente ucraino Zelensky, il quale supponiamo stia prendendo un po’ troppa autonomia e alzando un po’ troppo i toni rispetto a quanto gradito dall’alleato atlantico, che finora gli ha regalato più di 15 miliardi di dollari di armamenti, nonché appoggio di intelligence e addestratori professionisti, e che di certo non lo vede che come una pedina da muovere a piacimento nello scacchiere internazionale.

D’altronde Zelensky proprio ieri si è lasciato andare, durante l’ennesima intervista in videoconferenza, pretendendo un attacco nucleare preventivo contro la Russia. Di positivo c’è che finalmente sta cadendogli la maschera di benevolo eroe e si sta mostrando come l’attore prezzolato assetato di potere che probabilmente è sempre stato; ma gli amici americani, con la loro voglia pluridecennale di esportare democrazia a stelle e strisce, non sono nuovi a vedersi rivoltare contro i leader – e usiamo un eufemismo per non chiamarli dittatori – che essi stessi hanno creato e posizionato, e stavolta vorrebbero correggere il tiro un po’ prima che sia troppo tardi.

Per ultime le considerazioni sulla realtà italiana. Il nostro paese ha smesso di avere qualsiasi strategia propria nell’ultimo decennio. Avendo completamente dimenticato il proprio ruolo di sesta potenza mondiale e di centro geografico del Mediterraneo, ha interrotto qualsiasi attività politica e di influenza sia a Est, verso i Balcani, che a Sud verso la Libia, relegandosi a semplice servo e forse anche avanguardia coloniale degli Stati Uniti.

Nulla si muove, né nei confronti dell’economia, che si appresta a subire l’ennesima recessione a causa di rapporti commerciali interrotti col partner russo, né sui costi di energia e materie prime. Siamo dentro al ciclone dell’inflazione esogena, quella proveniente da fattori esterni, che nuoce indistintamente a tutti, eppure ci si aspetta una soluzione europea che non verrà. I singoli individui al contempo hanno perso qualsiasi capacità di analisi perfino dei propri stessi interessi, concentrandosi così verso cause di secondo o forse di terz’ordine, come la gratuità della pillola abortiva e la paura del fascismo, non rendendosi conto che tra pochi giorni dovranno indebitarsi per pagare le bollette della luce, che l’inverno lo passeranno al freddo, e che probabilmente a fine mese gli mancherà il piatto di pasta in tavola.

Sollaziamoci allora con la proposta di matrimonio del figlio del dittatore dell’Uganda, nonché generale supremo dell’esercito, che ha chiesto in sposa Giorgia Meloni in cambio di ben 100 vacche.

Il mondo è sull’orlo di profondi mutamenti, gli equilibri che conosciamo sono sempre più instabili e fragili, ognuno degli attori sopra menzionati aspetta solo una scintilla fuori dal barile per compiere la propria mossa. Ciò significa che, nonostante il clima apparentemente disteso descritto dai nostri media della stampa libera, siamo seduti su una polveriera, e la guerra russo-ucraina potrebbe da un momento all’altro trasformarsi in un conflitto globale dove ognuno agirà nell’interesse del suo obiettivo strategico, indipendentemente dagli altri, ma tutti insieme concorreranno a distruggere l’intero mondo.

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