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La marcia su Roma del 1862


28 Ott , 2022|
| 2022 | Visioni

Quando i democratici erano rivoluzionari e avversari del liberalismo

Sessant’anni prima della marcia fascista su Roma, nell’Italia appena unificata, ci fu un’altra marcia che ebbe una storia ben diversa da quella più nota del 1922. Fu una marcia partita dal Sud e non dal Nord della Nazione; che si proponeva di trasformare l’assetto liberale e liberista dello Stato, non di risolverne la crisi originata dal rivendicazionismo del proletariato; che intendeva dare una svolta al conflitto sociale e politico in atto, non soffocarlo ed eliminarlo; di segno democratico, non antidemocratico. Una marcia che, al contrario di quella in camicia nera, indossava la camicia rossa e che la monarchia e il governo liberale repressero nel sangue anziché spalancargli le porte del potere come invece faranno sessant’anni dopo.

Se la marcia dell’ottobre 1922 muove da una convergenza compromissoria di interessi tra fascisti e liberali, il punto d’origine della marcia d’agosto del 1862 è localizzato nel conflitto politico e ideologico tra liberali e democratici, che caratterizzò il Risorgimento e riprese con grande vigore dopo la tregua del 1860 dovuta alla spedizione garibaldina nel Sud[1].

Analisi della scena. Il conflitto politico tra democratici e liberali

Nel 1860 la rivoluzione unitaria italiana era stata generata da una collaborazione senza precedenti tra democratici e liberali. Il soggetto propulsore di questa straordinaria collaborazione politica era stato il movimento garibaldino. Il garibaldinismo, però, «mediando il contrasto fra iniziativa moderata e iniziativa democratica, guerra regia e guerra di popolo, servirà al movimento liberale per sconfiggere quello democratico che è insieme a lui in corsa per il potere».[2]

Nel 1861 la proclamazione del Regno d’Italia sarà solennemente sancita da un Parlamento dominato da una maggioranza liberale, eletto con il sistema elettorale censitario imposto dai liberali, al cospetto di un governo presieduto dal duce dei liberali Camillo Benso conte di Cavour e composto esclusivamente da esponenti del liberalismo nella sua duplice declinazione moderata o progressista. La collaborazione del 1860, dunque, si era trasformata in ostilità totale nel 1861 e Garibaldi e i democratici furono confinati nel campo degli sconfitti: «l’emarginazione dei democratici attuata da Cavour […] disgustava e alienava dalle istituzioni la parte più attiva del popolo e della piccola borghesia, soprattutto nel Mezzogiorno».[3] Le conseguenze furono disastrose e destinate a incidere profondamente e lungamente nella Storia d’Italia, scavando un solco che non sarà più colmato. I liberali, infatti, «nei confronti delle classi popolari, soprattutto dei contadini e di quelli meridionali in particolare, non esitarono a negare la tutela dei diritti civili che, sulla carta, lo Stato liberale di diritto garantiva a tutti ma che nella pratica garantì solo alla borghesia».[4]

Si tracciava così, nell’incerto e difficile cammino dell’Italia appena unita, l’aspro sentiero di una lotta politica caratterizzata dalla volontà di potenza dei democratici di riprendere l’iniziativa rivoluzionaria e dall’ostinata resistenza conservatrice dei liberali per non perdere il potere acquisito.

Lo slancio vitale dei democratici, schierati all’estrema sinistra del Parlamento di Torino, è ben raffigurato in un efficace brano dello storico Renato Composto che così riassume: «Battuti dalla spregiudicata ed abile politica cavouriana ed inchiodati a Teano; vincolati dalla ristrettissima base elettorale che, com’è noto, non toccava nemmeno il 2% della popolazione, sì da non poter nutrire fondate speranze di provocare uno spostamento di forze nella rappresentanza nazionale e pur desiderosi di ottenerlo, i democratici cercarono, pertanto, dopo la morte di Cavour e mentre i suoi immediati successori stentavano a mantenere sicura l’eredità, di acquistare nuovo vigore, procurandosi quella base che nell’estate del 1860 non avevano voluto o saputo cogliere nel moto contadino siciliano, e di dar vita ad un movimento organico per la diffusione e l’attuazione delle proprie istanze, sino ad improntarne la vita del Paese».[5]

