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Ero in carcere e mi avete visitato
«Ero in carcere e mi avete visitato»: una condizione per essere posti alla destra di Gesù, come scrive l’evangelista Matteo nella parabola del giudizio (Mt 25, 31-46), da rivolgere «verso ognuno di questi fratelli più piccoli». Alfredo Cospito è uno di questi? Piccolo lo sarà diventato di sicuro dopo aver perso 45 kg in oltre tre mesi di sciopero della fame, ma di fronte alla potenza dello Stato, come di qualunque potere organizzato, legittimo o meno, ognuno di noi è estremamente piccolo e indifeso. Il farsi “infinitamente piccolo” di fronte alla forza altrui è sempre stato un ideale cristiano, almeno in epoca pre-moderna, per quanto più predicato che applicato, da cui scaturiva l’accettare il martirio e persino il rinunciare a ogni diritto sulle cose e su se stessi, come i francescani propugnavano di fronte all’interpretazione “privatistica” di papa Giovanni XXII, battaglia senz’altro persa considerato il sorgere della modernità su base individualistico-proprietaria, con le sue guerre fratricide e il colonialismo genocida. Senza dubbio Cospito non abbracciava questo ideale, visti i reati per cui è stato condannato: la gambizzazione di un dirigente Ansaldo e l’attentato alla caserma dei carabinieri che solo casualmente (sembrerebbe, dato che le bombe erano due e programmate per esplodere l’una successivamente all’altra, dopo che la prima avesse attirato un po’ di persone in prossimità) non ha provocato vittime. Tuttavia, non possiamo cessare di sperare in una conversione di chiunque e – anche se avessimo la certezza che questa non dovesse venire – non saremmo comunque autorizzati a condannare a morte una persona per quanto possa sembrare irredimibile. Non c’è dubbio, infatti, che l’ergastolo ostativo sia una condanna a morte senza via d’uscita censurata anche dalla CEDU che, nel caso del 2019 Viola c. Italia, ha stabilito tra l’altro che l’accesso ai benefici carcerari non può essere basato sul discrimine della collaborazione, in quanto la mancanza di collaborazione può essere una scelta non dettata dalla mera volontà e d’altra parte la collaborazione di per sé non è segno di conversione. Di fronte al fine-pena-mai, nel quale si trova anche Cospito, il suicidio appare l’unica via per la libertà, tanto che le cure sanitarie forzate sono una pena ancora più intollerabile. Ipocritamente quindi si comporta chi pensa di adempiere ai motivi umanitari assicurando più cure al detenuto, perché pensando di lavarsi la coscienza fa anche peggio. Condannare a morte significa sostituirsi al giudizio e all’azione divina salvifica che converte anche i persecutori più incalliti e li fa santi: il discorso vale indistintamente per tutti, tanto per i colpevoli quanto per gli innocenti, tanto per i mafiosi quanto per gli anarchici e i ladri di polli. Gesù, infatti, non specifica se occorra visitare solo i fratelli innocenti o anche quelli colpevoli, e non lo dice perché non distingue, ma anzi predilige i colpevoli che sempre cerca di alleggerire da quel macigno, che è la colpa, che la società mette loro addosso: «il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero» (Mt 11,30). È la società che lo mette loro addosso anche quando questi si macchiano dei crimini più efferati; il contrario vorrebbe dire che Dio ha creato qualche creatura storta e qualcun’altra dritta, con il destino scritto fin da prima della creazione come del resto qualche Chiesa riformata ha proposto. Con ciò non voglio dire affatto che si debba abolire il carcere: non è un obiettivo politico perseguibile in questo tempo e nell’arco delle nostre vite di pochi decenni, ma non possiamo neanche segnare un’impossibilità a prescindere in tal senso per le generazioni future; anzi, è nostro dovere lasciare la speranza che la salvezza sia a disposizione, infine e per sempre, per tutta l’umanità. Oggi sappiamo che tante cose si possono migliorare con l’avanzamento dell’ingegno umano: sia la povertà, sia le malattie, sia l’istruzione, nonostante le forze contrarie a questo avanzamento siano sempre forti e all’opera; ugualmente dobbiamo pensare che ciò sia applicabile alla convivenza civile, altrimenti noi italiani non ci potremmo sentire migliori di quei paesi dove le persone si giustiziano a decine per aver protestato contro il governo, per aver scoperto una ciocca di capelli o per altri vergognosi motivi. Avverto da subito il lettore quindi che per valutare l’affare Cospito utilizzerò quel criterio extra-giuridico, scandaloso per i positivisti, che è la coscienza.
