La Fionda è anche su Telegram.
Clicca qui per entrare e rimanere aggiornato.
La marcia su Roma del 1922: il centrodestra al governo con Mussolini premier
È il 21 marzo 1922, un martedì. Alle ore 15:00, nell’Aula di Montecitorio, è riunita la Camera dei Deputati. All’ordine dei lavori la votazione sulla parola conclusiva di un Ordine del Giorno presentato dai deputati socialisti Nino Mazzoni e Giuseppe Modigliani. La parola è pesantissima e aggiungerla o toglierla muta radicalmente il significato del testo in discussione. La parola in questione è la parola “fascista”. L’Ordine del Giorno, infatti, stabilisce che «La Camera esprime la sua simpatia ai lavoratori agricoli d’Italia nella lotta per la difesa dei patti agrari, che vuole tutelati contro ogni insidia e violenza fascista».
Il brusio dei deputati è interrotto dal Presidente della Camera Enrico De Nicola, liberale, destinato a diventare nel 1948 il primo Presidente della Repubblica Italiana, il quale a gran voce spiega che l’Ordine del Giorno era stato già votato e approvato dall’Aula nella Seduta precedente ma fino alla parola “violenza”. Modigliani e Mazzoni avevano invece insistito che dopo la parola “violenza” fosse aggiunta la parola “fascista”; a quel punto era mancato il numero legale e la proposta di aggiunzione fu rinviata. Ora bisognava ripetere la votazione.
Interviene il deputato Modigliani che, tra le proteste dei deputati di destra, chiede la votazione per appello nominale obbligando ogni deputato a dichiarare palesemente il voto. La richiesta è accettata. I deputati della sinistra votano compatti a favore dell’aggiunzione; i fascisti, i nazionalisti, i liberali e i democratici sociali votano contro. I deputati del Partito Popolare Italiano, del Partito Socialista Riformista Italiano, del Partito Agrario e di altri gruppi minori di centro e di destra si astengono; ossia non partecipano alla votazione.
Il Presidente della Camera annuncia il risultato: la proposta è approvata con 81 voti favorevoli e 72 contrari. La parola “fascista” è aggiunta al testo. A sinistra dell’emiciclo si esulta ma l’astensione di 111 deputati e il distacco di appena nove voti rendono amara la vittoria.
Dal resoconto della seduta si apprende che Giovanni Giolitti e Antonio Salandra, figure notevoli nella storia del liberalismo italiano, votarono contro l’aggiunzione. Tra i nomi più famosi di coloro che invece si astennero risalta quello di Alcide De Gasperi, esponente di spicco del Partito Popolare Italiano e futuro protagonista della scena politica italiana del secondo dopoguerra come leader del partito della Democrazia Cristiana, più volte Ministro e Presidente del Consiglio. La vicenda, apparentemente senza importanza, è invece indicativa delle condizioni e situazioni politiche che ebbero luogo in Parlamento negli anni che precorsero la marcia su Roma.
Il fascismo a Montecitorio
È noto che Mussolini fu eletto deputato il 15 maggio 1921 nella lista del Blocco Nazionale, un cartello elettorale di destra ideato da Giolitti e formato da liberali e nazionalisti e nel quale erano stati reclutati pure i fascisti. Si trattava di un’alleanza già collaudata, che aveva esordito con successo nelle elezioni amministrative dell’ottobre 1920 conquistando 4.665 comuni su 8.327 e 33 consigli provinciali su 69.
Una volta eletto Mussolini si collocò alla destra estrema dell’emiciclo e da quella posizione assicurò, sia pure in forme diverse e fasi alterne, l’appoggio esterno del gruppo parlamentare fascista ai governi che si susseguirono fino alla vigilia della Marcia su Roma. Il 23 luglio 1921, pur annunciando il voto contrario al Ministero Bonomi, non escluse un appoggio condizionato. Il voto favorevole lo dettero però i nazionalisti, che dei fascisti erano sodali tanto che nel 1923 confluiranno nel Partito di Mussolini. Furono proprio i nazionalisti che il 17 febbraio 1922 determinarono, con i liberali e i fascisti, la caduta di Bonomi. In questa circostanza, tra i deputati che votarono l’atto parlamentare che mise in crisi il Governo, compaiono nel resoconto stenografico della seduta i nomi di Mussolini e Giolitti. Una situazione paragonabile a quella accaduta nella precedente seduta del 26 giugno 1921, quando Mussolini aveva votato con Antonio Salandra e Francesco Saverio Nitti contro il Governo Giolitti decretandone la fine.
