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Debito pubblico e privato: rischi e doppiopesismo a fine 2022


23 Nov , 2022|
| 2022 | Visioni

All’indomani dello scoppio della crisi del 2007-08, che a stretto giro infiammò la crisi del debito sovrano in Europa fra 2009-12, quando era fresco il sentore del pericolo dei processi di finanziarizzazione, venne istituito un organismo che avrebbe dovuto monitorare il sistema per avvertirci di tali rischi. Si tratta del Financial Stability Board (FSB). Tale ente, durante gli anni in cui del tema non importava più a nessuno, ha continuato a sfornare rapporti nella indifferenza generale, l’ultimo dei quali è uscito lo scorso 16 novembre 2022. In esso si trovano dati interessati dei paesi interessati (cioè degli Stati appartenenti al G-20: Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Sud Corea, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Turchia, Uk, Usa, e Ue). Per esempio il ritmo dell’indebitamento di natura non-finanziaria per settori: Stati, imprese e famiglie. Le loro passività sommate, per tutti i suddetti paesi, se nel 2010 restavano saldamente sotto i 10 trilioni (1tr sono 1000 miliardi) di dollari, arrivavano sopra i 20 nel 2014, ed oggi superano in scioltezza la soglia degli 80 trilioni. Dobbiamo preoccuparci?

Debito pubblico e privato: rischi e doppiopesismo a fine 2022

Il dato finale trova senz’altro conferma nel Sovereign Borrowing Outlook 2022 dell’OECD; fonte che parla di un diverso insieme di paesi, a tratti coincidente, ma più ampia, arrivando a 38 paesi. Questa è specificamente dedicata all’indebitamento degli Stati che emettono titoli, quindi facendoseli prestare sul mercato. E pure qui si individua una dinamica crescente, culminante del 2020. Il rapporto vede una dinamica crescente del fabbisogno finanziario dello Stato, cioè di quanto i governi devono chiedere in prestito ai privati sul mercato.

Ma vanno considertati gli altri due settori: imprese e famiglie. Nello stesso studio del FSB (si veda l’immagine sovrastante) si vede come i debiti delle aziende abbiano avuto una dinamica abbastanza simile a quelli pubblici; questi ultimi, dopo un robustissimo balzo verso l’alto del post-2008 si mantengono in una fascia fra 80-90% rispetto al pil, mentre i primi dal 2013 decollano e dal 2015 restano in una banda fra 90-95% sul pil – senza che, per inciso, i soliti commentatori ci proponessero le solite paternali applicando al settore privato la necessità di austerità e di compressione delle spese. Nel 2020 esplodono entrambi oltre il 100%, ridiscendendo un po’ nel 2021. Il debito delle famiglie invece resta “virtuosamente” sotto il 70% il tutto il periodo considerato.

Tutto questo ci può suggerire due considerazioni: primo, la asimmetria fra invocare il taglio della spesa agli Stati (ossessivamente ripetuto) e quello alle imprese (clamorosamente ignorato) è clamorosamente viziato da pregiudizi antistatalisti e non trova riscontri nemmeno nei dati più mainstream. Dopo aver rintronato per anni i cervelli col refrain dei parametri di Maastricht (3% per il deficit, 60% debito pubblico sul PIL) nel 2011 i regolamento Ue del cosiddetto “Six Pack” hanno introdotto finalmente il debito privato fra gli indicatori di squilibrio che devono venire considerati in una analisi delle economie comunitarie che individui per tempo dei rischi. Purtroppo non se n’è quasi parlato, e mentre la Commissione sforna anno dopo anno i suoi rapporti, il discorso dominante continua ad imperniarsi sul debito governativo. Il motivo è chiaramente una visione in cui il pubblico va irreggimentato, limitato e sorvegliato come un bambino indisciplinato che può causare guai, mentre il settore privato sarebbe il luogo che produce in sé ricchezza e positività. Risulta infatti assai evidente che un restringimento del ruolo dello Stato nel settore finanziario libera risorse di liquidità che anziché essere impiegate per comprare titoli pubblici – che restano i più sicuri rispetto al default a fronte del mare magnum di prodotti finanziari aziendali – potranno essere riversate su obbligazioni private il cui esito più usuale è nutrire le solite bolle finanziarie.

Secondo: è rimasto nella storia come sia stato screditato quello studio che vedeva un indebitamento pubblico oltre il 100% come particolarmente problematico – sbugiardato per una errata impostazione dei dati, dopo però aver dato una legittimazione accademica alla austerità. Invece è restato pressoché ignoto un altro studio (Too Much Finance del 2012, pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale) di Arcand, Berkes, Panizza, secondo il quale un indebitamento privato oltre il 110% del pil produce effetti depressivi sulla crescita ed amplifica i possibili shock finanziari. Ed al contrario dell’altro non è saltato fuori alcun errore che lo indebolisca in maniera significativa.

La Ue è un po’ più di manica larga rispetto a tali studiosi: è stata fissata la soglia del 133% rispetto al pil per l’intero indebitamento privato. Come siamo messi? A fine 2021 ben 12 membri sforavano: Belgio, Cipro, Danimarca, Finlandia, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Olanda, Portogallo, Spagna e Svezia; due in più rispetto all’anno precedente, con Spagna e Malta che si aggiungono al club. L’Italia – guarda un po’ – è fra i paesi “virtuosi”. E questo per i dati post-Covid. Si attende a giorni il rapporto sugli squilibri macroeconomici per il 2022, con dati più aggiornati, che dovranno tener conto del demenziale autolesionismo europeo nel seguire gli Usa sulla strada delle sanzioni più nocive di sempre – per chi le applica, soprattutto. Non c’è proprio da stare tranquilli.

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