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Il controverso esordio del Governo Meloni in tema di giustizia
I primi provvedimenti con i quali questo governo si è fatto notare hanno visto protagonista quasi assoluto il nuovo ministro della Giustizia Carlo Nordio, il quale si è trovato a fare i conti con la previsione di entrata in vigore della riforma della giustizia targata Cartabia, precisamente per il primo novembre di quest’anno; un intervento ad ampio spettro sulla normativa penale che coinvolge numerosi istituti della stessa, spesso in maniera rilevante. Su tale intervento, recentemente, i Procuratori generali hanno lanciato un allarme, in vista dell’imminenza della sua entrata in vigore, in riferimento al fatto che detta riforma comporta un aumento di lavoro dei magistrati e dei loro uffici, dinnanzi al quale le toghe hanno ritenuto di non essere ancora preparate per farvi fronte in maniera appropriata. Come noto, in questi anni si è spesso pensato di fare riforme della giustizia con pochi soldi, quando, invece, una riforma importante sarebbe proprio quella di dotare l’amministrazione di strumenti e personale in numero adeguato. Peraltro, fatto non trascurabile, tale riforma rientra tra quegli oneri che il nostro governo doveva adempiere come condizione per l’accesso ai fondi del PNRR. Allora, è stata presa la decisione di rinviare l’entata in vigore della Cartabia con la motivazione di cogliere il “grido di dolore” delle Procure per la preoccupazione anzidetta, alla data del 30 dicembre di quest’anno, un giorno prima della scadenza prevista dallo predetto Piano.
Obiettivamente urgente, invece, si è presentata l’esigenza di modificare la disciplina dell’ergastolo ostativo, perché la Corte Costituzionale nel 2021 ha concesso un termine al Legislatore di intervenire su tale normativa, stabilito nell’otto novembre di quest’anno, per evitare che il previsto intervento abrogativo della Corte per incostituzionalità potesse creare un pericoloso vuoto normativo. La Consulta aveva censurato l’articolo laddove condiziona, per i reati di associazione mafiosa, l’accesso ai benefici penitenziari alla collaborazione con la giustizia del condannato. A tal riguardo, la stessa Corte ha ritenuto che la collaborazione non potesse essere l’unica strada per l’accesso ai benefici, perché ci possono essere casi in cui il condannato per mafia possa non trovarsi nelle condizioni per collaborare. L’onere di collaborazione gravante sull’ergastolano per il possibile accesso alla liberazione condizionale può richiedere la denuncia a carico di terzi, comportare pericoli per i propri cari, e rischiare altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati. Scelta che potrebbe rivelarsi, talvolta, “tragica”, tra la propria (eventuale) libertà, con i rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia alla stessa, per preservarli da pericoli. In tal modo, è stato facile per il ministro Nordio prendere il Ddl già approvato dalla Camera dei Deputati con amplissima maggioranza e trasporlo in un decreto legge.
Ultimo intervento, poi, del ministro, molto probabilmente pressato dai colleghi di governo, se non dalla Meloni personalmente, è stata la nuova fattispecie di reato contro i “rave party”.
Tutti e tre questi interventi hanno sollevato vaste polemiche e non di poco conto.
La nuova versione modificata dell’art. 4 bis della legge sull’Ordinamento penitenziario prevede, in pratica, che le condizioni richieste per ottenere i benefici in mancanza della possibilità di collaborazione con la giustizia possano anche essere la dimostrazione dell’assenza di attualità dei collegamenti del condannato con la criminalità organizzata e di quella del rischio del loro futuro ripristino; con il particolare importante che debba essere il condannato per mafia a dimostrare questo. Tale ultimo elemento, però, è suscettibile di trasformarsi in una “probatio diabolica” per lo stesso detenuto, in particolare laddove si richiede che questi debba esercitarsi in una prognosi sul futuro, ovver dare prova negativa di qualcosa che non è attuale. I più garantisti, su tale testo, sono sul piede di guerra e giuristi, come il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick ha previsto, in un intervista al “Il Dubbio”, nuove impugnazioni alla Consulta per sospetta costituzionalità.
