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Il genio, il pirata, il ribelle di Carlo Magnani


27 Nov , 2022|
| 2022 | Recensioni

Sport al di là della contingenza agonistica. Ne aveva già parlato Barthes in Lo sport e gli uomini, inquadrandolo nell’ottica di uno scontro tra visioni del mondo irriducibili – e, collateralmente, abbozzandone il ritratto dell’emotività dello spettatore. Non gli sport, ma uno sport: il tennis, che nei secoli, come tutte le manifestazioni dello Spirito eccedenti a sé e ineffabili, ha portato non solo la sua pratica in epoche e luoghi differenti, ma anche una lunga storia di trattazioni sull’arte della racchetta: dal Trattato del giuoco della palla di Antonio Scaino da Salò (del 1555!)  al Tennis come esperienza religiosa di David Foster Wallace. Per arrivare infine a Il genio, il pirata, il ribelle. La filosofia del tennis globale di Federer, Nadal e Djokovic (2022), uscito per l’eclettica collana di Mimesis, Il caffè dei filosofi. L’autore è un volto amico de La Fionda: Carlo Magnani, docente di Diritto dell’informazione presso l’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino, che abbiamo già conosciuto con Finché ci sono fake news c’è speranza!, di (apparentemente) tutt’altro tema.

Sarebbe un errore considerarlo un libro per filosofi o per tennisti. Entrambi, presi come lettori ideali, rischierebbero di vederci solo una prospettiva a volo d’uccello della loro disciplina, avvertendo nell’altra un controcanto sconosciuto e un linguaggio alieno. La grandezza della proposta intellettuale di Magnani consiste invece proprio nella sospensione della differenza tra pratica della filosofia e pratica tennistica – filosofia del tennis, appunto – per quanto, per ovvi motivi d’esposizione, sia la storia della seconda a essere narrata attraverso gli strumenti della prima. Come una piccola fenomenologia dello spirito aggiornata, in cui tutte le figure della modernità e della post-modernità prendono corpo e si contendono la propria partecipazione al Vero nella misura in cui sono in grado di battere l’altro sul campo da tennis o di cambiare la forma, le regole e le tecniche del tennis stesso. Il punto di partenza è quindi La filosofia del tennis; non a caso, il libro già pubblicato da Magnani dieci anni fa e che fa da precedente teorico al testo in questione.

I filosofi hanno la brutta abitudine, per ragioni di completezza o di semplice simmetria, di far quadrare i conti forzando i fenomeni, od occultandoli (um so schlimmer für die Tatsachen, forse disse Hegel una volta: quando i fatti non concordano con la teoria, tanto peggio per i fatti). Da questo punto di vista il nostro è stato, vivaddio, molto giurista e poco filosofo. La prima metà del libro passa quindi in rassegna le figure del tennis moderno (cioè compreso tra gli anni ’70 e ’90) in quanto anfibi sospesi tra pratica sportiva e figure filosofiche, in modo scientifico e senza l’arbitrarietà della suggestione o il peso della forzatura, ma naturaliter. Si passa quindi dalla rivoluzione cartesian-spinoziana del topspin di Bjorn Borg allo smascheramento hobbesiano degli isterismi della performance da parte di Jimmy Jimbo Connors; dal postmodernismo anticonvenzionale di Agassi, dal superomismo di McEnroe «condannato … a essere solamente unico» – si noti il gusto per l’aforisma, trait d’union di ogni vera anima conservatrice.

(Chi scrive, da ignorante e profano, si è lasciato cullare dall’accumulo di significanti sul tennis, tecnici e nominativi, come il tardo infante che si suggestiona di fronte ai nomi esotici di località e persona nei romanzi di Emilio Salgari. Sprono ulteriore per l’approfondimento della storia e della pratica di questo sport.)

Si è detto, il genio, il pirata, il ribelle: poiché la seconda metà tratta dei tre grandi nomi del tennis contemporaneo – rispettivamente, Federer, Nadal e Djokovic, ognuno visto come «soggetto simbolo capace di racchiudere a sé i tratti storici di un moto storico collettivo»[1].

