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Verso la normalizzazione del lavoro a distanza
Umberto Romagnoli, amico e autore della Fionda, era professore emerito di Diritto del Lavoro dell’Università di Bologna. In occasione della sua scomparsa, avvenuta in questi giorni, la Redazione rende disponibile il suo contributo pubblicato sul secondo numero della rivista cartacea La grande trasformazione – Attacco al lavoro, in omaggio al suo immenso lavoro e porgendo le sue condoglianze alla famiglia e agli amici.
Premessa sui limiti tematici e sul metodo dell’intervento che mi propongo di sviluppare.
a) Quanto ai primi, segnalo che non mi occuperò dello smart working nell’attuale situazione di emergenza epidemiologica massicciamente introdotto nell’ordinamento dal diritto eccezionale posto in essere da una copiosa sequenza di DPCM. Pressoché indistinguibile dal preesistente tele-lavoro in base al quale si lavora sempre e soltanto da casa in connessione per tutto l’orario d’ufficio e non sostenuta dalla strumentazione necessaria né preceduta da un’adeguata formazione professionale, quella che si è diffusa in questi mesi con la rapidità di un fulmine coinvolgendo l’intera pubblica amministrazione e la generalità delle organizzazioni produttive di beni o servizi non è che una forma di working from house. Il proposito di promuoverla su larga scala risponde prioritariamente all’esigenza di difesa preventiva della salute pubblica riducendo il rischio causato da contatti fisici tra individui assembrati nell’abituale luogo di lavoro, pur garantendo simultaneamente – nei limiti del possibile – la continuità dell’attività produttiva. L’esperienza si è avviata per effetto di una scelta seccamente autoritativa consigliata ai governanti dai virologi e prescinde completamente dalla volontaria adesione dei governati; casomai, alcuni di costoro si sono visti attribuire il diritto di lavorare from house per i medesimi motivi sanitari che giustificano l’imposizione della modalità lavorativa. Insomma, è come se nel Palazzo avessero deciso di scaraventare in acqua gente che non sa nuotare. Non c’è da stupirsi perciò se il nostro smart worker galleggia e, chissà per quanto tempo, galleggerà con la goffaggine di un giovane anatroccolo. Del tutto assenti tanto la finalità di realizzare nuovi (nel senso di migliori) equilibri tra lavoro e vita privata quanto quella di accrescere la produttività aziendale, che viceversa corrispondevano alle motivazioni compresenti nella legge istitutiva (81/2017) dello smart working in senso proprio e, costituendone la ratio, dovrebbero caratterizzare la sua versione post-pandemica.
b) Quanto al metodo che seguirò, devo avvertire che la cornice in cui si situa il tema da affrontare è quella del declino del diritto che nel Novecento dal lavoro prese il nome; un declino che, curiosamente, pare una replica della sua lunghissima e opaca fase aurorale. L’indeterminatezza degli scenari autorizza a leggervi la cifra, oggi come allora, sia dell’esuberante vitalità del nuovo che avanza sia della gradualità della decomposizione del vecchio che se ne va. Infatti, è realistico supporre che la sperimentazione di un improvvisato smart working sia destinata a proseguire ben oltre la fine della pandemia che gli ha messo le ali. Dopotutto, l’industrializzazione ha richiesto più di un secolo per distogliere dalle loro abitudini masse di artigiani non più del tutto artigiani e di contadini non più del tutto contadini, rieducandoli al lavoro sincronizzato e accentrato nelle macro-strutture della produzione. Per questo bisogna ascoltare la saggezza di Antonio Machado: «el camino se hace al andar» («il sentiero si fa camminando»). Come dire che solamente col passare del tempo conosceremo l’effettiva portata di un’innovazione giuridico-organizzativa rimasta fino a poco tempo fa allo stato di un fenomeno di nicchia e soltanto alla fine ne scopriremo latitudine e impatto, vantaggi e svantaggi di varia natura. Essa