Il campo largo dei democratici: le Società Operaie

In questa trama tessuta dai democratici per riprendere l’iniziativa rivoluzionaria, sorpassare la classe dirigente liberale e dare allo Stato una nuova direzione politica e sociale, s’inserisce l’azione politica svolta dalle Società Operaie di Mutuo Soccorso che, di fronte alla necessità di scegliere tra lo schieramento democratico e quello liberale, presero una decisione immediata e chiara nel corso del IX Congresso, il primo dopo l’Unità, che segnò la svolta storica dei sodalizi: diretti fino allora dai liberali con scopi esclusivamente sociali e d’assistenza, essi passarono nel campo democratico intestandosi una funzione anche politica.

Il congresso si apre a Firenze il 27 settembre 1861. È qui che inizia l’assalto alla politica di questi organismi ormai attivi e operanti in tutto il territorio nazionale; ed è in quest’ambiente che si combatte la prima, dura battaglia tra liberali e democratici.

Concitato, dibattuto, agguerrito; seguito con apprensione dai democratici, con timore dai liberali, con interesse dalla stampa europea; quel congresso annunciava l’ingresso delle masse lavoratrici nell’agone politico e terminava con una scissione indicativa dell’asprezza che avrebbe assunto lo scontro frontale sulla questione sociale che si sarebbe ben presto combattuto in Parlamento e nelle piazze, nelle campagne e nelle fabbriche.

Presieduto da Mazzini e dominato dalla vis oratoria e polemica del Guerazzi e del Montanelli, il congresso di Firenze contribuì ad adunare attorno al movimento democratico e al ceto medio un’ampia parte di quel proletariato delle fabbriche e delle campagne che i liberali e la borghesia avevano sfruttato per i plebisciti del 1859 e del 1860 e poi espulso dalle elezioni del 1861 per il primo Parlamento dell’Italia unita.

Nel congresso si fronteggiarono due tendenze ben definite: da una parte i democratici decisi a dare battaglia per portare il movimento delle Società Operaie sul terreno della lotta politica, dall’altra i liberali ostinati invece nel mantenere le Società Operaie fuori dall’arena politica, forti della tradizione che si era affermata in Piemonte prima dell’unità nazionale. Questa contrapposizione produsse una serie di gravi rotture. Vinta la prima battaglia con l’approvazione di una mozione del Montanelli, nella quale era dichiarato che le Società Operaie pur non essendo associazioni politiche potevano intervenire nel dibattito politico nazionale tutte le volte che lo ritenessero necessario, i delegati democratici sfidarono i liberali sui temi politici della richiesta del suffragio universale e della costituzione di un’organizzazione operaia unitaria nazionale. Così i democratici riuscirono a far deliberare che: «L’Assemblea delle Società Operaie conoscendo non potersi ottenere il sollecito e completo riscatto delle plebi senza sviluppare ed estendere l’associazione mediante l’unificazione delle Società e procurare il suffragio universale e l’istruzione fatta obbligatoria e secolarizzata, delibera di eleggere una commissione incaricata di avvisare ai modi più convenienti per ottenere l’una e l’altra».[6]

Nel 1861, dunque, un congresso di Società Operaie stabiliva per la prima volta che i sodalizi, che non erano e non sarebbero mai divenuti partiti politici, potevano e dovevano tuttavia partecipare attivamente alla vita politica dello Stato. Da quel momento, le richieste sociali avanzate dai lavoratori nei sodalizi cominciarono a passare attraverso la breccia politica aperta dai democratici a Firenze; la questione sociale diventò questione anche politica. Gli esiti di quest’atto rivoluzionario si videro nello stesso momento in cui il congresso cominciò a trattare i temi di carattere sociale: condizioni di vita dei lavoratori, salari, orario di lavoro, disoccupazione, abitazioni, scioperi, arbitrato nelle controversie del lavoro. Si trattava di temi che nei precedenti congressi erano stati sempre elusi quando non respinti pregiudizialmente; ma adesso, in una lunga mozione, il congresso affermò la necessità di affrontare in chiave politica la questione sociale e il conflitto tra capitale e lavoro.

