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La portata rivoluzionaria di uno sguardo


30 Gen , 2023|
| 2023 | Visioni

Come una luce accecante, una frase m’illumina di colpo: “Che angoscia scoprire a un tratto quello sguardo come un centro universale dal quale non posso evadere. Ma che riposo, anche! So infine di essere. Trasformo a mio uso e per la tua più grande indignazione la parola imbecille e criminosa del vostro profeta, quel ‘penso, dunque sono’ che mi ha fatto tanto soffrire – perché più pensavo, meno mi sembrava di essere – e dico: mi si vede, dunque sono. Non ho più da sopportare la responsabilità del mio vischioso dissolvermi: colui che mi vede mi fa essere; sono come egli mi vede.”[1]

Dunque la visibilità non si acquista nello spazio pubblico, non è questione strettamente politica o sociale, bensì esistenziale, essa si manifesta ben prima già nella sfera di riconoscimento del privato.

Anzi attiene al momento stesso dell’essere, nel senso del suo manifestarsi a sé mediante un processo attraverso lo sguardo dell’altro che altro non è che “la mia trascendenza trascesa”. La visibilità fa acquisire all’essere la coscienza di essere, ci accorgiamo e abbiamo contezza di essere stati visti.

Tutta la nostra esistenza ruota intorno all’esigenza di essere sicuri di essere ancora in vita. Ma si è in vita solo nel momento in cui contiamo ancora per qualcuno. E anche nel momento di profonda rassegnazione, in cui non crediamo di essere visti, resistiamo in quanto riportiamo alla memoria momenti passati, in cui eravamo sicuri di esistere, nella speranza futura di esistere ancora nello sguardo dell’altro.

Tuttavia, in Sartre, il tema dello sguardo ha una portata profondamente negativa, in quanto l’altro è visto sin da subito come simbolo di pericolo, come produttore di oggettivazione qualificante che “oggettivandomi a me stesso, mi rimanda a me stesso”. Però a veder bene, lo sguardo dell’altro non mi pietrifica né mi fa provare immediata vergogna, anzi mi provoca una piacevole sensazione di sollievo. Risulta chiaro che la società opera sì un processo di oggettivazione e catalogazione di ciò che osserva, ma questo avviene in seguito, con la mediazione della parola e della sua declamazione pubblica. Non sono già qualificato dallo sguardo dell’altro, ma vengo solo identificato. Sono stato riconosciuto. Esisto. E questo è tutto ciò di cui ho bisogno. In questo modo, il mondo si dimostra relazionale sin dalla sua insorgenza, e tutto ruota intorno a rapporti, legami che costruiscono microcosmi interpersonali e poi sociali. Così la domanda fondamentale dell’esistenza diviene: “Voi, chi dite che io sia?”, o più prosaicamente “chi sono io per te?”. É così tanto esistenziale e vitale una tale domanda che assurge a fondamento stesso dell’essere. Acquisire valore in relazione ad altri individui permette al soggetto di disvelarsi per quello che è ed emanciparsi da una esistenza vuota.   Il venire qualificati è la fuoriuscita, l’auto-rappresentazione e la manifestazione dell’essere all’esterno.

Ora, la questione di fondo diviene se sia possibile esistere soggettivamente al di fuori di questa rappresentazione, ovvero se le vite di scarto siano realmente vite, se gli invisibili sono veramente tali.

Siccome si è già detto che il tema della visibilità attiene alla sfera dell’individuo, appare piuttosto improbabile risultare del tutto invisibili, in quanto tale condizione è riferita allo spazio pubblico.

Fin dalla nascita, ad esempio, ci sono almeno due soggetti che constatano la presenza di quell’essere: la propria madre e la levatrice. Tuttavia, ragionando per assurdo, ipotizziamo una situazione in cui ci si trovi difronte alla completa inesistenza del soggetto rispetto a terzi: come dimostrare l’esistenza di un tale soggetto? Un tale soggetto esiste, in quanto postula ontologicamente il suo essere mediante un’immagine. É l’immaginazione l’elemento che fa da pendant alla realtà. Eppure l’immagine non è semplicemente pensiero, ma anche e soprattutto azione. Non è oggetto, ma assenza dell’oggetto superata attraverso l’opera ricostruttiva della ragione non mediata: “l’atto dell’immaginazione parte da un’assenza, da una lacuna reale avvertita nel mondo, che cerca di colmare attraverso un’operazione magica di evocazione”[2]. Questo è il modo mediante il quale si introduce il nulla nel mondo, l’immagine nella realtà, l’assenza nell’essenza. Ma siamo davvero così convinti che questo vuoto nel mondo sia il nulla?

