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La pace e la storia. Riflessioni dopo un anno di guerra


8 Feb , 2023|
| 2023 | Visioni

Non c’è un cammino per la pace. Il cammino è la pace. (Thich Nhat Hanh)

Riposate in pace perché noi non ripeteremo l’errore. (Epitaffio sulla lapide dei martiri dell’Olocausto nucleare di Hiroshima)

Quando nel 1985 Norberto Bobbio chiude la prefazione allo scritto kantiano Per la pace perpetua (Zum ewigen Frieden)lancia una provocazioneestremamente chiarae diretta al lettore: “Kant aveva una concezione ottimistica della storia, una concezione che oggi noi non abbiamo più.” Composto nel 1795, in seguito alla notizia della Pace di Basilea tra Francia e Prussia, il testo si presenta fin dal sottotitolo come un progetto filosofico, la stesura cioè di una serie di articoli nei quali riporre la garanzia di una pace continua e duratura tra gli Stati.

L’idea non è nuova: già l’Abate di Saint-Pierre, a seguito del Trattato di Utrecht del 1713 col quale si metteva fine alla guerra di successione spagnola, si era cimentato in una impresa simile. La sua idea era quella di dare vita a un’istituzione internazionale che s’impegnasse a diffondere e tutelare regole condivise tra gli Stati membri, al fine di garantire pace, stabilità e sicurezza. Con l’Abate di Saint-Pierre prende avvio il cosiddetto “Pacifismo utopistico”, che non solo ispirerà sul tema pensatori quali Rousseau, Voltaire e appunto Immanuel Kant, ma sarà considerato una sorta di vademecum di alcune esperienze successive come la Società delle Nazioni, L’ONU e l’Unione Europea.

A fine ‘700 Kant prende in mano l’argomento collocandolo nell’alveo del giusnaturalismo e soprattutto del pensiero di Hobbes: se lo stato di natura in cui gli uomini vivevano in una sorta di guerra di tutti contro tutti (homo homini lupus) era una condizione di insicurezza permanente, da cui gli individui avevano il dovere morale di uscire per non continuare a danneggiarsi a vicenda, allora la nascita dello Stato coincide con la certezza dell’ordine, della pace e della stabilità. Il diritto ha quindi per Kant una valenza intrinsecamente deontologica: l’abbandono della guerra è un imperativo categorico, una questione etica che non riguarda più solo il rapporto tra individui, come era per i giusnaturalisti, ma anche quello tra Stati, che sono esposti a conflitti e contrasti già per il solo fatto di vivere confinanti, con una vicinanza che non pone solo problemi di ordine geografico e geopolitico, ma anche culturali, sociali e politici.  Per ovviare a queste questioni, Kant ipotizza la nascita di una Lega (Bund) o Federazione (Föderation) che riunisca più Stati, e nella fattispecie quelli che si trovano a condividere un medesimo programma giuridico, affinché siano d’esempio per gli altri, e non solo nella scelta del loro ordinamento, ma anche nella garanzia di pace e stabilità che ne discende. Quello di Kant, dunque, rispetto all’Abate di Saint-Pierre, è un pacifismo non tanto utopistico, ma giuridico e deontologico: giuridico perché delinea un paradigma di diritto a cui appartenere e uniformarsi; deontologico perché è un dovere morale rifuggire la guerra ed è un diritto poter vivere in pace. La teorizzazione di questi presupposti motiva la scelta del sottotitolo Un progetto filosofico.

Per Kant non c’è idea di progresso umano disgiunta da quella di pace, e per l’appunto dalla pace duratura. Di fronte alla storia che è perlopiù cronistoria di tutte le guerre per arrivare sempre a una qualche tregua o pace, Kant mette l’accento sull’aggettivo ‘perpetua’. Come la storia della psicologia è la storia delle malattie mentali e non della creatività della mente umana – spiega Bobbio, evocando Galtung[1] –, allo stesso modo le scienze storiche hanno rivolto la loro massima attenzione alle dinamiche belliche, lasciando alla pace un ruolo per così dire secondario e di sfondo. Non diversamente, la filosofia si è occupata molto di più di guerra che di pace. Nel rapporto linguistico-semantico, guerra è insomma il termine dominante e pace quello subordinato. Si afferma questo anche perché, studiando retrospettivamente la storia, il concetto di pace ha avuto sempre una valenza transitoria: una sorta di tregua, di pausa momentanea e non di termine dei conflitti sostanziale, duraturo e appunto perpetuo. “Piaccia o non piaccia, ne siamo o no consapevoli, la nostra civiltà, o ciò che noi consideriamo la nostra civiltà, non sarebbe quello che è senza tutte le guerre che hanno contribuito a formarla.[2]

