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Se il futuro viaggiasse in bici il mondo sarebbe più civile


6 Dic , 2022|
| 2022 | Visioni

Nei giorni scorsi il combinato disposto di due eventi avrebbe dovuto riaccendere i riflettori sul problema della mobilità nel nostro paese. Da una parte, l’assassinio dell’ex campione di ciclismo Davide Rebellin mentre era in sella alla sua bici da parte di un camion. Ennesima tragedia che è cronaca quotidiana nelle nostre città. Dall’altra, l’eliminazione, nella bozza della legge di bilancio, dei fondi da destinare alla costruzione di piste ciclabili. Il governo di destra, in questo, coerente con la politica di conservazione sociale e ambientale che sta perseguendo, potrebbe raccogliere anche consensi. In fondo perché destinare soldi a un settore percepito come attività di svago? Il fatto è che la bicicletta non attiene solo allo svago e allo sport, ma riguarda le politiche di mobilità sostenibile che si rendono urgenti nel nostro paese. La bicicletta è a tutti gli effetti un mezzo di trasporto ed è l’unica soluzione al problema delle emissioni di gas serra e dell’inquinamento dell’aria nei centri urbani generati dal settore dei trasporti.

L’inquinamento atmosferico secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, solo in Italia, provoca novantamila vittime l’anno.  Eppure, pur registrando più vittime che per il covid, non c’è lo straccio di un provvedimento adottato o previsto per limitare tale tragedia. Andreas Malm (Corona, clima, capitalismo. Perché le tre cose vanno insieme e come dobbiamo uscirne) si chiede come mai non si adottino provvedimenti per fronteggiare l’emergenza climatica analoghi a quelli presi per combattere la pandemia da covid-19. Potremmo chiederci, analogamente, come mai non si fronteggia il dramma dell’inquinamento atmosferico che miete più vittime della pandemia? Alcuni autori hanno stimato che, in Cina, grazie al lockdown e alla conseguente diminuzione di emissioni, le vite salvate siano maggiori delle vittime causate dal covid-19 (https://www.thelancet.com/journals/lanplh/article/PIIS2542-5196(20)30148-0/fulltext).

L’unica soluzione, per un modello alternativo di viabilità, con evidenti ricadute positive sull’ambiente, è puntare sulla bicicletta e sul trasporto pubblico. Almeno nelle città.

Occorre riflettere sul fatto che ogni bicicletta in circolazione è un’automobile in meno. Il che significa meno ingombro per le strade delle città, che sono ormai dei depositi di lamiera a cielo aperto; meno inquinamento prodotto; meno rumore; meno spese per il servizio sanitario nazionale, dato che l’attività motoria previene le malattie. Ad esempio, non è molto agevole fumare mentre si pedala laddove, invece, è facile fumare dentro un’automobile magari con i finestrini chiusi in modo da non lasciar sprecato nulla dei miasmi prodotti.

Se si ragionasse in tali termini, allora le politiche pubbliche dovrebbero assumere un altro orientamento. Se si puntasse alla salvaguardia della salute pubblica non ci sarebbero dubbi nell’incentivare l’uso della bicicletta. Le strade delle città, invece, sono ad uso e consumo delle automobili e lo stesso codice della strada è calibrato principalmente sull’uso dei veicoli a motore. Spesso i marciapiedi sono stretti e costringono i pedoni a camminarvi in fila indiana mentre la strada che costeggiano ha spazio sufficiente per far correre quattro macchine affiancate. In alcuni casi, specie nei centri storici delle città, i marciapiedi non esistono e sono sostituiti da strisce che dovrebbero delimitare lo spazio pedonale. Per non parlare delle piste ciclabili, ricavate laddove si può, senza interferire troppo con il flusso veicolare. Molte volte si tratta di spazi condivisi con gli stessi pedoni. In sostanza si tratta di vere e proprie riserve indiane, di ghetti concepiti più per forma, per far vedere che si dà spazio anche a veicoli alternativi a quelli a motore, che non per incidere seriamente sulle politiche del traffico.  Si pensi a tutte le agevolazioni riservare alle auto elettriche e ibride, alle quali è permesso accedere alle ztl e a parcheggiare gratuitamente ovunque. Nessuna agevolazione è invece riservata ai ciclisti che quando si mettono in sella per percorrere le strade di una città italiana lo fanno a rischio della propria vita. Eppure siamo in presenza anche qui di un mercato potenzialmente in crescita che andrebbe solamente favorito non tanto o non solo con incentivi sull’acquisto quanto con spazi dedicati in modo idoneo. Il pericolo insito alla mobilità in bici è il fattore di maggiore dissuasione all’utilizzo di tale mezzo.