La vittoria democratica a Firenze era stata completa: l’unificazione delle Società Operaie, il principio della partecipazione politica, la richiesta del suffragio universale, l’istruzione laica e obbligatoria, l’adozione del mazziniano I doveri dell’uomo come testo per l’educazione del lavoratore, l’aumento salariale, la riduzione dell’orario di lavoro, l’elezione di Garibaldi a presidente dell’Assemblea congressuale, l’omaggio pubblico a Giuseppe Mazzini e infine, per attrarre i settori più avanzati della Sinistra costituzionale, il saluto al “Re Galantuomo”. Si trattava di una vittoria significativa, avvalorata dalla decisione dei liberali di abbandonare il congresso per celebrare un contro-congresso ad Asti che avrebbe condannato i deliberati di Firenze. E mentre tutta la stampa italiana liberale e reazionaria, dalla cavouriana L’Opinione alla clericale Armonia, polemizzava con forza contro il congresso di Firenze, dalla Francia di Napoleone III, l’ambasciatore Costantino Nigra (già solerte collaboratore del Cavour) si affrettava a far sapere che a Parigi avrebbero visto di buon occhio lo scioglimento delle Società Operaie italiane. Nigra, naturalmente, non mancava di far notare il proprio personale sostegno al suggerimento dato dal governo francese.[7]

Il campo largo si organizza: l’Associazione Emancipatrice Italiana

I deliberati del congresso di Firenze diventarono le parole d’ordine dell’azione politica delle Società Operaie in tutt’Italia e contribuirono ad ampliare il consenso e la base del movimento democratico italiano. Le richieste di suffragio universale, istruzione obbligatoria, aumenti salariali, riduzione dell’orario lavorativo, diventarono parte integrante del programma dell’Associazione Emancipatrice Italiana, fondata dall’assemblea che vide riunite in congresso, dal 9 al 10 marzo 1862 a Genova, le associazioni democratiche, le società operaie, i deputati dell’opposizione di tutte le correnti della democrazia operanti nel Paese, per presentare all’opinione pubblica le soluzioni proposte dal partito progressista sui problemi italiani.

Il programma elaborato a Genova si proponeva l’attuazione del plebiscito del 21 ottobre 1860, Roma capitale d’Italia, l’uguaglianza dei diritti politici in tutte le classi, il concorso di armi cittadine nel promuovere e assicurare l’unità e la libertà della patria. Insieme al componimento dell’unità si puntava anche sulla necessità di riforme sociali e amministrative.

Per quanto riguarda il compimento dell’unità, però, non si trattava soltanto della politica estera sulla questione romana e veneta ma anche della politica interna con l’attuazione del plebiscito dell’ottobre 1860 mediante «una partecipazione delle forze popolari che consentisse un rinnovamento politico ed una sostanziale sostituzione della classe dirigente del Paese».[8]

A completare il quadro delle proposte politiche vi era anche la questione sociale. I democratici, infatti, ponevano in rilievo la questione dei salari e delle ore di lavoro: lo avevano fatto in occasione del già ricordato congresso delle Società Operaie convocato a Firenze, e lo avevano ribadito a Genova in occasione della fondazione dell’Associazione Emancipatrice Italiana.