Basta evocare come esempio della contemporaneità la Conferenza di pace di Parigi del 1919, all’indomani della prima guerra mondiale. Siamo di fronte a un insieme di accordi con i quali le potenze vincitrici stabiliscono l’entità del prezzo da far pagare ai paesi sconfitti: ne uscirà una Germania rigidamente punita e umiliata, che ben presto farà conoscere al mondo il suo desiderio di riscatto e rivalsa con i prodromi della seconda guerra mondiale. Si tratta di una riprova di come la pace abbia sempre come precondizione la riscrittura dello scacchiere politico e geopolitico nelle relazioni tra Paesi, delineando nuovi equilibri internazionali, ovvero possibili future tensioni tra Stati. La pace, nella sua subordinazione alla guerra, è insomma sempre pace-per-ora, pace-finchè.

Questa lezione pareva oltremodo acquisita nel 1945, al termine del secondo conflitto mondiale e davanti alle tragedie delle due bombe atomiche che hanno lasciato attonito il mondo. La storia si è fermata: l’uomo ha dimostrato all’uomo quanto il suo stesso progresso poteva brutalmente farlo regredire. A partire da quel momento, pare prendere avvio una sorta di revisione del concetto di pace. Di lì a poco, la passata Società delle Nazioni (sorta a fine prima guerra mondiale senza tuttavia riuscire a finalizzare e concretizzare il suo intento di prevenire ed eludere i conflitti armati) sarà sostituita dall’ONU, un’Organizzazione di carattere internazionale finalizzata a garantire la sicurezza mondiale e i rapporti di pace tra nazioni, perseguendo la cooperazione e le relazioni politiche intergovernative. Risale poi al 1949 la firma del Patto Atlantico da cui è nata l’Organizzazione del Trattato Atlantico del Nord (North Atlantic Treaty Organization), in sigla NATO, un’alleanza militare a scopo difensivo.  Seguirà nel 1955, dopo l’adesione della Germania Occidentale al Patto Atlantico, la ratifica del Patto di Varsavia, col quale l’Unione Sovietica istituisce un’alleanza militare con i suoi paesi satellite. Nel secondo dopoguerra e per tutti gli anni della guerra fredda, pace diventa sinonimo di allargamento delle zone d’influenza, di controllo strategico degli assetti politici amici e nemici, di contenimento dell’espansionismo avversario, e di costruzione di blocchi sempre più rigidi tra sistemi di pensiero economici e politici. Tradizionali cause di guerra come il territorialismo e il problema dei confini vengono superati e aggravati dalla competizione crescente tra economie. Il paradosso a cui si assiste è quello di avere sempre più Stati in armonia tra loro, al prezzo però di un bipolarismo asfittico, basato su profondissime contrapposizioni ideologiche e un equilibrio del terrore, nel quale la minaccia reciproca garantisce, per assurdo, la stabilità. La pace è assicurata dal timore vicendevole tra grandi potenze e grandi schieramenti.

A fare le spese di questo processo politico e geopolitico tuttora in corso e mai conclusosi è il concetto stesso di Stato o sovranità, che si sbriciola e smarrisce in una serie di ulteriori avamposti concettuali quali alleanza, patto, collaborazione, unione, condivisione. Tanto più in ambito europeo. Scrive Carl Schmitt:

La porzione europea dell’umanità ha vissuto, fino a poco tempo fa, in un’epoca in cui i concetti giuridici erano totalmente improntati allo Stato e presupponevano lo Stato come modello dell’unità politica. L’epoca della statualità sta ormai giungendo alla fine: su ciò non è più il caso di spendere parole. Con essa vien meno l’intera sovrastruttura di concetti relativi allo Stato, innalzata da una scienza del diritto dello Stato e internazionale eurocentrica, nel corso di un lavoro concettuale durato quattro secoli. Lo Stato come modello dell’unità politica, lo Stato come titolare del più straordinario di tutti i monopoli, cioè del monopolio della decisione politica, questa fulgida creazione del formalismo europeo e del razionalismo occidentale, sta per essere detronizzato.[3]