infatti non è un affare di moltitudini (per lo più) impreparate e delle loro rappresentanze sindacali; punto e basta. Quello che si preannuncia è un autentico passaggio d’epoca che avrà un’infinità di ricadute dirette e indirette sul territorio, sulla mappa degli stili di vita di intere collettività, sul volto stesso delle città coi loro quartieri-dormitorio pensati per operai semi-analfabeti. Per adesso, invece, siamo ancora in piena transizione e bisogna barcamenarsi in un paese caratterizzato da un’estesa arretratezza tecnologica. Per questo stiamo tutti vivendo in un tempo sospeso. È il tempo dell’adattamento, durante il quale i comuni mortali predestinati a subire i mutamenti del mondo reale ricorrono alla sola forma di autotutela che possono attivare: irrigidirsi nella difesa dell’esistente. Non importa che il processo di cambiamento continuerà egualmente il suo corso. Come ha scritto Karl Polanyi, «ciò che è inefficace nell’arrestare completamente una linea di sviluppo non è per ciò solo completamente inefficace. E il ritmo del cambiamento spesso non ha minore importanza della direzione del cambiamento stesso». Nessuno può dire con certezza quanto durerà il tempo dell’adattamento. È soltanto ovvio invece che non potrà essere gestito in maniera efficace da arrabbiati epigoni del luddismo e da disperati sprovvisti di capacità di autodeterminazione. Per pensare il contrario al punto di disconoscere e mortificare il ruolo del sindacato ci voleva proprio il candore (?) del legislatore che nel 2017, introducendo nell’ordinamento lo smart working, ne subordina l’adozione unicamente all’accordo intervenuto tra le parti del contratto di lavoro. A sua giustificazione può addurre il fatto che nella pratica l’innovazione aveva dimensioni limitate pressoché elitarie e non era in agenda la sua esplosione. Di sicuro, sarebbe sbagliato (e comunque ridicolo) enfatizzare il richiamo a una Costituzione che protegge l’inviolabilità del domicilio come il più personale dei diritti (art. 14). L’argomento infatti non tiene conto che da più di un quarto di secolo c’è un fondamentale diritto della persona la cui valenza è qualitativamente identica a quella ascrivibile al diritto all’inviolabilità del domicilio ed è oggetto di negoziazione a livello collettivo-sindacale. È il diritto di sciopero nella vasta area dei servizi pubblici essenziali.
Come è noto, da quando è entrata in vigore la legge 146/1990 lavoratori e sindacati non possono più considerare il diritto di sciopero come un bene non negoziabile e, contemporaneamente, lo Stato ha rinunciato alla pretesa di monopolizzare con le sue leggi la regolazione del conflitto come, peraltro, gli permetterebbe di fare l’art. 40 Cost. Lo Stato tuttavia non ha certo ritenuto di affidarne l’elaborazione all’autonomia contrattuale privato-individuale. Ha imposto un confronto tra sindacati ed enti erogatori dei servizi pubblici tenuti a cooperare alla determinazione delle regole del conflitto, pur riservandosi la potestà di pronunciarsi in via definitiva sulla regolazione pattizia per il tramite di un’Autorità indipendente nominata dai Presidenti delle Camere che ne giudica l’idoneità a garantire la soddisfazione degli interessi dell’utenza. Non si capisce allora perché non sia stato prima d’ora ipotizzato un analogo percorso per certificare la validità di atti dispositivi del diritto dei singoli cittadini all’inviolabilità del domicilio, magari scomodando il Garante della privacy.
Un noto uomo di teatro ha osservato che la parola «lavoro» è diventata (non solo da noi) «una realtà straniera», un’entità lontana, estranea alla nostra cultura. Secondo Stefano Massini, infatti, il latinorum allarmava uno stralunato Renzo Tramaglino non più di quanto oggi impensierisca il comune mortale il lessico che anglicizza il linguaggio del lavoro ricorrendo ad un repertorio impressionante di locuzioni. Job sharing. Job on call. Smart working. Nearworking. Coworking. E via di questo passo.
