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Istruzione e merito: cosa dice esattamente l’art. 34 Cost
Genova, 27 maggio 2017, stabilimento Ilva. La più incisiva critica delle abusate nozioni di merito e meritocrazia viene fatta, nell’ambito di un incontro pastorale, da papa Bergoglio, esattamente in questi termini: «La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il “merito”; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza».
Non sono trascorsi nemmeno cinque anni e mezzo da quella data e, complice la perdurante inazione di quella parte politica che, storicamente, dovrebbe interessarsi alla prospettiva egalitaria, nulla ha intaccato questo mito. Non solo: la formazione del nuovo governo di estrema destra ci regala l’innovativa carica di “Ministro dell’Istruzione e del Merito” che rende più che mai impellente un’attenta riflessione sul ruolo del merito nel nostro ordinamento, partendo ovviamente dalla Legge Fondamentale.
Va detto subito che nella Costituzione non c’è una disposizione specificamente dedicata al “merito”, nel senso che, se si ha riferimento ai Principi fondamentali e, in special modo ai primi quattro articoli (quelli che definiscono le coordinate assiologiche della Repubblica), né la parola stessa, né il concetto sono minimamente contemplati.
«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», recita in apertura la Carta, precisando subito che «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1). Nella disposizione successiva si individuano i diritti e i doveri primari: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo […] e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2). Il terzo articolo è quello dedicato all’eguaglianza, non solo formale («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge») ma anche sostanziale: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3). Il quarto degli articoli fondamentali riempie infine di contenuto il fondamento lavorista dello Stato italiano che non solo «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro», ma sopratutto «promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto», che è sì anche un dovere ma sempre nel rispetto delle attitudini individuali e della liberta di scegliere: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (art. 4).
Se il piano dei principi fondamentali è dunque tutto rivolto a ben altri valori (libertà, solidarietà, uguaglianza), che spazio c’è, se c’è, per il “merito”, nella prospettiva costituzionale?
Un esplicito riferimento al merito è rinvenibile in tre disposizioni: a) «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34, terzo comma 2); b) «il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario» (art. 59, secondo comma); c) «su designazione del Consiglio superiore della magistratura possono essere chiamati all’ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori» (art. 106, terzo comma).
Questi ultimi due articoli, chiaramente, individuano delle situazioni di eccezionalità: per meriti altissimi o insigni si può entrare in Senato o in magistratura, senza passare per le ordinarie procedure elettive e selettive.
La norma che invece può assumere carattere più ampio è proprio l’art. 34 che però va letto nella sua interezza, per non incorrere in equivoci interpretativi.
L’art. 34 Cost., infatti, nel suo primo comma, ci dice subito che «la scuola è aperta a tutti». Non è un’affermazione da sottovalutare, venendo l’Italia dalla vergogna delle leggi razziali («Alle scuole di qualsiasi ordine e grado … non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica»). Tuttavia non era questo l’aspetto su cui si è maggiormente discusso in Assemblea Costituente. In un dibattito lunghissimo, impossibile da sintetizzare esaustivamente in poche righe, le linee guida della discussione erano però ben chiare: la scuola deve essere inclusiva e l’istruzione è un “bene sociale” che la nascente Repubblica si impegna pertanto a promuovere. Sul come e sul quanto, naturalmente, ci si è scontrati tra opposte tendenze, giungendo alla attuale formula compromissoria che prevede tre ordini di graduazioni.