Ne sia una dimostrazione inconfutabile il fatto che la condanna chiara ed esplicita della guerra da parte della nostra Costituzione, nata proprio all’indomani delle macerie del secondo conflitto mondiale, è oggi letteralmente sacrificata e oscurata da legami esterni e vincoli internazionali che non tengono minimamente conto della sovranità popolare. Checchè ne dicano e ne raccontino, l’articolo 11 della Carta Fondamentale non lascia spazio a dubbi o ulteriori interpretazioni nel recitare che:

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Almeno tre sono gli ordini di questioni su cui occorre soffermarsi. Primo. Ripudio è un termine chiaro, su cui non si può negoziare o tergiversare, appellandosi a motivazioni che lo alterano o sovradeterminano. È un vocabolo non casuale che ha a che fare col disconoscere e il rinnegare un qualcosa che né si sente proprio, né lo può diventare, esattamente come stanno ritenendo molti cittadini in questo momento di profonda alienazione verso le vicende in corso.

Secondo. Naturalmente, i Padri Costituenti contemplarono l’ipotesi di una limitazione della sovranità nazionale in funzione di alleanze a carattere sovra-nazionali e inter-nazionali, ma a condizione e solo a condizione che queste perseguissero comunque la pace come obiettivo.

Terzo. Dall’articolo risulta chiaro che ogni soggetto, per la sua stessa appartenenza allo Stato, ha diritto alla sicurezza. Una sicurezza non diversa da quella che per i precedenti due anni di pandemia è stata usata come egida di misure restrittive, obblighi e imposizioni e che ora, nell’attuale contesto bellico, pare però divenuta completa lettera morta.  

Oggi, a un anno dall’inizio del conflitto russo-ucraino, soffocati da una quotidiana e martellante cronaca di guerra, avente tra l’altro come effetto non secondario l’assuefazione mentale a continue notizie di morte e distruzione, siamo riusciti a discutere con nonchalance di escalation militare, di continui invii di armi e persino di un possibile scontro nucleare. Pare sempre più evidente che l’iniziale fase di ibrido sostegno alla causa ucraina si sia trasformata in una discesa in campo concreta contro l’avversario russo, all’interno di un contesto di guerra permanente e duratura che ha ormai completamente smarrito qualsiasi intenzione di cessare il fuoco.

Naturalmente, la condanna dell’invasione russa è stata approvata lo scorso marzo 2022 dall’Assemblea dell’Onucon 141 voti a favore, 5 contrari (Russia, Bielorussia, Eritrea, Corea del Nord, Siria) e 35 astenuti (tra cui Cina e India), su 193 paesi membri: la risoluzione mostrava chiaramente come la maggioranza dei Paesi fosse contraria all’attacco russo. Su questa inoppugnabile presa d’atto Usa ed Europa hanno inseguito la doppia strada dell’isolamento economico di Mosca e del supporto  militare al paese ucraino, che, in tutta evidenza, se non avesse avuto certezza di avere le spalle coperte, non avrebbe mai potuto neanche pensare di competere con l’avversario. La speranza era tutta riposta nel fatto che l’aiuto all’aggredito da una parte e il regime della sanzioni dall’altra portasse la Russia a una condizione di resa o di indebolimento rapido. Così pontificava con sicumera un anno fa ad esempio Enrico Letta: “le sanzioni porteranno rapidamente la Russia al collasso.” I fatti gli hanno dato obiettivamente torto.

La domanda a questo punto è: dopo un anno e dopo una stima di più di 100.000 vittime tra morti e feriti, come si intende procedere per affrancare il passato dal rischio di essere tragicamente ripetuto? C’è un piano B oltre a una pace che si vuole far passare da una guerra-a-qualunque-costo, fino-alla-resa? È un timore che avvertono palpabilmente i due ex generali Leonardo Tricarico e Marco Bertolini, i quali, dopo la notizia dell’invio di carri armati Leopard prodotti in Germania, hanno immediatamente prefigurato il rischio di un coinvolgimento eccessivo dell’Europa nel conflitto. Secondo Bertolini, nello specifico: “Ci stiamo rassegnando all’entrata in una guerra che con noi non c’entra niente, per questioni di carattere territoriale fra due Paesi europei estranei sia alla Nato che all’Unione europea.[4] E ancora Tricarico:

Personalmente ho sempre sostenuto che la via del negoziato debba esser battuta con maggiore serietà e impegno di quanto non sia stato fatto finora. Purtroppo non sembra che questa sia la strada privilegiata da chi dovrebbe invece intavolare una robusta iniziativa per un negoziato e quindi siamo sempre nell’ambito della scommessa. Certamente non sono segni che vanno nella direzione di una distensione ma di un ulteriore incremento della tensione alla quale la Russia non si sa come risponderà.[5]

Può sembrare retorico, ma come ricorda ancora una volta Bobbio, se e solo se si ha come obiettivo la pace non si può rinunciare al ruolo di un Terzo che si autopone come intermediario, arbitro e garante degli accordi.[6] Dev’essere un discorso morale prim’ancora che politico.