Il genio, o potenza del positivo. Restauratore di una idea di regalità nell’epoca del nichilismo e del disincanto del mondo, e sublime agonista nei momenti Federer, atti di sovrana biomeccanica. Lo svizzero si impone non per imbattibilità – «si sa che non è un vincente ma un Genio che gioca bene a tennis»[2] – ma in quanto pietra di paragone e forgiatore dello spirito e della pratica nel nuovo millennio.

Il pirata, o potenza del negativo. Marino nell’estetica e nella provenienza, ha messo in discussione la sovranità del primo, contemporaneamente confermandola e facendosi confermare. Un sinolo indivisibile, una conflittualità che diventa reciproca dipendenza, una lotta per l’annientamento che, nella postmodernità e nel regno degli sponsor, acquista il sapore amaro dell’irriducibilità controllata. Difficilmente altrimenti si spiegherebbero i motivi per cui entrambi siano stati sotto la stessa bandiera di un logo pubblicitario in comune.

Il ribelle, o potenza dell’ambiguo. La sua storia personale è la più toccante e sofferta tra le tre – serbo, si ricorda di quando È-Solo-Una-Alleanza-Difensiva ha bombardato il suo paese e per sopravvivere è stato costretto a rifugiarsi in un bunker con la sua famiglia. Mantiene, nella vita come nella prassi tennistica, una anarchia conservatrice e una sostanziale ambiguità guerrigliera, come un soldato alla Jünger. Al di là della sua contemporanea appartenenza al jet set mondano del tennis, conserva una forte legame con la famiglia, la religione ortodossa e la patria serba. Si è parlato di lui recentemente, quando è stato escluso da alcune competizioni in quanto non vaccinato. Questo è stato lo scandalo di Djokovic: sottrarsi alla moralizzazione di una dicotomia imposta, non per partecipare del gioco di buoni e cattivi ma come scelta insindacabile e ingiustificata nella misura in cui non era tenuto a dover giustificare al mondo il suo comportamento. L’apparenza si è superata nel suo contrario, e quella che per pennivendoli e moralisti era sembrata l’affermazione dell’antiscientismo si è rovesciata nella massima conoscenza scientifica del proprio corpo visto come biomeccanismo assoluto.

Il controcanto nel libro è sempre la critica al tempo presente; critica che vede nella situazione tennistica uno specchio fedele dell’inclemenza dei tempi e della direzione generale della società. Così, per esempio, per la crisi della sovranità: il passaggio cioè dallo jus publicum aeuropaeum descritto da Carl Schmitt, che, com’è noto, vedeva in esso il reciproco riconoscimento tra stati sovrani a farsi la guerra (jus ad bellum) purché nel rispetto del diritto di guerra (jus in bello), a uno post-westfaliano dal diritto deterritorializzato. Tale e quale la situazione si è riproposta nel tennis. D’altronde, scrive Magnani, «(l)’ideologia neoliberale globalista in genere funziona così, si prende una questione di soldi e ci si spalmano sopra dei valori»[3]. La coppa Davis, la cui sola organizzazione era una vera e propria partita a scacchi, che, attraverso gli strumenti della diplomazia, andava a costruire la partita prima della partita stessa (attraverso le caratteristiche del campo, del luogo, delle condizioni atmosferiche e via dicendo) si è impoverita notevolmente spogliandosi della contingenza del luogo. Le sue competizioni, per ragioni dettate fondamentalmente dagli sponsor, si sono deterritorializzate in campi anonimi, isolati dal contesto urbano nelle grandi zone industriali e ridotti a non luogo per la loro sostanziale insignificanza ai fini della performance e interscambiabilità.

Un libro, quindi, fresco, intelligente e godibile, che riesce contemporaneamente a usare il tennis come pretesto della lettura del presente, e, soprattutto, a usare il presente come pretesto per la lettura del tennis.


[1] P. 17.

[2] P. 55

[3] P. 94.

Di:

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