Non so se l’intenzione fosse proprio quella di continuare a spaventare, fatto sta che anche il Parlamento italiano ha provato a esprimersi in inglese, come deve avergli suggerito un astuto spin doctor esperto nell’arte della comunicazione di massa. La sua performance stilistica di maggior successo è senz’altro il provvedimento che, all’epoca di un governo presieduto da un rinomato anglofono come Matteo Renzi, è stato consegnato all’opinione pubblica con un’etichetta che involontariamente si prende gioco delle più vecchie generazioni di giuristi del suo paese ossessionate dal complesso di inferiorità nei confronti della sofisticata Begriffsjuristerei dominante nella Germania d’anteguerra. Sto alludendo al Jobs Act.
La paura del tranello, però, è nascosta non tanto nelle parole quanto piuttosto nell’uso cui esse si prestano. In proposito, il caso dello smart working è esemplare.
Di per sé, lo smart working non è che una modalità consensuale di svolgimento di un’attività esigibile in base a un ordinario contratto di lavoro dipendente destinato ad attuarsi al di fuori della gabbia di una postazione materialmente occupabile in fasce orarie giornaliere e/o settimanali prefissate e collocata dentro il perimetro dell’impresa.
È esattamente questa la faccia con cui lo smart working è entrato anche nel nostro ordinamento giuridico del lavoro. Almeno finora.
Tuttavia, maturata in un contesto confusamente attraversato da dinamiche striscianti e al tempo stesso dirompenti che interessano i tradizionali schemi negoziali, la clausola testé descritta ha un DNA che non lascia presagire facilmente come si concluderà l’imponente metamorfosi in corso. Gli esiti potrebbero anche essere di segno opposto.
Così, nella misura in cui si accentueranno i profili attinenti all’autonomia individuale e alla responsabilità operativa dello smart worker, si finirà per metterne in discussione l’appartenenza alla categoria dei lavoratori subordinati e inserirlo in quella di coloro che lavorano più con che per l’imprenditore. Se questo fosse l’assestamento definitivo dello smart working sbucato dalla pandemia, si può scommettere che lancerebbe una sfida al più sarcastico interprete delle nuove forme di lavoro. Ken Loach, infatti, sarebbe invogliato a denunciare l’artificioso moltiplicarsi di falsi autonomi, narrando gli effetti rovinosi che è capace di produrre l’autosfruttamento che l’abolizione di fatto di qualsiasi barriera tra spazio-tempo di lavoro e vita privata rischia di incentivare. Non a torto un rispettabile gentiluomo dell’età vittoriana, Samuel Butler, annotò che «ci sono molti che si ammazzano di lavoro per la pura incapacità di frenare questa loro passione; una passione rovinosa che li domina come la brama dell’alcol domina l’ubriaco». Poi ci sono i tanti «nuovi poveri» che hanno il problema di sbarcare il lunario. In queste condizioni, sarebbe una ben magra consolazione accontentarsi di segnalare che ci sono molti disposti a rinunciare alla garanzia costituzionale dell’inviolabilità del domicilio.
Peraltro, la prassi evolutiva della pattuizione di cui sto parlando potrebbe orientarsi in direzione opposta. Non è escluso cioè che diventi irresistibile la pressione a ribadire che essa non è che una clausola additiva di un contratto di lavoro subordinato; una pressione che si spinge al punto di sopprimere la necessità della sua sottoscrizione ad opera della controparte riconducendo l’imposizione unilaterale di questa modalità lavorativa ad un’ordinaria forma d’esercizio discrezionale dello ius variandi (art. 2103 c.c.). Pertanto, il luogo della prestazione di lavoro finirebbe per configurarsi a stregua di una cellula organizzativa dell’impresa persino nella più frequente delle ipotesi: quella in cui lo smart worker lavora in casa propria. È in questa prospettiva che il ricorso alla pratica dello smart working verrebbe agganciato alla mediazione dell’autonomia collettiva: in deroga, ovviamente, allo ius conditum. Il che basterebbe per suscitare un ilare delirio da onnipotenza. Conosco vecchi sindacalisti che esclamerebbero: «è il massimo del potere sindacale», direbbero. E avrebbero ragione.