Al fine di inquadrare la vicenda e le questioni a essa annesse, ritengo sia utile richiamarsi alla teoria, inizialmente elaborata dallo studioso Günther Jakobs, di diritto penale del nemico, quel diritto penale speciale – di cui fanno certamente parte i reati associativi – che serve a reprimere il nemico interno attraverso la punizione non tanto della condotta individuale ma piuttosto del fare parte di un’organizzazione, o del semplice pianificare o aiutare a pianificare qualcosa che si ritiene minante l’ordine costituito. Di questa categoria fanno parte le innovazioni del diritto interno degli ultimi decenni – adoperati per reprimere prima il terrorismo politico e poi quello islamico – che negli Stati occidentali hanno abbassato di molto la soglia della punibilità. La stessa esistenza di questo diritto speciale è, per quanto necessaria, evidentemente in contraddizione non solo giuridicamente con il principio di uguaglianza formale, ma anche politologicamente con la fondamentale distinzione tra nemico, per definizione esterno, e criminale, necessariamente interno. La teoria di Jakobs è a mio avviso il ramo giuridico interno di ciò che Carl Schmitt prefigurava nella sua dottrina della sovranità e delle relazioni internazionali che hanno preso il posto dello jus publicum europaeum. Il nemico viene portato dentro e il criminale fuori perché, indebolendosi l’entità dello Stato sovrano in favore di un diverso ordine internazionale, la separazione dentro-fuori sfuma e viene ridefinita l’autorità legittima con i suoi poteri, tanto che si può parlare di guerra al terrorismo o guerra alla mafia in senso non soltanto più metaforico, mentre all’esterno è possibile fare guerra a Stati sovrani denominandoli terroristici o criminali, quindi non-Stati. Considerando il mafioso o il terrorista un nemico e non un criminale semplice, è possibile condannarlo non già per aver commesso un fatto ma per essere parte di un’associazione; uno strumento senz’altro necessario ma altresì da maneggiare con estrema cura: dov’è infatti il confine tra una strage semplice (ex art. 422 c. p.) e una strage politica (ex art. 285 c. p.)? È noto che nel caso di Cospito la riformulazione dell’imputazione dall’una all’altra, operata dalla Cassazione, per la quale oggi il caso è pendente di fronte alla Corte costituzionale, ha portato la condanna da 20 anni all’ergastolo ostativo, ottenendo così due paradossi: da una parte il 285 non era stato applicato neanche per la strage di Bologna o per quelle di Capaci e D’Amelio; da un’altra il detenuto è stato condannato all’ergastolo per un attentato che, nonostante le intenzioni, ha al massimo danneggiato un cassonetto. A chi si può applicare il diritto speciale e a chi quello ordinario dunque? Questa contraddizione forse insanabile tra politico e criminale è resa ancora più oscura dal fatto di non essere esplicita ma tenuta in certo modo nascosta: il legislatore pretende infatti di applicare al nemico un diritto speciale, ma allo stesso tempo non può ammettere che si tratti di qualcosa di più che un criminale comune.