I democratici, insomma, avevano individuato nel suffragio universale lo strumento necessario per integrare le masse nella vita dello Stato e affermare la democrazia politica; nel confronto diretto tra rappresentanti dei datori di lavoro e rappresentanti dei lavoratori lo strumento idoneo a costruire la democrazia economica nel Paese. Insieme al mutualismo e al cooperativismo, si trattava di soluzioni efficaci per estirpare dallo Stato e dalla società italiani il cancro capitalista dell’ingiustizia sociale e della tirannia del denaro. Sono tutte soluzioni programmatiche ispirate da quel riformismo sociale che si sta contemporaneamente sviluppando in Europa e il cui nucleo centrale è costituito dall’idea di una società fondata sulla cooperazione tra le categorie sociali e sull’equa distribuzione dei benefici sotto il vigile controllo dello Stato, il cui funzionamento politico ed economico è assicurato dalla partecipazione popolare[9].

La Società Emancipatrice ebbe il sostegno dei sodalizi italiani e specialmente in Sicilia, nel 1862, il movimento delle Società Operaie sosterrà Garibaldi tornato nell’Isola per tentare una nuova impresa che potesse restituire ai democratici quell’iniziativa politica fermatasi a Teano.

La marcia democratica su Roma

Della vigorosa attività di Garibaldi in Sicilia nell’estate del 1862, l’oleografia risorgimentale di segno liberale celebra il famoso discorso tenuto nell’affollata piazza di Marsala il 19 luglio e applaudito dalla popolazione con il grido fiero e liberatorio di: «o Roma o morte!». Si dimentica, però, che il significato della parola «a Roma!», per i democratici, aveva assunto la forza trascinatrice di un mito storico e politico che rievocava l’esperienza della Repubblica Romana del 1848 e, nelle masse isolane, il tentativo democratico del 1848 nella Sicilia rivoluzionaria. Con quel grido, che esaltava il ricordo della Costituente romana, del Parlamento siciliano e della rivoluzione del ’48, si evocava la massa spingendola all’azione. Roma era la mazziniana «Terza Roma», la «Roma del popolo dopo la Roma dei re e la Roma dei Papi»; il mito della «Roma del popolo» si contrapponeva alla triste realtà dell’Italia borghese e liberale.

Ancor più del già ricordato discorso di Marsala, invece, per ricollocare nell’ambito politico l’intera vicenda, appare più significativo il forte e dimenticato discorso che Garibaldi pronunciò il 9 luglio 1862 a Palermo, nel Pantheon di San Domenico, al cospetto dei membri delle Società Operaie e delle associazioni democratiche convenuti. Qui, accompagnando il nome di Roma con la «denuncia della situazione del Mezzogiorno» e con l’esigenza «di una più libera vita nazionale», esaltò la partecipazione dei lavoratori alla vita politica dello Stato[10], rilanciando così il programma dell’Associazione Emancipatrice approvato a Genova e i deliberati votati dai delegati delle Società Operaie al Congresso di Firenze: assemblea costituente, suffragio universale, riforme sociali, Roma e Venezia italiane.

Quando Garibaldi illustrò alle masse popolari palermitane il programma democratico, egli era già politicamente consapevole dell’esistenza di un rancore antipadronale che lievitava nelle campagne sfruttate, si rendeva conto dell’egoismo dei proprietari, valutava in tutta la sua portata la miseria dell’Italia contadina e intuiva le radici sociali del grande brigantaggio meridionale. Non per caso i tremila volontari che si concentrarono nel bosco della Ficuzza, presso Palermo, lo salutarono al grido di «Pane! Pane!», simbolo possente della questione sociale.

Fu qui che cominciò la sconfitta dei democratici. La rivoluzione democratica cominciò a morire quando la borghesia liberale si rese conto che la marcia armata di Garibaldi costituiva l’inizio di una rivoluzione politica e sociale insieme. Le schioppettate prese dai democratici nell’Aspromonte furono la conseguenza della paura liberale dilagante in Sicilia ed esasperata dalla notizia che Mazzini aveva chiesto a Garibaldi di farlo partecipare all’operazione in qualità di semplice soldato fra gli altri volontari.