Anche se sicuramente non è un oggetto, l’immagine corrisponde al tutto in relazione al soggetto che lo evoca, e questo lo ricompensa con la vita o con la sicurezza di esistenza. Ciò avviene perché l’atto di immaginare non è annichilimento della realtà, negazione dell’esistenza, come erroneamente sostiene Sartre, al contrario è l’unico modo possibile di esistere, è azione vincolata, non libera. Un esempio ce lo offre Laing con il suo concetto di “identità alterata” che presenta la follia come una “fuga in cerca di soluzioni”, è una strategia adottata al fine di vivere in una situazione in cui non si può più vivere. Una soluzione che si ritaglia intorno a frammenti residui di speranza. In cui anche il più piccolo gesto, il più piccolo conforto vengono utilizzati per poter dire: “tutto ciò che posso fare è continuare a vivere”. Così si ha un completo superamento della dialettica anima-corpo. L’essere viene composto da entrambi gli elementi inscindibili. Lo spiritualismo e il naturalismo altro non sono che due facce della medesima medaglia. La percezione finisce per inerire tanto all’oggetto (corpo) che al soggetto (spirito), al visibile come all’invisibile. Lega irrimediabilmente l’immanenza alla trascendenza: in fondo, è così che si manifesta Dio nel mondo attraverso l’immanentizzazione della trascendenza, nell’incarnazione e nella morte del Figlio. Dio si umanizza, si fa carne, ma soprattutto si manifesta all’uomo nel mistero della nascita, morte e resurrezione (in cui torna trascendenza, superando il supremo negativo).

Il mondo rinuncia in parte al suo carattere di oggettività per reimmergersi nella fenomenologia della coscienza. Questa è la traduzione ontologica di un sapere teologico. La percezione ci dona una pluralità del reale, non più interamente catturabile, ma che attinge a piene mani dal “mondo della vita” husserliano (Lebenswelt).

La fragilità e caducità della vita, che è innanzitutto perdita, fanno da premessa alla riconquista della stessa nella sua totalità. L’esperienza presenta, quindi, una pluralità di significati non uniformabili. La realtà si presenta così come multiforme e ambivalente, ma non per questo incomprensibile o non astraibile e tutto ciò risulta essere già un primo obiettivo per rifuggire da un atteggiamento di stampo relativistico (la grande promessa mancata del moderno).

Tuttavia si ricade in un nichilismo che non ci appartiene in quanto non tiene conto di tutto un retaggio esperienziale del passato che è a fondamento del presente. Quindi si va alla continua ricerca di punti fermi per costruire un modello confacente all’effettività della realtà attuale. Uno di questi è sicuramente il soggetto, come già delineato, il quale funge da katéchon del Potere.

Il pensiero post-moderno non riesce a farne a meno, anche se tenta di liberarsene con tutte le sue forze. Il soggetto continua ad esistere, anche se deformato, sfigurato, scisso, e questo è un dato di fatto. Infatti la domanda sull’identità di singoli individui, così come di interi gruppi, si è fatta ancora più urgente, una volta frantumatesi le grandi promesse dello stato moderno con il conseguente declino delle macro-ideologie verso la privatizzazione dei processi micro-identitari parziali, ma di una parzialità che non si fa più tutto (mediante il binomio forza/consenso), anche se continua a pretendere un riconoscimento da parte di tutti (egemonia epistemologica che pretende il consenso senza costruirselo): pensiamo alla rivendicazione identitaria etnica, razziale (Black Lives Matter), sessuale (Me Too, lgbt+), di genere (femminismo) che non rompe in pieno con il sistema (anzi ne fa pienamente parte), in quanto non polemizza contro i suoi presupposti strutturali ed economici, che tuttavia mette in mostra le contraddizioni di un modello che si autoproclama come oggettivo, universale, perfetto e realizzato (le filosofie della fine della storia), ma che tale non è.

