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Governo Meloni, non parliamo a sproposito di fascismo

Non evochiamo fuori contesto fascismo e neofascismo, tranne non volersi riferire al «fascismo eterno» di Umberto Eco con poco costrutto però, col rischio evidente, scomodando Hegel, di una concezione di fascismo quale «La notte in cui tutte le vacche sono nere». Non cogliendone, insomma, i tratti specifici e potenzialmente a loro volta pericolosi di questa esperienza politica che sta scorrendo in presa diretta sotto i nostri occhi. Al riguardo, pare opportuno prendere a prestito due delle categorie interpretative messe a punto da Francesco Pallante in un suo recente articolo (Otto idee di Stato da rifiutare in blocco), vale a dire lo Stato liberista e lo Stato autoritario, non come concetti alternativi piuttosto in un connubio potenzialmente esplosivo. Ci sono due passaggi in rapida sequenza del discorso di insediamento tenuto alla Camera che attestano questa intenzione di fondere le due concezioni e farne una cosa sola. Con tono enfatico, la Meloni ha affermato dapprima che «il nostro motto sarà non disturbare chi vuole fare», per aggiungere, subito dopo, «vogliamo fare della sicurezza un tratto distintivo di questo esecutivo». Dunque, lo Stato buon “guardiano notturno”, non intralcerà in alcun modo i piani dei signori privati del fare e, per stare all’oggi, del fare anche la guerra. Ma consapevoli che tutto ciò creerà disuguaglianze e ingiustizie crescenti e, di conseguenza, embrioni di rivolte, la sicurezza sotto il suo governo diverrà un dato distintivo.
Siamo oramai arrivati al punto che l’establishment ha compreso che gli squilibri creati dal mercato a briglie sciolte sono tali, che bisogna imprimere una torsione autoritaria al nostro sistema politico, stravolgendone, se si riesce, financo gli assetti costituzionali vigenti in senso autoritario. Forse è da rintracciare solo in questo ultimo aspetto “sovrastrutturale” ideologico e “revanscistico” un collegamento col fascismo storico. Anziché, dunque, fare ammenda delle storture dell’attuale paradigma economico neoliberista e porvi rimedio, con cambiamenti in senso redistributivo e lavoristico, i sempre più arroccati ceti dominanti, nel terrore di dover cedere parte dei propri privilegi e poteri accumulati, sono disposti a far rivivere a questa nostra Repubblica l’ennesima disavventura reazionaria. Questo significherà nel concreto spegnere nelle piazze, anche con l’uso della forza, le proteste che monteranno per effetto di un sistema iniquo che si intende implementare, il quale concede il paradiso ai pochi e scaraventa all’inferno i più. Il capitalismo è e sempre sarà «contraddizione in movimento».
La contrapposizione posticcia messa in piedi in fretta e furia dal mainstream tra una Meloni presunta “buona” rispetto ai “cattivi” Salvini e Berlusconi ha il precipuo scopo di rafforzarla, magari a scapito degli altri due, per metterla nelle condizioni di realizzare il piano di definitivo svuotamento della sostanza democratica. Certo, non si può dire che sia una novità assoluta, hanno congiurato ad indebolire il tessuto connettivo democratico in tutti questi anni la “variante progressista” del neoliberismo, bene interpretata dal PD. Anzi, bene farebbe quest’ultimo anziché baloccarsi tra aspiranti segretari, in perfetto stile da figurine Panini, a pianificare il suo superamento, come auspicato dalla Bindi, che è sempre alla maniera dialettica un togliere e conservare insieme. Dunque, per ritornare alla principale, col governo destra-destra una novità assoluta sicuramente non c’è, ma accelerazione e intensificazione dei processi già in corso sicuramente sì. Questo può condurre non in pochi anni ma in pochi mesi alla deflagrazione di una questione democratica senza precedenti. La posta in gioco è la volontà di impiantare da parte della élite dominante anche da noi una forma di “democratura” a cui bisogna rispondere con un modello altrettanto ambizioso di “democrazia partecipata”, quale inveramento concreto della nostra Costituzione.
Rincuora sapere che nel Paese le energie democratiche per contrastare questo progetto restaurativo ci sono, sedimentate comunque da una prassi democratica di circa settant’anni. Occorre ridare rappresentanza sociale e politica ad una domanda di uguaglianza e libertà, sostanziali, troppo a lungo inascoltata, che ha finito per ripiegare in un rancoroso astensionismo dilagante. Più facile per riattivare quel circolo virtuoso rappresentati-rappresentanti (in primis della rappresentazione della questione sociale), il rinnovato protagonismo del Sindacato, a sua volta da rigenerare, in tutte le sue plurali articolazioni. Ha il vantaggio di scontare meno in sé, rispetto alla politica, lo scollamento dalla società italiana, come si sta dimostrando in queste settimane in Francia.
Certo, occorre da subito agire ed evitare che questo malcontento diffuso venga incanalato dal governo e indirizzato verso qualche capro espiatorio di comodo. Precondizione necessaria è scrollarsi di dosso il retaggio individualistico e narcisistico che il neoliberismo ha sparso a piene mani anche da noi. E le zuffe dentro e fuori dal Palazzo tra segmenti o fazioni dell’opposizione non risultano un buon viatico. Lo si fa invece ridando priorità all’impresa collettiva e alle comunità culturali e politiche di appartenenza disperse e frammentate, che ci sono ancora sia pure ammaccate, e di cui il leader pro tempore è una espressività e non certo la sua personificazione esaustiva. Ci sono, dunque, tante cose da organizzare a partire dalla Manifestazione per la Pace del 5 novembre che i “padroni del discorso guerrafondaio” faranno di tutto per silenziare o sporcare in qualche modo. Pertanto rimbocchiamoci le maniche non per fare, come dice la neopresidente del Consiglio Meloni, ma per agire in vista di una trasformazione degli attuali rapporti di forza, memori sempre della lezione gramsciana: «Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza».
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