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Per un pacifismo patriottico e popolare
È sulla scorta delle immani tragedie della Seconda guerra mondiale che si è giunti alla costituzione delle Nazioni Unite (1945). Non era la prima volta che si tentava di regolamentare de iure il problema della conflittualità internazionale. La novità era che la Carta di San Francisco implementava il principio dello ius contra bellum, un’innovazione antropologica del diritto internazionale che si lega a un’idea di
giuridificazione integrale delle relazioni internazionali è illusoria o mistificatrice; [questo] pangiuridicismo rischia di essere esiziale: spingersi fino al punto di azzerare il lato politico. Il globalismo giuridico [postula] la subalternità ai luoghi comuni anti-statuali del neoliberalismo [e mina] i fondamenti politici e sociali della civiltà costituzionale[1].
Ora, questa civiltà costituzionale è indissolubile dalla sovranità nazionale e, quindi, dalla politica. Infatti, la sovranità non può essere equiparata a un potere selvaggio invariabilmente teso all’autoritarismo e all’aggressione di altri Stati; essa, semmai, come scrive Geminello Preterossi, va intesa come
condizione di effettività politica dell’ordinamento giuridico stesso. La decisione sovrana, [infatti], è vocata all’ordine e serba in sé una mediazione, che però non si può pretendere di condurre al punto di annientare la politicità, giuridificandola integralmente. La mediazione giuridica come anti-sovranità nega sé stessa[2].
Ciò che, in sostanza, viene costituendosi a partire dal Secondo dopoguerra, è una costituzione imperiale Usa, fondata sui principî del neoliberalismo e dell’universalismo astratto del diritto, che si impone, soprattutto in Occidente, tanto all’interno degli Stati quanto nel campo delle relazioni internazionali, secondo il costrutto, oggi ormai totalmente sdoganato, della domestic analogy, introdotto in letteratura da Hedely Bull nel 1977, ovvero la tendenza a equiparare gli Stati agli individui e, dunque, a intendere le relazioni tra gli Stati sulla base degli stessi principî stabiliti dal diritto pubblico, per cui un’aggressione militare viene a essere valutata alla stregua di una rapina a mano armata o di un omicidio[3].
In parallelo all’impostazione pangiuridicista delle relazioni internazionali, che ha ridotto la politica e quindi il peso specifico delle sovranità nazionali, a partire dagli anni Sessanta gli studi della Peace research hanno diffuso un concetto di panpacifismo che, nel pur condivisibile sforzo di attribuire un significato positivo alla pace indipendente da quello di guerra, de facto ha contribuito a rafforzare l’attacco a ciò che restava della politica e della sovranità, «limite estremo e allo stesso tempo matrice pregiuridica, non razionale a priori ma almeno parzialmente razionalizzabile, del diritto positivo»[4]. Pangiuridicismo e panpacifismo condividono una stessa convinzione antropologica: la fede nell’esistenza del Problema dei problemi e, quindi, nella capacità/necessità di risolverlo, una volta per tutte. Eppure, come scrisse Norberto Bobbio, la pace non è il «problema dei problemi» per la semplice ragione che
il problema dei problemi non esiste. Il che non toglie che il problema della pace, pur nel senso negativo del termine, come problema della limitazione e addirittura dell’eliminazione della guerra, sia uno dei maggiori problemi cui gli uomini hanno cercato di dare, se pure sinora invano, una soluzione. Che cosa sono i movimenti pacifisti, che dall’inizio del secolo scorso hanno sino a oggi svolto opere di elaborazione d’idee, di propaganda e di agitazione, se non movimenti il cui scopo fondamentale è quello della guerra alla guerra? Che il pacifista ritenga di dare la preminenza al problema della pace, non vuol dire affatto che il problema della pace sia il problema che assomma in sé tutti gli altri problemi. Perché […] allargare il significato del termine “pace” e riempirlo di significati che storicamente e lessicalmente non gli spettano[5]?