Dettato in un momento di particolare difficoltà dell’economia allo scopo di accrescere la competitività del sistema industriale, l’art 8 della legge 148/2011 attribuisce alla contrattazione collettiva periferica («di prossimità», nel felpato linguaggio legislativo) la licenza di derogare non solo alla contrattazione di livello superiore, ma anche a gran parte della stessa legislazione – ivi compresa, quindi, anche la norma che sancisce la necessità del previo consenso al lavoro agile da parte del diretto interessato in ossequio all’art. 14 Cost. il quale, tutelando l’intimità della vita privata che si svolge in una privata dimora, assegna esclusivamente al titolare dell’interesse protetto la decisione di sacrificarlo.
Sarebbe però imperdonabile tacere che il varco aperto nel sistema delle fonti del diritto del lavoro alla vigilia del crollo dell’ultimo governo di centro-destra può piacere soltanto a professionisti del gioco d’azzardo che si divertono un mondo a vedere l’effetto che fa sugli astanti sentirsi dire che a questo corpus normativo tocca morire nella medesima condizione che lo aveva visto nascere: nell’anonimato e senza gloria. Non per caso, parecchi giuristi-scrittori si sono affrettati a riesaminare l’art. 8 alla luce delle prescrizioni costituzionali fino a contare una mezza dozzina di violazioni; la CGIL proclamò immediatamente uno sciopero di protesta e la stessa FIOM si mobilitò a sostegno di un referendum abrogativo della norma che sponsorizza il primato dell’autonomia dispositiva dei privati nel sistema delle fonti regolative del rapporto di lavoro. Ciononostante, è onesto riconoscere che il clima creato dall’anomala giuridificazione sia stato nel complesso più permissivo che di rigetto. Il segretario generale pro tempore della CISL definì «demenziale» l’azione di lotta decisa dalla CGIL – mentre c’era semplicemente da chiedersi «se non ora, quando?», come inutilmente replicò un’indispettita Susanna Camusso. L’istanza referendaria fu giudicata «inopportuna, scriteriata, populista» e fu boicottata dall’assordante silenzio dei mass media. Insomma, la norma è rimasta.
La verità è che essa è sorretta dalla trasversalità della condivisione di una prassi circondata da un ampio consenso. Essa esprime l’idea che la regolazione dello scambio tra chi vende lavoro e di chi lo compra spetta a soggetti che agiscono in base a una concezione proprietaria della contrattazione collettiva. Non che, ci tengo a sottolineare, l’art. 8 ne sia il necessario completamento. Tuttavia, la sua spudorata radicalità finisce per accentuare la continuità con la politica del diritto che ha egemonizzato il dopo-costituzione in materia sindacale e del lavoro. Non è infatti azzardato congetturare che nemmeno l’eventuale soppressione dell’art. 8 avrebbe potuto, né potrebbe in futuro, civilizzare l’habitat. Anzi, è ragionevole presumere che coeteris paribus non equivarrebbe né al blocco né all’inversione di una tendenza di lungo periodo. Come dire: la norma si situa all’interno di un più ampio orizzonte di senso ove è rinvenibile la chiave di lettura che permette di riconoscervi l’estremizzazione della logica sulla quale si è costruito l’impianto politico-culturale dell’esperienza giuridica post-costituzionale. Il dato da cui partire è che essa pesca nel profondo e, poiché valorizza in misura esponenziale la dimensione privatistica, patrimonialistica e mercatistica degli interessi in gioco, simboleggia il processo di de-costituzionalizzazione che ha fatto defluire ed allontanato il lavoro, le sue regole nonché la sua stessa rappresentanza sociale, dalla sfera di un superiore interesse presidiato dallo Stato. Non a caso, la norma contestata, ma sopravvissuta intatta alle contestazioni, ha smesso di essere interpretata a stregua di una seria minaccia anche nel settore dello schieramento sindacale che la considerava una diavoleria paragonabile all’avvelenamento dei pozzi ordinato cinicamente dallo stato maggiore degli eserciti occupanti prima dell’evacuazione. Infatti, ha cominciato a pensare (anche senza dirlo) che possono presentarsi imprevedibili situazioni che consigliano di valutare l’art. 8 in questione un’opportunità che tocca ai sindacati non tanto rimuovere quanto piuttosto gestire «responsabilmente», senza vergognarsi e anzi con la convinzione di compiere il loro dovere. Allora, è proprio vero: le vie del Signore sono infinite. Ne costituisce una testimonianza anche la casistica contrattuale finora disponibile in materia di smart working.