Due grandi Paesi asiatici come India e Cina per esempio stanno rifiutando “la mentalità della guerra fredda”, incoraggiando, come ha detto il ministro degli Esteri di PechinoWang Yi, tutti gli sforzi diplomatici e il dialogo diretto tra Russia e Ucraina,einvitando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite “ad avere un ruolo costruttivo nella risoluzione della crisi in Ucraina”.[7]

Al contrario, dobbiamo non solo riconoscere la volontà dell’Europa di abdicare a questa funzione di mediatore per aderire a una linea di incremento dello scontro militare, ma anche renderci conto che invischiarsi in un conflitto in cui non siamo direttamente chiamati in causa non porterà nulla di buono al continente, se non impoverimento di risorse, altrimenti spendibili e investibili.

Michele Santoro, nel suo ultimo libro Non nel mio nome, nel quale denuncia la sua e quella di molti estraniazione a questa fase, si esprime così:

Con la guerra, anche la potenza dell’Europa si è rivelata una bugia. Non ha fatto niente per prevenire il conflitto e ha inviato armi per alimentarlo. Una guerra per un tempo indefinito nel cuore del nostro Continente non può essere nell’interesse dell’Unione. E una potenza che agisce contro i suoi interessi non dev’essere poi così potente.[8]

Per ovviare all’assurdità e all’incredulità di questi fatti, ben al di là della storia ormai tradita, della filosofia non recepita e della falsa coscienza con cui ancora parliamo ai nostri figli e studenti di progresso e civiltà, forse non resta che provare a tornare all’utopia da cui eravamo partiti. Se l’Abate di Saint-Pierre aveva teorizzato la costruzione di un pacifismo utopistico nel rapporto tra Stati, forse, pur essendo andati avanti nel tempo, è il caso di fare un passo ancora più indietro e tornare alla dimensione privata e personale di ciascuno: qui può fiorire l’utopia di un pacifismo radicale, nel senso di ritorno alle autentiche radici dell’uomo, il quale ha per sua stessa natura sempre facoltà di domare gli istinti primordiali educando e autoeducandosi ai valori della calma e dell’equilibrio. C’è un’idea di armonia che soggiace in ogni individuo e che ha a che fare con l’abbandono di quel che procura sofferenza e dolore. È il raggiungimento di uno stato d’animo da cui non discende più ira e rancore verso alcunchè. È la certezza di aver fatto i conti con un passato che non può più agire da minaccia o ferirci, poiché è stato neutralizzato dalla nostra superiore volontà di serenità. È un intimo bisogno che almeno una volta nella vita chiunque ha avvertito. Ecco, andrebbe socializzato questo, che è poi l’insegnamento di molte dottrine spirituali orientali. Andrebbe comunitarizzato il bisogno individuale di tranquillità dell’animo, superando così la dicotomia pubblico/privato e rendendo la politica diretto effetto dell’educazione interiore. Pace non è semplicemente non-guerra, ma capacità di rimodularsi di continuo rispetto agli accadimenti, rispetto a un divenire che inevitabilmente muta sempre gli assi degli equilibri e agita le foglie dei rami poste all’apice, ma di certo non tange minimamente le radici di quelle piante e solo di quelle piante forti e ben salde al terreno.


[1] N. Bobbio, Pace, Treccani, Roma, 2022, p.32

[2] Ivi, p.21.

[3] C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna, 1972, p.90.

[4] https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/01/23/leopard-allucraina-lallarme-dei-generali-cosi-andiamo-verso-una-guerra-che-non-ci-riguarda-e-come-scommettere/6945995/

[5] Ibidem.

[6] Cfr. N. Bobbio, Pace, op. cit. , p.86.

[7] https://www.infodata.ilsole24ore.com/2022/03/01/mondo-condannato-linvasione-dellucraina-mapping/

[8] M. Santoro, Non nel mio nome, Marsilio, Venezia, 2022, pp.68-69.

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