Al Governo Bonomi subentrò il Ministero presieduto dal giolittiano Luigi Facta e del quale facevano parte il Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi, il Partito Socialista Riformista Italiano di Bonomi, il gruppo liberale conservatore di Salandra, il gruppo liberale di Giolitti, il Partito Radicale Italiano di Nitti, il gruppo Democratico sociale di Giovanni Colonna duca di Cesarò e il Partito Agrario del principe Pietro Lanza di Scalea. Pur senza ministri né sottosegretari, il gruppo parlamentare fascista entrò a pieno titolo nella maggioranza di Governo e nella seduta del 18 marzo 1922 votò per la fiducia insieme ai nazionalisti. Nel verbale della seduta si possono leggere i nomi dei deputati che all’appello nominale votarono a favore del Governo Facta: accanto ai famigerati nomi di fascisti e squadristi del calibro di Giuseppe Bottai, Costanzo Ciano, Cesare Maria De Vecchi, Dino Grandi, Giuseppe Caradonna, Cesare Rossi, si leggono i nomi di parlamentari prestigiosi che la storia ha elevato nel pantheon politico degli statisti italiani: da Giolitti a Salandra; da De Gasperi a Giovanni Gronchi, anch’egli destinato a essere eletto nel 1955 Presidente della Repubblica; da Nitti a Vittorio Emanuele Orlando. Mussolini, al momento del voto, era assente ma è inquietante notare che le massime personalità della classe dirigente politica del Paese si ritrovino consapevolmente alleate in una maggioranza di governo con i bastonatori in camicia nera.
Mussolini uscì dalla maggioranza nella seduta del 19 luglio 1922, quando la Camera approvò un ordine del giorno di critica al governo presentato dal Partito Popolare Italiano. Con Mussolini votarono, oltre a De Gasperi e Gronchi, anche Bonomi e Nitti.
Successivamente Mussolini, il 10 agosto 1922, negherà la fiducia al secondo ministero Facta, votato invece da popolari, radicali, liberali, socialriformisti, dai gruppi della Democrazia Sociale e degli Agrari e ancora una volta dai nazionalisti. Dal resoconto stenografico della seduta si apprende che alla votazione non parteciparono Bonomi, Salandra, Nitti, Orlando e Giolitti perché assenti; eloquentemente assenti, si potrebbe dire. Proprio in quei giorni, infatti, l’industriale Ettore Conti, presidente dell’Associazione fra le Società Italiane per Azioni e membro del Comitato Centrale Industriale, vero organo direttivo della politica economica e finanziaria dei gruppi industriali italiani, riferendosi a Mussolini annotava nel suo diario di augurarsi che Mussolini e i fascisti si decidessero a partecipare a un governo di ben maggiore autorità di quanto ne aveva dimostrato il mite Luigi Facta.
L’augurio sarà esaudito. Giolitti, Salandra, Nitti, Orlando, Bonomi, i popolari, i nazionalisti e anche il mite Facta, si ritroveranno ancora una volta tutti assieme nella maggioranza governativa costituita attorno a Mussolini dopo che il Re Vittorio Emanuele III, nella piovosa mattinata del 30 ottobre 1922, gli avrà conferito l’incarico di formare un nuovo Governo.
Sono, quelle appena narrate, tutte vicende elettorali e parlamentari che evidenziano convergenze e complicità politiche non occasionali tra fascisti, nazionalisti, democratici, conservatori, liberali, cattolici e socialriformisti; e che dimostrano come Mussolini e il fascismo non fossero per nulla costituzionalmente isolati e fossero invece perfettamente intrecciati nel tessuto istituzionale della realtà politica italiana. Un elemento, questo, generalmente sottovalutato dalla storiografia sulla conquista fascista del potere.