Riguardo ad essa devo confessare che una prima occhiata ha acutizzato il disagio che (non solo a me) procura quello che Massimo D’Antona chiamava il non detto dello Statuto dei lavoratori. Esso attiene al cono d’ombra che, con la complicità dell’inattuazione dell’art. 39 cost. cui si deve l’informalità in cui ama muoversi il sindacato-istituzione, persiste sull’esercizio del potere che il sindacato detiene in qualità di rappresentante dell’interesse collettivo.
Come è noto, lo Statuto è la legge delle due cittadinanze. Del sindacato e, al tempo stesso, del lavoratore in quanto cittadino. E ciò perché sancisce la non-espropriabilità anche nel luogo di lavoro di diritti che spettano al lavoratore in quanto cittadino. Per questo, lo Statuto riconosce al lavoratore più di ciò che può dare un contratto a prestazioni corrispettive. Molto di più; e può farlo perché il legislatore statutario prende sul serio un evento privo di testuali riscontri in sistemi giuridici omogenei al nostro: issandosi nelle zone alpine del diritto costituzionale fino a diventare, da noi, il formante dello Stato, il lavoro è entrato nell’età della sua de-mercificazione. Non era mai successo che il diritto del lavoro – né quello legificato né quello giurisprudenziale né quello di cui è artefice il sindacato – fosse sospinto a ricalibrare il centro gravitazionale della figura del cittadino-lavoratore spostando l’accento dal secondo sul primo: ossia, dal debitore di lavoro sul cittadino.
Ciononostante, le direttrici di un’esperienza applicativa ormai cinquantennale mettono in evidenza uno sviluppo diseguale delle linee di politica del diritto cui si ispira il provvedimento legislativo. Infatti, lo Statuto come legge di cittadinanza dei sindacati in azienda ha assunto fin dall’inizio un rilievo preminente sullo Statuto come legge di cittadinanza dei singoli nei luoghi di lavoro. E ciò anche perché, mentre si preoccupa di proteggere il lavoratore dalle ingerenze del potere dell’impresa, il legislatore statutario non ne definisce la posizione di fronte ai rappresentanti sindacali. Il che significa implicitamente (ma non oscuramente) che lo stesso legislatore esonera il sindacato da verifiche del consenso e non è nemmeno sfiorato dal dubbio che blindarne il potere possa causare inconvenienti di non poco conto. Di sicuro, è documentabile che non lo ha incentivato ad attivare tempestivamente le antenne per stabilire se il canale unico della rappresentanza affermatosi dopo l’estinzione delle commissioni interne si fosse logorato né lo ha impegnato a sciogliere, con non inferiore velocità, il nodo dell’ambigua coabitazione di RSU e RSA.