Bisogna, in altre parole, prestare attenzione al tipo di pace che abbiamo in mente e soprattutto ai modi di tradurla in atto che ci immaginiamo e per cui ci battiamo. Se l’obiettivo è quello di cercare di arrestare la guerra nel mondo a partire dalla lotta contro ogni forma di violenza nella nostra vita, si finisce in quell’avvitamento del pacifismo su se stesso che rappresenta la manna per coloro che, nel nostro tempo, continuano indisturbati a fare la guerra e a minare effettivamente le uniche possibilità per governarla politicamente, cioè attraverso il realismo del dialogo. Scrive Mauro Magatti a proposito dell’antropologia del potere contemporaneo (ma ben si presta anche al nostro discorso):
La pretesa di voler controllare il mondo è evidentemente contro la natura delle cose. E perciò destinata al fallimento. Al fondo si vede il punto dirimente di tutti questi comportamenti così distruttivi: il rifiuto del dialogo, dello scambio con l’altro. […] Ma la paranoia del potere si vince solo con il realismo del dialogo[6].
Ciò non implica accettare la guerra come condizione naturale dei rapporti internazionali; si tratta, piuttosto, di evitare – se veramente abbiamo a cuore la pace – l’utopia disincarnata dell’umanitarismo liberal da salotto, che non a caso presenta il grave inconveniente di aver perduto quasi completamente il contatto con la prassi politica (e geopolitica).
Nel periodo della Guerra fredda, infatti, la pace d’impotenza, frutto dell’equilibrio del terrore, aveva restituito un certo ordine alle relazioni internazionali. A partire dagli anni Novanta, invece, il nuovo ordine universalistico propagandato dagli Usa ha cercato di acquisire una legittimità su scala globale tentando di supplire all’incapacità di garantire stabilità e pace alle relazioni tra potenze attraverso una narrazione moralizzante della normatività giuridica del diritto internazionale.
La globalizzazione doveva essere accompagnata da un grande racconto del mondo, un Bildungsroman all’insegna dell’ottimismo antropologico, dei mercati e degli spazi aperti, coerente con un Kulturkampf che si prefiggeva l’obiettivo di forgiare il cosmopolita buono, inclusivo e tollerante del futuro, anche assumendo sulle proprie spalle il White Man’s burden di organizzare guerre umanitarie (dall’ex Jugoslavia all’Iraq alla Libia) per estirpare gli spregiatori dei diritti umani, cancellare gli Stati-canaglia, bandire il male dal mondo.
I processi di globalizzazione e concentrazione del potere internazionale[7] di fin-de-siècle, infatti, richiedevano una governamentalità basata su una combinazione di sorveglianza e prevenzione, e abbisognavano di un tipo di guerra che fosse conforme al principio di prevenire una messa in discussione del nuovo ordine: per far ciò occorreva diffondere un’epidemia d’insicurezza e paura su scala globale, alimentandola di crisi e minacce sempre nuove.
Secondo Alessandro Colombo, questa governamentalità consiste essenzialmente in quella che lui definisce un’arte liberale della guerra[8], consistente nel raccontare il nemico politico come un criminale. In questo modo, si rafforza la propria legittimità di agenti di polizia globale e, allo stesso tempo, si nasconde la vera natura delle guerre occidentali: fungere da sostegno agli interessi geopolitici Usa e costituire un impero e una pace imperiale capaci di durare sine die.