Segno di questa ambiguità di fondo mi sembra sia anche la procedura attraverso la quale viene deciso il regime di carcere duro (o speciale) ex art. 41 ord. pen. – altro strumento di diritto penale del nemico – la cui decisione in merito spetta al ministro, quindi all’organo politico, sebbene dopo aver sentito il parere delle procure. Nel caso di Alfredo Cospito, come si evince dalla informativa del ministro Nordio alla Camera, fu Marta Cartabia a decidere lo scorso maggio il carcere duro sulla base dei pareri che ne constatavano la capacità direttiva di incitamento alla lotta armata dall’interno del carcere. Una questione senz’altro delicata dunque, da necessitare contromisure, che tuttavia secondo il magistrato Sebastiano Ardita, ex capo del DAP, poteva risolversi utilizzando altri strumenti di sorveglianza presenti nell’ordinamento e funzionali al controllo di detenuti pericolosi, evitando il ricorso al 41 bis; a questo punto però ci si potrebbe legittimamente chiedere a cosa serva quest’ultimo, se è vero che esistono altri strumenti. Prosegue il magistrato che Cospito potrebbe essere usato dalla mafia come cavallo di troia per abolire il 41 bis, vecchio cavallo di battaglia dei mafiosi di cui si era già a conoscenza da ben prima della non-notizia che Donzelli e Del Mastro hanno contribuito a diffondere: è legittimo infatti che dei detenuti chiedano un ammorbidimento del loro regime carcerario, come è legittimo che ne parlino con i parlamentari venuti in visita in adempimento del loro ruolo istituzionale, come è altrettanto legittimo che da questo possa nascere un dibattito pubblico, sebbene – come sottolinea giustamente il ministro della giustizia – sia molto pericoloso dare seguito automatico a tali richieste presentate attraverso uno strumento di pressione, lo sciopero della fame, che per quanto pacifico è pur sempre efficace; non lo è sempre però, come dimostra la morte nel 2017 di Salvatore Meloni detto Doddore, indipendentista sardo morto nel carcere di Uta dopo 66 giorni di digiuno. Di parere contrario ad Ardita è il prof. Luigi Manconi, sociologo da sempre attivo per i diritti dei detenuti, che invece ritiene improbabile una abolizione del 41 bis, mentre ne pronostica addirittura un inasprimento. Secondo Manconi tale regime, motivato dalla ratio di interrompere le comunicazioni tra il detenuto e l’esterno, si è venuto strada facendo a configurare come semplicemente un carcere più afflittivo, come una sorta di pena accessoria, motivo per cui molti – tra cui anche l’ex magistrato Gherardo Colombo – ne chiedono una revisione. La giurisprudenza della CEDU ha sempre ritenuto tale regime carcerario non essere astrattamente in contrasto con l’art. 3 della Convenzione (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti), non escludendo tuttavia che nei casi concreti una violazione, da provare a carico del ricorrente, possa esserci: circostanza che si verificò nel 2018 nella sentenza del caso Provenzano c. Italia, nella quale venne data ragione al boss mafioso Bernardo Provenzano poiché la detenzione era stata afflittiva per il suo stato di salute, non preso debitamente in considerazione. Nonostante sia quindi necessario conciliare le esigenze della sicurezza e dei diritti individuali, il 41 bis va senz’altro annoverato in quel diritto penale speciale, a metà strada tra crimine e guerra, di cui dicevamo; questa collocazione è riconosciuta implicitamente dallo stesso dottor Ardita, non certo un suo detrattore, il quale la descrive come una misura dal forte valore simbolico, facile da applicare ma difficile da togliere, implicante una responsabilità politica più che giurisdizionale che nessun governo vorrebbe mai assumersi. Da ultimo, data la contraddizione intrinseca di un diritto penale speciale, certe misure andrebbero ben delimitate: è ciò che suggerisce ad esempio l’ex magistrato Giancarlo Caselli, secondo cui il 41 bis va applicato solo ai mafiosi in virtù della specificità che le loro associazioni criminali possiedono. La distinzione tra associazione mafiosa e associazione politica, quandanche terroristica, è indispensabile dal momento che bisogna dare per scontato la legittimità di un’associazione politica, a meno che non persegua i suoi scopi con la violenza; al contrario, la mafia è per natura sempre nemica. Per ogni altra organizzazione non mafiosa o intrinsecamente delinquenziale il confine, a mio avviso, non può porsi semplicemente nella sussistenza o meno di metodi violenti, altrimenti quasi tutto ciò che è punibile diverrebbe speciale. La distinzione è anche indispensabile per delimitare il campo di applicazione delle norme speciali; il rischio concreto e ovvio è che il diritto speciale venga applicato non solo al nemico ma anche all’avversario politico o al semplice disturbatore.
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