Ciò che emerge da questi avvenimenti è un intreccio politico di personalità e gruppi che attraversa la storia della marcia su Roma. Giolitti, Salandra, Bonomi, De Gasperi, Nitti, Orlando, Mussolini, i liberali, i fascisti, i popolari, i socialriformisti, i democratici, i nazionalisti, tra il 1921 e il 1922 fanno, disfano e rifanno i governi; ossia dominano la situazione politica italiana generando così le dinamiche che incideranno sul corso degli eventi di un secolo fa e che faranno del giovane ex socialista rivoluzionario il più giovane Primo Ministro del Regno d’Italia. Un intreccio politico rappresentativo di interessi coincidenti, se non comuni, che può definirsi di centrodestra e che completa l’orditura della propria tela in quelle giornate del novembre 1922 durante le quali l’Aula di Montecitorio è chiamata a decidere sul conferimento della fiducia e dei pieni poteri al Governo presieduto da Mussolini.
Visto in questo quadro storico, lo squadrismo nero che nel biennio 1921-1922 mette a ferro e fuoco la Penisola appare come speculare e anche funzionale al centrodestra, che intanto intreccia la propria azione politica nell’Aula di Montecitorio. Non per caso, nonostante le disposizioni impartite e le circolari diramate dagli organi governativi di polizia e militari di contrasto allo squadrismo fascista, nessun governo sentì mai il bisogno di mettere fuori legge le squadre in camicia nera né di autorizzare l’uso delle armi contro di esse. Non fu irresolutezza, fu una scelta. Da qui l’azione del centrodestra, politica nelle istituzioni e terroristica nella società, tutta protesa ad annichilire il rivendicazionismo del proletariato nelle piazze e l’opposizione della sinistra in Parlamento. Un’azione politica fieramente osteggiata in Montecitorio dalla sinistra nelle sue varie declinazioni: i massimalisti del Partito Socialista Italiano, i riformisti del Partito Socialista Unitario, i rivoluzionari del Partito Comunista d’Italia e i democratici rivoluzionari del Partito Repubblicano Italiano.
Divisi ideologicamente sulle strategie da adottare e le finalità da perseguire per la conquista e la gestione del potere ma uniti nella tutela e nella rappresentanza dei diritti civili e degli interessi economici e sociali del proletariato, i partiti di sinistra votarono costantemente e coerentemente contro tutti i governi che, prescindendo dalla fiducia data o negata dal gruppo parlamentare fascista, furono sempre di coalizione e continuamente composti in tutto o in parte dai gruppi politici schierati nel campo largo del centrodestra. La stessa formula politica adottata da Mussolini per il suo governo.
Da Montecitorio al Viminale
Nella compagine del governo nato dalla marcia su Roma, infatti, con Mussolini, indicato anche come ministro degli Interni e degli Esteri, figuravano il liberale giolittiano Teofilo Rossi all’Industria e Commercio; i demosociali Gabriello Carnazza ai Lavori Pubblici e Giovanni Colonna di Cesarò alle Poste e Telegrafi; il liberale salandriano Giuseppe De Capitani D’Arzago all’Agricoltura; i militari Armando Diaz alla Guerra e Paolo Thaon di Revel alla Marina; l’indipendente di area liberale Giovanni Gentile all’Istruzione Pubblica; i popolari Vincenzo Tangorra al Tesoro e Stefano Cavazzoni al Lavoro; i fascisti Alberto De Stefani alle Finanze e Aldo Oviglio alla Giustizia; i nazionalisti Giovanni Giuriati alle Terre Liberate e Luigi Federzoni alle Colonie.