La forza di massa su cui poteva contare Garibaldi era animata da una fondamentale passione democratica rivoluzionaria, temprata dalle esperienze del 1820, del 1848, del 1860. Consultando i fascicoli appositamente compilati dal Ministero degli Interni del tempo sulle persone sospette al governo per la loro attività politica, si scopre dalle biografie che buona parte di coloro che avevano sostenuto in un modo o nell’altro Garibaldi nel 1862, avevano già partecipato alle precedenti rivoluzioni.

Le biografie, peraltro, consentono di appurare il contributo dato alla rivoluzione dalle Società Operaie e dalle sezioni dell’Associazione Emancipatrice, di verificare lo stato sociale dei rivoluzionari, di ricostruire la dislocazione territoriale delle forze. Si apprende così la geografia politica e sociale di una massa d’urto che incarnava un’intransigente opposizione al governo liberale, formata da volti anonimi che i fascicoli classificano come militanti repubblicani, rivoluzionari, oppositori di Sinistra non costituzionali, popolani ribelli, democratici, organizzatori di Società Operaie[11]. La Sicilia, del resto, vantava in quel momento il più alto numero di Società Operaie istituite nel Meridione; seguita dalla Campania.

Che questo schieramento di forze aspettanti la rivoluzione sociale, insieme all’azione frenetica del Generale, incutesse timore nelle autorità è dimostrato dalla grande paura che la borghesia e l’aristocrazia siciliane ebbero del proletariato urbano e contadino[12].

Fu a questo punto che Vittorio Emanuele II emanò il proclama del 3 agosto 1862, con cui prese le distanze da Garibaldi e dai democratici affermando minacciosamente che ogni appello non suo sarebbe stato considerato come un appello alla guerra civile.

Rattazzi, da parte sua, firmò lo stato d’assedio in Sicilia e nel napoletano. Il governo stava ormai pensando alla guerra civile come a un mezzo per sconfiggere Garibaldi e per conservarsi la benevolenza di Napoleone. Rattazzi giunse a servirsi del denaro per convincere i patrioti italiani di Roma a impedire ogni azione rivoluzionaria negli stati del Papa, in quanto temeva che l’eventuale successo della rivoluzione avrebbe fatto il gioco dei democratici. In molti documenti si accenna al fatto che Mazzini fosse ancora una volta un pericolo concreto, e che forse si trovava già in Sicilia a preparare l’attacco.

La taciuta intenzione di voler ricorrere alla guerra civile non sfuggì naturalmente a Garibaldi che il 24 agosto da Catania, dove si preparava a salpare per le coste calabre, reagì lanciando egli stesso un proclama con cui accusava apertamente il governo di voler provocare la guerra civile e di ingannare il re. Con la denuncia dell’inganno al re, Garibaldi compiva l’ultimo tentativo di separare la monarchia dal liberalismo.

Intanto la situazione politica si andò aggravando. Disordini e tumulti scoppiarono nell’Isola contro lo stato d’assedio. Proteste dilagarono nel Regno. Il governo rispose con inclemenza. A Napoli furono arrestati tre deputati democratici, tra cui Mordini. Arresti e scontri a fuoco si ebbero pure in Sicilia, dove fu sospesa la libertà di stampa.

Il 20 agosto fu sferrato l’attacco al cuore della rivoluzione: il governo sciolse l’Emancipatrice e tutte le associazioni democratiche dando un grave colpo all’organizzazione. Ancora qualche giorno e poi, in drammatica sequenza: il breve ma cruento conflitto a fuoco in Aspromonte, l’arresto di Garibaldi ferito, la caccia ai volontari democratici, la fine dell’iniziativa rivoluzionaria armata e dell’incubo di una guerra civile[13]. Sullo scampato pericolo della guerra civile, le cui responsabilità furono addossate a Garibaldi e ai democratici, occorre richiamare le considerazioni di Mario Isnenghi il quale, discostandosi da una letteratura mitica e favolistica delle vicende in Aspromonte, chiarisce che se non si arrivò a essa ciò fu dovuto alla leadership di Garibaldi sul movimento democratico, che si esercitò anche con la capacità di frenare l’azione e non soltanto di praticarla fino alle estreme conseguenze: un atteggiamento che per Isnenghi denota nel Generale, disposto ad ammettere le proprie responsabilità e a pagare di persona, una concezione alta e tragica della politica[14].