Fatto sta che ha prevalso l’uso di un’ottica autoreferenziale basata su principi pre-costituzionali, e anzi pre-moderni, che fanno del sindacato-istituzione più un tutore che un mandatario e del suo rappresentato un soggetto a metà strada tra il capace e l’incapace, meritevole di essere considerato più che altro nella sua qualità di «destinatario finale di decisioni vincolanti assunte in suo nome e per suo conto». Per questo, a monte dei «temi di un diritto sindacale possibile», Massimo collocava quello – «strettamente apparentato coi problemi di governabilità di una democrazia adulta» – che attiene al «modo di essere rappresentati». Un modo da ridefinire tendo conto della crescente esigenza di andare incontro al «generale bisogno di ridisegnare nel sistema giuridico l’immagine dell’individuo, con le sue istanze di autodeterminazione di fronte ad ogni potere, anche se protettivo e benefico».
Basterebbe ciò che ho appena finito di dire per dimostrare l’infondatezza dell’opinione secondo la quale lo Statuto li dimostrerebbe tutti, i suoi cinquant’anni. Chi ragiona così è prigioniero di un sillogismo che è facile sbugiardare.
Premessa maggiore: il contesto ambientale dello statuto dei lavoratori è la fabbrica fordista. Premessa minore: il sistema produttivo si è radicalmente trasformato. Ergo, lo Statuto è da buttare.
Il sillogismo è falso e la deduzione che se ne ricava una sciocchezza. Lo Statuto non ha mai legato la sua vitalità ad un modo di produrre storicamente determinato. Si riconnette invece a valori la cui vulnerabilità al contatto con le ragioni dell’impresa era simboleggiata in forma paradigmatica dal fordismo. Ma si tratta di valori che vanno protetti indipendentemente dal variare nel tempo del modello prevalente di produzione e di organizzazione del lavoro.
Piuttosto, è vero che la linea di politica del diritto di cui lo Statuto è stato l’apri-pista non ha avuto gli svolgimenti che avrebbe dovuto avere. Infatti, prevale tuttora il metodo, non opportunistico né contingente, di un pragmatismo sensibile a una concezione manageriale del lavoro. Essa dà per scontato che la dimensione mercatistica dello stato occupazional-professionale acquisibile per contratto finisca per schiacciare la dimensione politico-istituzionale dello status di cittadinanza acquisibile secondo i principi del diritto pubblico. Anzi, ha contribuito in maniera determinante a precludere al diritto del lavoro di assumere come proprio referente sociale non più il produttore subalterno cui si chiede più obbedienza che consenso, bensì un soggetto col suo patrimonio di diritti di cittadinanza sempre meno negoziabili.
In effetti, lo Statuto aveva gettato le premesse necessarie per imprimere una violenta torsione all’evoluzione del diritto del lavoro. Avrebbe voluto che quest’ultima non fosse più polarizzata sullo scambio contrattuale di utilità economiche e dominata dall’esigenza di disciplinare i comportamenti del lavoratore in conformità con gli standard di prestazione imposti al lavoro organizzato. L’avrebbe voluta più attenta ai valori extra-contrattuali ed extra-patrimoniali di cui il lavoro è portatore. Viceversa, l’esortazione del legislatore statutario a ripensare le connessioni che si stabiliscono tra lavoro e cittadinanza è caduta nel vuoto. Soltanto Massimo D’Antona intuì che, per il diritto del lavoro, era «una questione di ridefinizione strategica». Perciò, quella che lo Statuto racchiude è una virtualità rimasta inespressa nella misura in cui ha spaventato l’impresa più di quanto non abbia sollecitato il sindacato. Infatti, tanto l’impresa quanto il sindacato hanno rifiutato la sfida a rilegittimarsi mediante l’adeguamento dei rispettivi modelli di comportamento alla trama dei diritti del lavoratore dipendente che Bruno Trentin disegnò per la sua ideale Città del lavoro.