In primo luogo, si è stabilito che: «L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita». Sul punto è interessante leggere alcuni stralci dell’intervento che il socialista Umberto Pistoia (PSIUP) effettuava nella seduta del 29 aprile 1947. Due sono i passaggi più illuminanti. Nel primo, si denunciava il non superato carattere classista della scuola italiana: «Noi siamo, onorevoli colleghi, a cento anni quasi dalla consacrazione del principio secondo cui la scuola è aperta al popolo, ed a 60 anni dal giorno in cui è stata resa obbligatoria l’istruzione pubblica. Tuttavia fa brutta mostra di sé l’analfabetismo in determinate regioni e in certi strati sociali d’Italia. Perché? Perché lo Stato non ha creato le condizioni atte a far sì che il popolo possa frequentare questa scuola». Nel secondo, si evidenziava la necessità di fornire adeguati stanziamenti per rendere realmente effettiva la gratuità del percorso di istruzione obbligatoria, nella prospettiva di una scuola veramente aperta a tutti. Una spesa ingente, sì ma assolutamente necessaria perché, chiudeva Pistoia, «lo Stato avrà un compito gravissimo, specialmente dal lato finanziario, ma, onorevoli colleghi, io penso pure, e voi lo sapete più di me, che ove si spende molto per la pubblica istruzione, meno si spende per reprimere i delitti che trovano la loro sorgente nell’analfabetismo». Vale la pena osservare, inoltre, come, giusto qualche giorno prima, nella seduta pomeridiana del 21 aprile 1947, l’azionista Tristano Codignola (PDA) avesse concluso il suo intervento fiume, indicando con estrema chiarezza dove andare a trovare immediatamente le necessarie risorse: «Bisogna che ci decidiamo finalmente a tagliare i bilanci militari che rappresentano una cancrena nel corpo della Nazione e che questi bilanci militari noi li trasferiamo su un altro capitolo di spesa, un capitolo che non rende dal punto di vista della contabilità immediata, ma rende dall’unico punto di vista che deve essere considerato dallo Stato, quello della educazione delle generazioni future. Solo in questo caso avremo fatto una cosa seria, e avremo rispettato la nostra coscienza».
Si comprende bene, quindi, come gli ultimi due commi dell’art. 34 Cost., abbiano risolto gradatamente la controversia sul come e quanto estendere il “bene sociale” istruzione: da un lato, si è dunque individuata la platea dei destinatari dei corsi di studi superiori ai due cicli di istruzione obbligatoria («I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»); dall’altro si sono tracciate le linee di indirizzo per l’attuazione del dovuto sostegno economico a chi non ha mezzi sufficienti per pagarsi gli studi superiori, pur avendo attitudine e idoneità («La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso»).
Ora è chiaro che il merito esprime un giudizio di valore e opera come criterio di selezione: «il merito è uno dei criteri di distribuzione di risorse scarse», secondo la teoria liberale classica. Lo strumento per effettuare la selezione dei soggetti, privi di mezzi, che risulteranno meritevoli delle sovvenzioni per l’istruzione superiore (a pagamento) è il pubblico concorso. Tutto molto lineare e graduale, insomma: massima apertura per l’accesso al bene sociale istruzione; promozione della diffusione di un primo livello standard di istruzione comune a tutti e quindi obbligatorio e gratuito; istruzione superiore non assistita dalla gratuità generale ma con sovvenzioni pubbliche per i bisognosi, selezionati in base al merito tramite concorso pubblico.
Dovrebbe essere altresì chiara la tensione oggettiva e dialettica che esiste tra l’istanza di promozione e diffusione del bene sociale istruzione e l’istanza di selettività per l’accesso ai gradi più alti degli studi. In altri termini, pur non essendovi una preclusione all’accesso diffuso agli studi superiori, è palese la concezione gerarchica e tendenzialmente classista che è insita nel concetto stesso di selezione per l’accesso. Ed è esattamente questa tendenza che più che democratica, potremmo definire aristocratica, ciò che il sociologo inglese Michael Young voleva denunciare nella sua opera di fantascienza distopica The rise of Meritocracy.