La crisi di un progetto di modernità che immergeva il soggetto nella storia, fa sì che la contingenza della singola vita acquisti valore assoluto, sciolto rispetto al contesto socio-economico-politico, e questa chieda di realizzarsi hic et nunc, senza compromessi e mediazioni, all’interno di uno scenario di continue crisi (sociale, economica, ambientale, sanitaria, geopolitica), delle quali il sistema stesso è produttore e se ne nutre.

Si assiste all’erosione, in ordine cronologico, del campo dei diritti economici, politici, sociali e civili, in favore del verbo neoliberista della globalizzazione. Le grandi rappresentazioni moderne perdono di forza dinanzi al futuro, o almeno vengono destituite di fondamento e sostituite da una nuova grande narrazione mainstream imposta dall’establishment. Così non si riesce più a costruire un contenitore politico comune che trasformi le singole esperienze di ciascuno in questione progettuale di classe, di nazione o di Volkgeist.

Non vi è più l’idea di una Storia orientata al progresso perpetuo o votata al raggiungimento dello scopo e alla sua ricompensa: c’è una contrazione delle aspettative nel presente, dopo aver già predato il passato e desertificato il futuro. Eppure una speranza rimane ancor accesa nella portata rivoluzionaria e messianica di uno sguardo: il vivere si fa nel presente, nell’irriducibile caducità dell’attimo, nel momento stesso irripetibile dell’essere, il tempo si palesa in quello sguardo singolare e straordinario che ci ridona la vita. Uno sguardo che ricostruisce un microcosmo su cui puntare, scommettere per ricostruire una morale non unica, ma che quantomeno accomuna almeno due spiriti soggettivi. Lo sguardo è lo strumento mediante il quale si palesa la finitezza dell’individuo, ma anche ciò che permette di recuperare l’in sé infinito. A ben vedere, forse, lo sguardo non è semplicemente organon, bensì il negativo dialettico stesso. É un primo atto di responsabilità che si manifesta all’esterno, che ci fa fuoriuscire dal più becero individualismo per ripensare ai limiti e ai valori del nostro esistere rispetto all’altro e al mondo intero. Un atto di responsabilità che attiene alla tematica della “cura” del sé, dell’altro, del mondo.

C’è una intrinseca politicità nell’immediatezza dello sguardo. Siamo di fronte alla vis costruttiva/distruttiva di un contatto sociale non mediato e irrazionale che non necessita né dell’astrattezza razionale di un patto/contratto tra consociati, né dell’ordine coattivo di un normativismo moralizzante. Così, lo sguardo non è solo materialità o immanenza, ma trascendenza che si manifesta a monte del sociale.

La scelta è quella di risolvere sul piano ontologico un problema di carattere sociale e politico, una sorta di ontologia sociale che tuttavia non è solo essere, ma immaginazione dell’essere, percezione dell’essere e al tempo stesso è dover essere, o meglio ancora coazione al dover essere: la relazione che si instaura non è intrinsecamente produttiva di energia politica, ma ha una tendenza alla coazione come superamento dell’elemento dialettico. Questa forza plasma legami sociali plurali, contraddittori, anche conflittuali, ma che assumono una tensione verso un Aufhebung non necessariamente di sintesi. Ovviamente nel politico vi è un qualcosa in più rispetto a questi intrecci interpersonali, vi è un surplus, uno scarto, c’è carica polemica, c’è un investimento radicale nel simbolico, vi è un’ideologia e soprattutto c’è una decisione fondativa, purtuttavia il legame originario costituisce nucleo essenziale della relazione politica come in-contro.


[1]J.-P. Sartre, Il rinvio, Mondadori, Milano, 1973, pp. 384-385

[2]R. Bodei, La filosofia nel Novecento (e oltre), Feltrinelli, Milano, 2015, p. 151

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