Sulla riforma Cartabia, invece, la questione si presenta più complessa, sia per l’ampiezza delle modifiche del sistema processuale e sostanziale penale, che per la diversità degli stessi. Tale riforma, infatti, si caratterizza, in materia penale, in primo luogo per una estensione dei casi ai quali saranno applicabili le sanzioni alternative alla detenzione ed anche senza attendere la pena definitiva, demandando altresì al giudice del merito con la sentenza di condanna – quindi quando la pena non è ancora definitiva – e non solo a quello di Sorveglianza che giudica i già condannati, la sostituzione della pena detentiva con una diversa misura non carceraria. Inoltre, prevede per taluni reati già procedibili di ufficio che siano, anche se a talune condizioni, procedibili a querela di parte. Vengono previsti filtri più pregnanti per poter rinviare a dibattimento un imputato ma, dall’altra parte, tempi più stringenti per presentare una costituzione di parte civile. Viene rafforzata la disciplina sulla giustizia riparativa volta ad evitare il prosieguo del processo, nonché un controllo ulteriore, con relative procedure di garanzie ed intervento per indagati e persone offese, su eventuali inerzie ed irregolarità durante la fase delle indagini preliminari. Vengono fissate nel codice di procedura penale le regole circa il deposito e le notifiche in maniera telematica di atti del procedimento già previste nella normativa emergenziale pandemica. Nota particolarmente dolente di questa disciplina è quella relativa alla previsione, come condizione di ammissibilità dell’impugnazione di una sentenza di condanna, di un nuovo mandato difensivo con nuova elezione di domicilio aventi data successiva alla sentenza stessa, nel caso in cui l’imputato sia stato dichiarato assente nel processo. Questa previsione coinvolgerà parte di quei cittadini che sono difesi di ufficio i quali, per qualche motivo, hanno interrotto troppo presto – o non l’hanno mai intrapreso – il rapporto con il proprio avvocato e che, per questo motivo, il loro difensore non potrà più, di sua iniziativa, appellare la sentenza se non riesce a ricontattare per tempo l’assistito per fargli sottoscrivere il nuovo mandato. La categorie di cittadini generalmente in queste condizioni sono principalmente poveri, specie senza fissa dimora, i quali rischiano di vedersi svantaggiati da questa discriminante previsione che vede sacrificare i loro diritti sull’altare della riduzione dei processi e, quindi, del risparmio economico. E’ evidente, qui, l’esistenza di un profilo di incostituzionalità per disparità di trattamento nella tutela dei diritti.
Il rinvio governativo all’entrata in vigore della riforma, allora, apre la possibilità, da un lato, ad un’auspicabile intervento su tale ultima discriminante previsione della riforma – questione che, purtroppo, rimane ancora assente nell’attuale dibattito politico – e dall’altro, alla malaugurata tentazione di rimetter mano sulla parte della riforma che estende le possibilità di accesso a misure penali alternative ed extramurarie da parte di imputati e condannati; possibilità, questa, che si teme fondatamente in considerazione del fatto che la destra si è sempre espressa in maniera contraria a tali benefici, per una mal concepita “certezza della pena” intesa spesso come “certezza” del carcere ed a detrimento del principio costituzionale della rieducazione del condannato.
Infine, questo stesso Consiglio dei Ministri ha dato dimostrazione di voler usare la mano dura sui fenomeni sociali non graditi, come la recente vicenda del “rave” non autorizzato di Modena, dinnanzi al quale il governo ha varato una nuovo articolo di legge che introduce il reato di “invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico”. Un nuovo articolo del codice penale, questo, creato sull’onda delle notizie giornalistiche sull’evento che ha creato preoccupazioni diffuse e su cui, vi è anche da dire, vi è stata un’ottima gestione da parte delle autorità di polizia le quali hanno evitato la prosecuzione del raduno attraverso una trattativa con gli organizzatori. L’invasione di terreni, come i raduni di massa non autorizzati sono già sanzionati dall’ordinamento, a livello penale ed amministrativo, per cui tale nuova disposizione penale si presenta sproporzionata a quanto intende scongiurare. In ogni caso, questo governo ha voluto, senza attendere quello che sarebbe stato un’auspicabile, nonché salutare, dibattito parlamentare, emanare frettolosamente una tale norma penale che appare anche ridondante, oltre che sensazionalistica, ad uso e consumo di spettatori, più che di cittadini ed in ossequio a certo populismo penale che spesso si riaffaccia nella politica, in particolare a destra; ancor più considerando che la pena detentiva prevista arriva fino, addirittura, a sei anni. Una disposizione, tra l’altro, che per come è stata scritta fa anche temere a molti che la sua applicazione si possa estendere pure ad altri tipi di raduni, come quelli aventi più carattere politico o sindacale che coinvolgano studenti e lavoratori. Essa si inserisce, chiaramente, in quell’approccio giustizialistico di politica criminale che ha sempre caratterizzato l’attuale classe politica al potere, tranne, naturalmente, nei confronti di colletti bianchi, specie se potenti. Lo spirito di questa norma, poi, contrasta con la tendenza di politica del diritto degli ultimi anni tendente a depenalizzare i reati e, come nel caso della Cartabia, a renderli meno perseguibili di ufficio, oltre a quello di evitare quanto più sanzioni a pene detentive. Il nuovo articolo che si inserirebbe nel codice penale, dunque, va chiaramente in direzione contraria.
Nordio è un ex magistrato con la fama di garantista che si trova in un governo il cui capo non ha la medesima fama, notoriamente. Infatti, complessivamente, quella del governo Meloni è stato un modo di debuttare nel campo della giustizia che si è presentato alquanto frettoloso e contraddittorio nell’emanare tali discutibili provvedimenti, per cui non è ancora dato sapere se questi siano effettivamente solo dettati da emergenze, vere e/o presunte, da precisi orientamenti di partito, da contrasti interni alla maggioranza o da altro ancora. Sta di fatto che questo governo debutta nella politica nazionale con questi temi e pare farlo in maniera claudicante nonché, per certi versi, a suon di manette.
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