Che cosa avviene se le guerre imperiali vengono risignificate dai media come azioni di polizia internazionale[9]? Che a venire a difettare nell’immaginario collettivo è l’idea stessa di guerra tradizionale, fondata su popoli in guerra in nome di una Causa, nonché la nozione stessa di libertà da conseguirsi mediante uno sforzo di mobilitazione collettiva che, in casi estremi, può persino assumere connotati bellici. Non è certo un caso che tutti i nemici dell’Occidente (rectius Nato) siano stati sistematicamente presentati dai mass media come criminali da tradurre dinanzi a una corte (Noriega e Milosevic), assicurargli un boia (Saddam Hussein) o il linciaggio (Gheddafi). Questo è avvenuto perché dalla costituzione delle Nazioni Unite e della Nato (1949), la “comunità internazionale” (rectius l’impero Usa), ha ha tradotto in atto uno ius ad bellum che presenta, in realtà, fortissime analogie con la tradizionale dottrina della guerra giusta – naturalmente riqualificata laicamente come dottrina dei diritti umani e dell’«intervento umanitario». Avviene così che, da un lato, si costruisce un potente discorso collettivo ed egemonico attorno all’enunciazione d’irrinunciabili principî di giustizia universale quali il «cosmopolitismo, l’umanitarismo, il multilateralismo e, appunto, la pace»[10]; dall’altro, s’«inverte l’onere della prova: una volta che entra in campo la giustizia, tocca a chi si oppone alla guerra il compito (a queste condizioni, politicamente ed eticamente disperato) di provare che la giustizia non è sufficiente, per esempio ricordando che, [come scrisse Max Weber], “non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male” e, quindi, non è affatto escluso che una guerra giusta produca conseguenze politicamente e umanamente disastrose»[11].
Che fare, dunque, con il concetto di pace? Come torcerlo a vantaggio della giustizia sociale, del benessere nazionale, dell’equilibrio e della stabilità internazionale? È ancora lecito cercare di tradurre in atto un concetto di pace che, pur non limitandosi alla mera negazione della guerra, sia in grado di avere un certo grado di realismo e attuabilità? È evidente come non ci possa bastare la mera enunciazione della volontà di uscire dalla Nato. Bisogna costruire attorno a questo slogan una prassi politica.
Il centro di un discorso antibellicista e allo stesso tempo realista dovrebbe consistere nella comprensione del fatto che esiste un filo conduttore tra pace e guerra, e che questo fil rouge è di natura politico-ideologica. È a causa, infatti, di una ormai inveterata abitudine alla depoliticizzazione che abbiamo cancellato in noi persino il desiderio di mantenere al “politico” la sua dimensione di senso, cioè il suo rapporto con un piano di “utopia concreta” capace di manifestarsi in «forme di resistenza all’iniquità di ogni parte con la nonviolenza, la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza, le manifestazioni popolari, la pressione incessante dei media e delle opinioni pubbliche»[12].
Si potrebbe cominciare con la diserzione dal pacifismo “dall’alto”, imposto dalle élite, per costruire, attorno a un pacifismo di massa, un programma politico che non abbia timore di affrontare i temi dell’ identità nazionale e della storia patria. Per la nazione italiana, questo pacifismo popolare potrebbe configurarsi come il segno di riscatto di un Paese reale pronto a mostrarsi degno di appartenere a quel Paese tradizionale (etico-spirituale) da cui papa Benedetto XV trasse la celebre definizione della Grande guerra come di un’«inutile strage».
Ciò che qui si vuole suggerire è che bisogna uscire dall’universalismo astratto caratteristico delle oligarchie liberali, in primis quella statunitense[13], che de facto si traduce in un bellicismo apparentemente senza fine – e sempre in nome della Giustizia Infinita –, e riedificare l’unico universalismo concreto realmente capace di corrispondere alla storia nazionale e al suo intreccio, lo si voglia o no, con la tradizione spirituale incarnata nell’auctoritas della Chiesa romana.