Guardando la provenienza politica dei singoli ministri, è del tutto evidente che il governo nato dalla marcia su Roma non era in discontinuità con i governi che lo avevano preceduto. Rispetto al primo governo Facta, per esempio, la differenza, comunque irrilevante, sta nel fatto che non vi erano ministri di provenienza socialriformista ma il Partito Socialista Riformista Italiano, garantendo il proprio sostegno in Aula come avevano già fatto i fascisti e i nazionalisti con Facta, faceva comunque parte della maggioranza governativa di Mussolini; e anzi il loro leader, Ivanoe Bonomi, avrebbe addirittura fatto parte di quella commissione speciale istituita il 17 novembre 1922 per l’esame del progetto di legge sui pieni poteri al governo. Una partecipazione, quella di Bonomi insieme all’altra di Salandra che fungerà da relatore della maggioranza, di chiarissimo significato politico e storico riguardo alle compromissioni premeditate tra il fascismo e i partiti del centrodestra. Bonomi, peraltro, farà parte anche della commissione parlamentare istituita nel giugno 1923 per esaminare il disegno di legge presentato dal governo sulla riforma elettorale, che istituiva un premio di maggioranza pari a due terzi dei seggi a beneficio del partito più votato qualora questo avesse superato il quorum del 25%; un sistema voluto da Mussolini e che consentirà alla lista unitaria del centrodestra, composta di fascisti e liberali, cattolici e altri esponenti dei gruppi minori di destra, di stravincere le elezioni del 6 aprile 1924. Di questa commissione faranno parte, in rappresentanza della maggioranza di governo, anche Giolitti, che ne sarà il Presidente, con Salandra e Vittorio Emanuele Orlando, entrambi vicepresidenti. La legge sarà approvata in Aula con il voto favorevole dei gruppi del centrodestra, con l’astensione di alcuni popolari e con il voto contrario dei partiti di sinistra. Da notare che i già citati Salandra e Orlando saranno candidati e rieletti alla Camera nella Lista elettorale formata da Mussolini sul modello di quella lista del Blocco Nazionale varata da Giolitti nel 1921.
Ancora una volta, quindi, la nuova compagine di governo si caratterizzava fondata su una formula politica di centrodestra. Non per caso, scorrendo i nomi dei ministri, si notano le riconferme di politici come il liberale giolittiano Teofilo Rossi, il liberale salandriano Giuseppe De Capitani D’Arzago, il democratico sociale Giovanni Colonna di Cesarò.
La lettura del verbale del primo Consiglio dei Ministri convocato da Mussolini il primo novembre 1922, consente di scoprire gli interessi materiali che si nascondono tra le maglie dell’intreccio politico intessuto dai partiti del centrodestra nell’Aula di Montecitorio tra il 1921 e il 1922.
Al termine di un dibattito in cui, fra le altre questioni discusse, il ministro demosociale Colonna di Cesarò propose la privatizzazione di alcuni servizi pubblici che avrebbe consentito al governo tagli sensibili alle spese dello Stato; il ministro popolare Tangorra si dichiarò contrario alla nominatività dei titoli; il ministro liberale Rossi si pronunciò favorevolmente sulla semplificazione burocratica dei meccanismi di deflusso delle correnti emigratorie; il ministro nazionalista Federzoni richiese il riesame di tutti i problemi che erano stati già risolti dai governi precedenti; il ministro fascista De Stefani appoggiò tutte queste proposte, dichiarazioni e richieste; il Presidente del Consiglio Mussolini sintetizzò i termini di questa prima parte della riunione e tracciò la via da seguire. Egli affermò che il governo era unanimemente d’accordo su quattro specifici punti: «1) sistema rigida economia. 2) Ritorno industria privata dei pubblici servizi. 3) Politica di emigrazione legata ma non impastoiata alle formalità di legge. L’emigrazione temporanea deve essere regolata e così pure altre correnti emigratorie. 4) Riesame problema burocrazia, con la richiesta dei pieni poteri al Parlamento».
Poche righe dopo è messo a verbale quello che potrebbe definirsi il quinto punto, ossia che «Il Consiglio dei Ministri si è dichiarato unanimemente contrario ad imporre la nominatività dei titoli pubblici al portatore anche in forma diretta»; si è cioè dichiarato contrario ad applicare le imposte ai possessori dei titoli, garantendo quella che tecnicamente può definirsi elusione fiscale per i ricchi.
L’avvento del fascismo al governo della nazione muove da qui, è in questo frangente che Mussolini diviene colui che ricostituisce la stabilità di governo e annichilisce ogni tipo di conflitto in cambio di una limitazione delle libertà civili che consenta al fascismo di gestire direttamente il potere politico sia pure attorniato dagli altri centri di potere dinastici, finanziari, economici, religiosi, militari. In questo senso i provvedimenti economici liberisti costituiscono una ratifica di quel patto che è il punto d’origine dell’intreccio tra il fascismo e gli altri gruppi del centrodestra e le classi sociali e i poteri che essi rappresentano; un patto sul quale si articola il progetto del Mussolini politico, ossia, scrive il dimenticato Renzo Del Carria, la formazione di «un’unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico sotto il controllo di un’unica centrale per dirigere insieme al partito, il governo e lo stato».