La rivoluzione ecologica passa anche per la redistribuzione degli spazi nelle città. In controtendenza a quanto è stato fatto nei decenni passati quando per stimolare la vendita di automobili è stato preferito il trasporto su gomma anziché quello su rotaia o su bicicletta.

Negli Stati Uniti, l’auto costituiva il fulcro dell’esistenza individuale e per essa passavano anche i momenti di svago, e non solo per le gite fuori porta: si pensi ai drive in o a quei posti di ristorazione dove le vivande venivano servite direttamente in macchina.

Sebbene in Italia non siano stati raggiunti tali estremi, pur tuttavia lo sviluppo del paese ha risentito della presenza ingombrante di una industria come la Fiat. Mentre in alcuni paesi del nord Europa, si è provveduto alla costruzione di una seria rete di piste ciclabili all’interno e fuori delle città, da noi la scelta è stata ben diversa. Molto è stato costruito attorno all’auto. La quale è assurta a status symbol e a prolungamento della personalità di chi la possiede. Alcuni spazi come i centri commerciali, nuovi templi del consumo extraurbano e veri nonluoghi, hanno sostituito altri spazi urbani di socializzazione e le botteghe cittadine, e non sarebbero pensabili senza l’auto. Costituiscono con l’automobile una simbiosi mutualistica nei cui gangli l’individuo, consumatore prima che cittadino, viene stritolato. Né sarebbe immaginabile l’estensione delle periferie cittadine o lo stillicidio di case che ha invaso gli spazi verdi pianeggianti e collinari. L’auto da l’illusione di poter raggiungere qualsiasi posto e di abbattere i costi dell’abitare permettendo l’allontanamento dalle sedi centrali degli spazi urbani. Ma in realtà, il prezzo che si paga è quello di un maggior tempo dedicato ai trasporti. Per raggiungere i luoghi di lavoro o di consumo ci si mette in auto e ci si passa gran parte del tempo libero a disposizione. Come evidenziava Jean Robert già negli anni Ottanta del secolo scorso (Tempo rubato. L’uso dell’automobile nella nostra società divoratrice di tempo), “le società industriali dedicano fino al 30% del loro budget di tempo sociale al trasporto dei loro membri”. L’automobile crea l’illusione di ridurre le distanze ma produce l’effetto opposto di aumentare i tempi di percorrenza. Ha dilatato gli spazi urbani creando l’illusione di uno spazio costituito di molteplici punti facilmente collegabili tra di loro. Ma, in realtà, ha dilatato il tempo impiegato per raggiungere tali punti. Basti pensare che la velocità media delle auto nei centri urbani è intorno ai 10 km/h, secondo uno studio di Legambiente, ben al al di sotto di quella delle bici.

Le pubblicità delle auto si fondano su un paradosso. Ossia la possibilità che il veicolo offre  di lasciarsi alle spalle le città inquinate e congestionate di auto e di raggiungere un paesaggio  incontaminato. Ecco allora che si rappresentano immagini di SUV che solcano strade deserte, guadano torrenti e raggiungono luoghi con panorami mozzafiato. Ma quei panorami smettono di essere mozzafiato proprio per la presenza del veicolo che inquina e deturpa il paesaggio. Si tratta di una trappola mentale che vede nella causa del malessere la soluzione.

Tale effetto grottesco non viene percepito neanche da chi ha l’onere di proporre un cambiamento. Dopo il declino dell’industria dell’auto, il riconoscimento dei danni ambientali e sanitari causati dall’uso dell’auto, ancor oggi la politica non riesce a immaginare una via alternativa. Pedoni e ciclisti non hanno diritto di cittadinanza in strada e vedono impedito l’esercizio a una mobilità autonoma. La soluzione all’inquinamento sembra arrivare dall’elettrico. Ma così facendo non si eliminano gli altri problemi legati all’uso eccessivo dell’auto: ingombro, pericolo per chi l’auto non la usa, pericolo per coloro che l’auto la usano, tempo speso inutilmente nei trasporti. Continuare nelle politiche di incentivazione all’uso dell’auto si iscrive nel novero delle azioni suicidarie (come continuare con l’uso di combustibili fossili, perseguire scenari bellici, sponsorizzare un consumo di merci che non ha senso) che stanno gettando il genere umano verso la catastrofe. Allora, forse, qualsiasi azione che si pone contro questa tendenza autodistruttiva è un’azione rivoluzionaria. La stessa bicicletta diventa simbolo di una rivoluzione non violenta necessaria per dirigersi verso la soluzione dei problemi delle società contemporanee. Simbolo di una rivoluzione antropologica e culturale che combatte il feticcio a quattro ruote. Già abbandonare l’automobile e salire in sella a una bici significherebbe sposare un altro modello rispetto a quello a capitalismo competitivo e consumista che ci ha portato sull’orlo del baratro.

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