Un pacifismo patriottico e popolare che potrebbe porsi alla stessa altezza della “positività” della guerra. Infatti, nel momento in cui la pace viene qualificata in positivo, la sua opposizione alla guerra non assorbe, come avviene nel pacifismo negativo del liberalismo, «tutta l’estensione dei rapporti possibili fra Stati e anzi lascia uno spazio libero per un termine medio, tenendo conto del quale soltanto l’estensione viene completamente occupata»[14]. Non sarà, dunque, il pacifismo astratto da salotto (o da social) a salvarci dalla guerra, ma un pacifismo politico-ideologico, pronto a scommettere nella potenzialità di quella tensione dialettica tra opposti che schmittianamente (amico versus nemico è simmetrico a pace contro guerra) è alla base stessa del “politico”. Un campo di tensione che trova il suo punto archimedeo nel punto di caduta politico, ovvero nell’obiettivo concreto e pragmatico di creare un effettivo «Terzo per la pace» che non può che essere una nuova Onu. Le Nazioni Unite, infatti, abbisognano di una riforma radicale, che si muova anzitutto nella direzione di eliminare il diritto di veto per i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, di creare nuovi meccanismi deliberativi per l’Assemblea generale (per esempio rendendo reciprocamente vincolanti le risoluzioni dell’assemblea e del Consiglio di sicurezza), di fare pressione sull’opinione pubblica americana per la cancellazione dell’American Service-Members’ Protection Act, una legge del Congresso statunitense del 2002, ratificata da Bush, che proibisce alle autorità statunitensi di cooperare con la Corte penale internazionale e autorizza il presidente a liberare militarmente i cittadini americani chiamati a rispondere al Tribunale dell’Aia[15].
È solo nella battaglia politica per obiettivi “alti” di questa natura che una prospettiva di nonviolenza attiva può recuperare un certo margine di realismo.
Ci occorre ritornare a spiegarci il reale come risultato dei rapporti di forza, non avendo tema di presentarsi come discorso controideologico, perché, come scrive Carlo Galli, le ideologie non sono morte: esso sono il modo in cui si presenta il pensiero politico nell’età moderna[16]. Del resto, non tutti i rapporti di forza sono di eguale natura: a una strabordante forza militare si può (si deve?) opporre una forza di ordine politico, sociale, simbolico.
Solo un pacifismo ben ancorato alla realtà dei rapporti di forza interni e internazionali può conferire una prospettiva politica alla nonviolenza attiva, a patto che tali prassi si articolino all’interno delle identità nazionali e storiche dei popoli, alla lunga, ciò che potrebbe almeno potenzialmente riavvicinare i cittadini ad amare la propria patria e quelle altrui. Questo il senso di un nuovo internazionalismo concreto e solidale, capace di portare il trascendente nell’immanente, cioè il Terzo per la pace a «fare di due, uno»:
Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace (San Paolo, Lettera agli Efesini, 14-15).
[1] Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto, Laterza, Bari-Roma 2022, pp. 19-20.
[2] Ivi, p. 19.
[3] Hedley Bull, The Anarchical Society, Macmillan, London 1977.
[4] G. Preterossi, Teologia politica…, cit., p. 18.
[5] N. Bobbio, Pace,cit., pp. 33-34.
[6] Mauro Magatti, Il realismo del dialogo, «Avvenire», 27 novembre 2022.
[7] Colombo, p. 160.
[8] Cfr. Alessandro Colombo, Il governo mondiale dell’emergenza, Raffaello Cortina, Milano 2022.
[9] Alessandro Colombo.
[10] Ivi, p. 162.
[11] Ivi, pp. 169-170.
[12] Marco Tarquinio, La resistenza nonviolenta è utopia? Solo se non la radichiamo nella vita, «Avvenire», 27 novembre 2022.
[13] Lo storico americano Eric Zuesse sostiene che la democrazia americana sia «solamente un imbroglio e una farsa, indipendentemente da quanto sostengono gli oligarchi che governano il paese e controllano anche i media. In altre parole, gli Usa sarebbero effettivamente molto simili alla Russia o a tante altre “democrazie elettorali” poco trasparenti. A differenza di un tempo, adesso siamo una oligarchia»; Eric Zuesse, The Contradictions of the American Electorate, in «Counterpunch», 15 aprile 2014, https://www.counterpunch.org/2014/04/15/the-contradictions-of-the-american-electorate/
[14] Il problema…, p. 126.
[15] D. Ganser, cit., pp. 76-77.
[16] Caro Galli, Ideologia, il Mulino 2022.
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