La repressione liberale

Mentre Garibaldi è condotto con pochi riguardi agli arresti, il governo continua la sua opera di sventramento della rivoluzione democratica. Lo stesso giorno dello scontro d’Aspromonte, il 29 agosto 1862: «il Regio Delegato di Pubblica Sicurezza trasmetteva alla commissione dirigente del Circolo Democratico degli Operaj Chiavennesi l’ordine di scioglimento, giustificato dall’affiliazione del sodalizio alla Società Emancipatrice di Genova. Tuttavia […] rapidamente i dirigenti di quella Società trovarono il modo di non disperdersi e così il 12 ottobre dello stesso anno, nel corso di una nuova assemblea, essi si ricostituirono sotto il nome di “Società Democratica Operaja”, nome mantenuto sino ad oggi»[15].

Scioglimenti, perquisizioni, arresti in tutta Italia: «dall’agosto al dicembre 1862 nella sola provincia di Palermo furono arrestate 2010 persone, senza risparmiare nemmeno le donne»; in Sicilia, latifondisti e liberali «si diedero da fare per mantenere lo stato d’assedio il più a lungo possibile»; a Napoli, il giornale L’Indipendente commentava che l’origine di tutto stava nella «guerra civile, la guerra del povero contro il ricco»[16].

Furono circa duemila i garibaldini catturati sull’altopiano calabro e tenuti prigionieri in Alta Italia: Vinadio, Bard, Exilles e nel più tristemente noto “lager” di Finestrelle.

A Parigi, intanto, Napoleone III annunciava soddisfatto all’ambasciatore italiano che «l’Europa ha ora avuto la prova che il Governo di Vittorio Emanuele vuole veramente separarsi dalla rivoluzione»[17].

Dopo la repressione con uno sguardo al presente

La sconfitta del 1862 in Aspromonte provocò la definitiva rottura in campo democratico tra i legalitari e i rivoluzionari. I primi dettero vita alla Sinistra costituzionale, dalla quale scaturiranno il liberalismo progressista e quello nazionale; gli altri scivolarono sulle posizioni marxiste o bakuniniste, che dischiusero la via all’anarchismo e al socialismo in Italia; un terzo filone, minoritario, continuò a richiamarsi a Mazzini e Garibaldi e si espresse in quella sinistra risorgimentale, repubblicana e democratica, dalla quale germogliarono altre nuove esperienze politiche che, dal radicalismo di fine Ottocento, approderanno in quel Partito d’Azione che infiammò la Resistenza ma non riuscì a sopravvivere alla Monarchia. Nonostante le differenze ideologiche, però, tutte le tendenze avevano un denominatore comune: l’avversione allo Stato liberale e al capitalismo. Avevano un interlocutore comune: le masse proletarie diseredate di città e di campagna. Avevano una battaglia in comune da affrontare: quella della questione sociale.