Si spiegano così la legge elettorale con forte premio di maggioranza proposta da Mussolini e approvata in Parlamento con i voti del centrodestra nel 1923 e anche la successiva migrazione politica verso il fascismo di nazionalisti, liberali, demosociali, esponenti di gruppi più piccoli del centrodestra come il Partito Agrario e di quel che rimane dei cattolici del Partito Popolare, nel frattempo opportunamente affossato dalla diplomazia vaticana per ricambiare il provvidenziale intervento del governo Mussolini sul dissesto del Banco di Roma, centro della finanza vaticana, salvato a spese dello Stato italiano.
Tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, semplificazioni burocratiche, misure di riduzione fiscale, sono tutte parole del vocabolario liberista adottate all’unanimità dal governo di centrodestra presieduto da Mussolini. È in questi provvedimenti liberisti che risiedono le ragioni della confluenza di interessi tra il fascismo e le altre forze del centrodestra; qui si dipana l’intreccio politico tra fascisti, popolari, liberali, nazionalisti e gli altri gruppi minori del centro e della destra.
Gli industriali che il pomeriggio del 28 ottobre avevano incontrato Mussolini a Milano, nella sede del foglio fascista «Il Popolo d’Italia», potevano ritenersi soddisfatti. Olivetti, Conti, Crespi, Benni, Pirelli potevano prendere atto che il governo stava andando nella giusta direzione; del resto, al suo interno, fra i ministri, vi era l’industriale Giuseppe De Capitani D’Arzago, che quel pomeriggio era lì, con loro, da Mussolini.
Uno sguardo al presente
Bisogna chiedersi a questo punto che relazione potrebbe esserci tra questi fatti e il tempo presente. Naturalmente il fascismo, nelle forme e nei contenuti con cui si sviluppò dal 1926 in poi, non potrà più tornare. Acutamente scriveva Pier Paolo Pasolini che il cosiddetto fascismo storico, il fascismo regime, è archeologia. Pasolini, però, denunciava l’esistenza di un nuovo fascismo: quello della civiltà dei consumi e dell’economia di mercato, che si realizza nei meccanismi del circuito produzione-consumo il quale, con l’arrivo della tecnologia, si è oggi esteso al controllo (e dunque al dominio) totale dell’agire quotidiano. Economia di mercato e civiltà dei consumi, in una parola il liberismo, hanno però bisogno pure di governi politici che attuino tutte le misure necessarie di autodifesa quando le società producono movimenti di resistenza, rivendicazione e liberazione. In questo senso, le dinamiche manifestatesi all’interno delle istituzioni negli anni compresi tra il 1921 e il 1925, durante l’esperienza parlamentare del fascismo, rimangono pericolosamente in agguato; e non ci si riferisce tanto all’uso della violenza o della forza quanto delle norme, dei decreti legge, delle direttive e circolari che possono stravolgere strutture e sovrastrutture, modificare rapporti sociali, abolire diritti acquisiti, cambiare le Costituzioni. Questo tipo di fascismo ha molto operato in questi ultimi decenni, quasi indisturbato.
Tornando al passato, ventuno anni dopo l’autunno del 1922, nell’estate del 1943, i centri di potere che erano coesistiti con il regime fascista negli anni del consenso, porranno fine al compromesso politico e defenestreranno Mussolini. Giolitti e Salandra torneranno agli onori della storia; De Gasperi, Bonomi, Gronchi, De Nicola sulla scena della politica. I loro voti e comportamenti a Montecitorio saranno oscurati dal gigantesco mito della marcia fascista su Roma elaborato dal regime; una marcia che a quanto pare non fu solo fascista. Un dettaglio da tenere a mente.
La Fionda è una rivista di battaglia politico-culturale che non ha alle spalle finanziatori di alcun tipo. I pensieri espressi nelle pagine del cartaceo, sul blog online e sui nostri social sono il frutto di un dibattito interno aperto, libero e autonomo. Aprendo il sito de La Fionda non sarai mai tempestato di pubblicità e pop up invasivi, a tutto beneficio dei nostri lettori. Se apprezzi il nostro lavoro e vuoi aiutarci a crescere e migliorare, sia a livello di contenuti che di iniziative, hai la possibilità di cliccare qui di seguito e offrirci un contributo. Un grazie enorme da tutta la redazione!