Il termine meritocrazia, infatti, nasce con un’accezione tutt’altro che positiva. La scelta di utilizzare il merito come valore primario della comunità si traduce infatti nella satira futuristica di Young in un formidabile strumento per l’incremento di concentrazione di potere e per la giustificazione di livelli insostenibili di diseguaglianza: «L’assioma del pensiero moderno è che gli individui sono ineguali; e da esso dipende il precetto morale che si debba dare a ciascuno una posizione nella vita proporzionata alla sua capacità. Dopo una lunga battaglia si è potuto costringere alla fine la società a conformavisi: i mentalmente superiori sono stati innalzati al vertice, e i mentalmente inferiori sono stati calati al fondo». Come osserva acutamente Mauro Boarelli, nel suo saggio “Contro l’ideologia del merito” (2019), nella società governata dalla meritocrazia, «uno degli assi portanti del cambiamento è rappresentato dalla misurazione precoce delle capacità, ispirata allo studio dei tempi e dei movimenti introdotto dai fautori dell’organizzazione scientifica del lavoro, a partire da Taylor. Questa metodologia selettiva trasforma gradualmente il sistema scolastico. L’istruzione non è più impartita a tutti allo stesso modo, ma viene differenziata. I bambini sono indirizzati verso scuole diverse, organizzate gerarchicamente sulla base delle capacità individuali. Gradualmente, l’aristocrazia di nascita viene sostituita dall’“aristocrazia dell’ingegno”, e la stratificazione sociale si fa ancora più netta».
Ed è esattamente questo il rischio che stiamo correndo oggi nel nostro Paese, con l’insediamento del primo governo presieduto dalla leader di un partito postfascista, che ha vinto le elezioni ed è l’attuale partito di maggioranza relativa, recando nel contrassegno elettorale la fiamma tricolore, ovvero il simbolo storico del MSI. Se l’intitolazione ministeriale che accosta programmaticamente “istruzione e merito” non rimarrà un mero scivolone enfatico, di natura comunicativa, ma troverà forma e sostanza, sul piano normativo, c’è da aspettarsi, appunto, un incremento esponenziale del carattere selettivo ed escludente della scuola italiana, piuttosto che un’apertura sul versante della diffusione dell’istruzione, di ogni ordine e grado, come bene sociale da promuovere, favorendone anche una diffusa gratuità.
È appena il caso di sottolineare, infatti, che l’istruzione non è una risorsa scarsa che va necessariamente distribuita solo ad alcuni, escludendo tutti gli altri. Nulla vieta a una comunità politica organizzata di estendere il periodo di durata e i programmi di studio, nella prospettiva di una istruzione obbligatoria e gratuita, prevedendo ad esempio due cicli scolastici di cinque anni l’uno che prevedano al secondo ciclo anche lo studio di materie quali diritto ed economia (che invece attualmente sono ad esclusivo appannaggio di alcuni cicli di studi superiori). Nulla vieta, in realtà, di estendere la gratuità anche per avere un più ampio accesso ai corsi di studio superiori. Si tratta di mere scelte di bilancio che, come era già emerso, nel dibattito in Assemblea Costituente si potrebbero fare agevolmente, trasferendo fondi dal ricco capitolo della spesa militare a quello della pubblica istruzione. Corsi e ricorsi storici, potremmo dire. Ma pare assai difficile che le cose vadano in questa direzione più estensiva. Mentre chiudiamo questo articolo, la Presidente del Consiglio in carica, Meloni (FDI), nelle dichiarazioni programmatiche, afferma che è intenzione di questo governo estendere la flat tax per la partite IVA fino a «100 mila euro di fatturato». Che tu guadagni 20mila euro l’anno o 99mila il prelievo fiscale sarà sempre nella stessa identica misura percentuale. Con buona pace del principio di progressività dell’imposta, per cui chi guadagna di più deve contribuire in maniera più che proporzionata (art. 53 Cost.), e dei principi fondamentali di solidarietà (art. 2 Cost) ed eguaglianza (art. 3 Cost.). La meritocrazia come strumento di legittimazione delle diseguaglianze, insomma. Non solo in campo scolastico.
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