Pertanto, visto che quello del lavoro dipendente continua ad essere un diritto le cui oscillazioni tra il diritto dei beni materiali e il diritto della persona ne compromettono libertà, dignità, sicurezza, non è retorico affermare che c’è un Nuovo Mondo che sta ancora aspettando il suo Colombo. Per avvistarlo e sbarcarvi, il diritto del lavoro sarà costretto ad allentare i suoi ormeggi identitari.
La svolta è raffigurabile graficamente come un contro-movimento, perché – esaurita la transizione dallo status al contratto, di cui Henry S. Maine colse per primo la portata rivoluzionaria, e incassato ciò che essa poteva dare – si dovrà tornare allo status. Uno status che, non potendo più coincidere con lo stato occupazional-professionale caratteristico dell’industrialismo, nemmeno può dipenderne. È lo status di cittadinanza riconosciuto e protetto da una democrazia costituzionale vigente in una società in cui, come diceva Gérard Lyon-Caen, «on restera nécessairement industrieux, si non industriel».
Tutto ciò significa che la cultura giuridica del lavoro dovrà riallacciare discorsi mai iniziati davvero col diritto del welfare pubblico modellato sul prototipo del lavoro culturalmente e politicamente egemone nella società industriale. Quello che verrà dovrà intensificare la protezione dello status di cittadinanza indipendentemente non solo dallo svolgimento del lavoro «regolare» la nozione del quale è stata memorizzata da intere generazioni nell’arco di due secoli di esperienza industriale, ma anche dalla stessa occupabilità. Non per caso incontra consensi la proposta d’ispirazione beveridgiana di passare dalla garanzia del reddito di chi il lavoro ce l’ha alla garanzia del reddito spettante al cittadino in quanto tale: al cittadino che il lavoro lo ha perduto o lo cerca, ma non lo trova. Infatti, ciò che deve cambiare è anche il modo di affrontare il problema della disoccupazione; e ciò perché nel post-industriale la crescita del pil e della produttività non va a braccetto con la crescita dell’occupazione. Per questo, il problema è non solo il lavoro che cambia. È soprattutto il lavoro che manca: non più congiunturale, la disoccupazione si è trasformata in un dato strutturale.
Certo, nel frattempo non può non sgomentare che le cose si siano messe in modo da incrinare la fiducia che il lavoro dipendente sia l’unico strumento di riscatto possibile per moltitudini di comuni mortali e la piena occupazione sia dietro l’angolo.
Sconcertati, del resto, erano anche i tolemaici, quando si sparse la voce che il pianeta terrestre non aveva mai avuto il privilegio di collocarsi al centro dell’universo. Ma, alla fine, i tolemaici dovettero rassegnarsi a restare in minoranza. Oppure, come fecero i più vispi e intelligenti, si sono decisi a imparare a disimparare ciò che avevano appreso dai testi che avevano studiato.
Proprio come (suppongo) faranno quanti ritengono possibile che il novecentesco diritto del lavoro inteso come diritto della cittadinanza definita industriale – perché (suppongo) odorava di petrolio, sudore, vapore di macchine – riuscirà ad inglobare il diritto «per il» lavoro inteso come diritto della cittadinanza industriosa.
Come dire che, vista la crescente scarsità di lavoro nella forma che rese possibile farne il passaporto per la cittadinanza riconosciuta e protetta dalle costituzioni contemporanee, occorre riplasmare lo statuto giuridico del cittadino-lavoratore su quel che sta raggomitolato nel sottosuolo dell’età post-industriale e gli scavi porteranno in superficie. Probabilmente, i materiali finora estratti non sono pregiati. Questa, però, non è una buona ragione per desistere. Anzi, se non avremo il testardo ottimismo del cercatore d’oro che setacciava l’acqua dei torrenti dell’Alaska per trovare nella fanghiglia una scheggia di metallo giallo, ci attarderemo per chissà quanto tempo a rimpiangere la cittadinanza industriale, senza sapere quel che la cittadinanza industriosa può dare.
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