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Canzoni malriuscite di vita, carne, terra e morte


7 Feb , 2023|
| 2023 | Recensioni

Canzoni malriuscite di vita, carne, terra e morte è l’esordio letterario del giovane poeta lucano Federico Maria Santangelo, originario di Tricarico (Mt). Essere cresciuto nel paese natale dei poeti Rocco Scotellaro e Mario Trufelli, di artisti come Antonio Infantino, aver ascoltato, fin da bambino, racconti legati a personalità di tale calibro ha, probabilmente, contribuito ad alimentare la vena poetica e il talento artistico dell’autore.

Ciò che salta immediatamente all’occhio del lettore che sfogli per la prima volta la raccolta è l’importanza della circolarità al suo interno, indubbiamente legata alla concezione ciclica dell’esistenza e dei ritmi naturali, tipica del nucleo comunitario a cui Santangelo sente di appartenere in modo viscerale, profondo. La terra, intesa come un’entità a sé stante, che avvince a sé e fornisce radici e senso di identità, ma intesa anche come sacrale rispetto di rituali ancestrali e collettivi, è uno dei temi che attraversano l’opera, evidente fin dal titolo. Le sezioni in cui la raccolta è suddivisa sono racchiuse, come in un’espressione matematica, – a testimonianza di una meticolosità certosina, quasi maniacale, nell’organizzazione della struttura dell’opera – all’interno di due parentesi: una, posta in apertura, si intitola Autoritratto senza specchio; la seconda lirica, a chiusura della prima parentesi (e dell’intera silloge) e naturale prosecuzione della stessa fin dal titolo, si intitola Autoritratto con lo specchio rotto. Nel primo autoritratto, il poeta ricostruisce la propria immagine: tuttavia, anziché riflettersi in uno specchio, egli sceglie di autorappresentarsi in modo introspettivo, cercando la propria identità dentro se stesso. Quello che emerge è un chiaro senso di malessere: con versi notevoli (anche dal punto di vista della resa musicale) come “Sono la quarantunesima carta del mazzo / quella voce fuori campo / a cui non dai ascolto / il canto fuori coro / la nota fuori scala che pare dissonante / nel passo leggiadro del viandante / […]”, il poeta esprime la propria percezione di sé come elemento discordante, disarmonico, stonato rispetto al contesto circostante. Gli stessi toni – anche, se, in certa misura, sempre più aspri, in una sorta di climax ascendente – si ritrovano nell’autoritratto finale, dove Santangelo scrive “[…] sono l’ultimo libro / di uno scrittore fallito / che ha dimenticato il colore dell’inchiostro […]”. Versi di questo genere non sono, probabilmente, da intendersi come un atto di autocommiserazione o come un mero atteggiamento vittimistico, ma piuttosto come un tentativo di affermare la propria originalità, di evidenziare il proprio rigetto dei concetti di omologazione e di normalità, pur non nascondendo la difficoltà di gestire, sul piano emotivo, la diversità: eppure, è proprio essa in questo caso che dà vita e linfa alla creazione poetica, trasformandosi in risorsa (più che ostacolo) e aiutando il poeta a spiccare il volo come l’albatros baudelairiano.

I due componimenti appena menzionati fanno da cornice alle due sezioni in cui si divide l’opera, Canzoni malriuscite di vita e carne e Litanie mal cantate di terra e morte. Come si può facilmente intuire leggendo il titolo, uno dei leitmotiv della prima parte della raccolta è il sentimento amoroso, vissuto con l’ardore dei giovani anni, ma anche con inaspettata e insolita delicatezza, sebbene causa talvolta di lacerazione interiore. L’io lirico, con versi vibranti, denuncia l’inconsistenza e l’illusorietà di un sentimento più immaginato che vissuto, più idealizzato che reale: così è nel V componimento, dove l’autore scrive “Tu dicevi parole / che gettavi al vento / e correvo / a raccoglierle ogni secondo. / Tu dicevi parole / senza amore / che strappavano le carni / al centro del dolore”. E ancora, emerge la frustrazione dell’io lirico che sente di essere niente più che un fantasma evanescente agli occhi della persona amata, senza per questo smettere di manifestare la propria dedizione nei suoi confronti ([…] sono ombra / e dietro / t’accompagno / dove non sei / mai andata. Sono ombra / e non mi vedi / se non sotto un lampione […].

Nella seconda parte, Santangelo dimostra di padroneggiare ancora meglio la parola poetica: ne deriva maggior equilibrio, misura metrica e precisione nelle scelte lessicali, oltre che una fortissima musicalità, profondamente connaturata nell’autore, musicista abilissimo. Vale la pena soffermarsi sulla scelta del termine “litanie” per definire le liriche di questa seconda parte: tale termine rimanda alla sfera religiosa, effettivamente qui presente. Si tratta di una religiosità “laica”, popolare e che rimanda ai riti devozionali tipici della terra cui il poeta appartiene. Paradossalmente, infatti, pur avendo dichiarato di avvertire la propria dissonanza rispetto a chi lo circonda, egli non può fare a meno di sentirsi parte di una collettività, della comunità in cui è nato e cresciuto, facendosi portavoce della stessa e dimostrando, forse, in questo, di aver vagamente introiettato l’esperienza scotellariana. Hanno il suono della nostalgia le canzoni dedicate alla sua terra: nella triade composta dalle liriche XII, XIII e XIV, l’autore chiede alla sua chitarra – sua compagna inseparabile – di rammentargli le notti di gennaio al freddo della neve, le canzoni interminabili sotto la torre dei suoi avi e le voci di persone care ormai andate; nella lirica successiva (la XIII), il poeta constata con dolore e rassegnazione la trasformazione che ha subito il suo luogo natale, dove la solitudine e lo spopolamento fanno da padroni, tanto che non c’è più nessuno “a commentare il passaggio / d’un carro funebre adornato / per l’ultimo giro di boa”, denunciando uno dei problemi emergenti del Mezzogiorno; nel componimento n. XIV, invece, Santangelo allude alle “anime dei tristi briganti”, simbolo storico di una terra chiusa in sé e fortemente identitaria come la Basilicata.

A chiudere la raccolta, infine, è una poesia in cui il poeta recupera riferimenti classici legati al poema omerico de L’Odissea, sapientemente sfruttati per trattare il tema del ritorno a casa: il poeta, moderno Odisseo, dopo aver affrontato un viaggio metaforico e tutto mentale tra parole e sentimenti, parafrasando i versi, conta i passi per tornare dove nessuno più lo attende, nella sua bella Itaca.

Dunque, a dispetto dell’aggettivo (“malriuscite”) affibbiato dall’autore alle sue canzoni, egli dimostra di avere stoffa e talento, e non si può certamente non riconoscere che quella di Santangelo è una prima prova poetica particolarmente ben riuscita.

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