La necessità di realizzare una potente organizzazione democratica unitaria fondata su una precisa prospettiva politica e sociale, avvertita nei diversi gruppi che nel periodo compreso tra la nascita della Nazione e la crisi di fine secolo avevano operato nell’interesse della classe lavoratrice, trovava il suo compimento nell’aurora del socialismo italiano. Il conflitto politico tra capitale e lavoro assumeva così nuove proporzioni, nuove dimensioni, nel trapasso dall’Ottocento al Novecento. Nell’ambito di questo conflitto i liberali, di matrice moderata o progressista, operavano e brigavano, come fecero utilizzando il volenteroso squadrismo fascista nel 1922, per impedire il mutamento della struttura economica capitalistica, per mantenere separata la questione politica dalla questione sociale nel tentativo di arginare l’iniziativa e la diffusione delle idee e delle forze organizzate democratiche, repubblicane, socialiste, anarchiche per le quali le strutture economiche e politiche dello Stato andavano rimodellate in senso sociale, riconoscendo pienamente la legittimità economica e politica delle forze del lavoro e dei principi del mutualismo, del cooperativismo, del comunitarismo e del risparmio sociale.

Tutto ciò potrebbe in qualche modo orientare nel presente la ricerca di spazi nuovi nel campo del pensiero e dell’azione oggi dominato dal liberismo che ormai, come «uno stesso manto ideologico, ampio e avvolgente, unifica tutti i partiti, vecchi, rinnovati e nuovi»[18] del sistema politico italiano; e potrebbe avere un certo interesse oggi che il liberismo di sinistra ha già violentato la Carta Costituzionale originaria e il liberismo di destra si prepara ad assaltarla anch’essa. Forse, e speriamo che non sia troppo tardi, è arrivato il momento di ricominciare tutto da capo.


[1] Sulla lotta politica tra democratici e liberali nell’Italia postunitaria mi permetto di segnalare due miei contributi: M. Ingrassia, Oltre la battaglia: l’aspro sentiero della lotta politica nell’Italia del 1862, in «Studi Garibaldini», n. 12, maggio 2016; M. Ingrassia, La parola a Mazzini. Democrazia dei doveri e critica del liberalismo, Palermo 2018

[2] M. S. Messana Virga, La formazione del movimento garibaldino, in Studi in memoria di Gaetano Falzone, a cura di G. Tricoli, Palermo-Sao Paulo, Ila Palma, 1993, pp. 289-320.

[3]  G. Carocci, Storia dell’Italia moderna, Roma, Newton Compton, 1995, p. 13.

[4]  Ivi, p. 16.

[5] R. Composto, I democratici dall’unità ad Aspromonte, Firenze, Le Monnier, 1967, pp. IX-X.

[6] Ivi, p. 38.

[7] Voci di simpatia e approvazione vennero invece da alcuni ambienti dell’opinione pubblica inglese; sul dibattito nazionale e internazionale sollevato dalle vicende congressuali di Firenze si veda R. Composto, op. cit., pp. 43-47.

[8] Ivi, p. 96.

[9] Sul tema del riformismo sociale, distinto dal riformismo liberale e distante dal riformismo socialista, si veda H. Fenske, Il pensiero politico contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 123-131.

[10] R. Composto, Op. cit., p. 139; l’autore cita lunghi brani dei discorsi politici tenuti da Garibaldi in varie parti dell’Isola e riporta in appendice il testo integrale del discorso pronunciato il 9 luglio.

[11] P. D’Angiolini, Ministero dell’Interno. Biografie (1861-1869), Archivio di Stato, Roma 1964.

[12]R. Composto, Op. cit., pp. 140-141; l’autore, attingendo a fonti archivistiche, enumera una lunga serie di casi.

[13] Il combattimento durò un quarto d’ora e provocò 7 morti e 14 feriti tra i soldati regolari, 5 morti e 20 feriti tra i volontari democratici.

[14] M. Isnenghi, Garibaldi fu ferito: il mito, le favole, Donzelli, Roma, 2010.

[15] M. Rotasperti, Tracce del Risorgimento italiano in alta Lombardia. La nascita della Società Operaia di Colico, Uil Pensionati, Lecco 2004,  p. 57.

[16] G. Oddo, l miraggio della terra nella Sicilia post-risorgimentale (1861-1894), Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2013 pp. 59-60.

[17] Ivi, pp. 58.

[18]) P. Ignazi, I partiti italiani, Il Mulino, Bologna 1997, p. 141.

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