Puntualmente da anni riemergono nel dibattito pubblico le voci di quanti vorrebbero temperare se non eliminare del tutto il regime del carcere duro.
Si sa bene chi sono coloro sottoposti a questa misura – che comunque è una misura emergenziale e che rappresenta nel suo carattere ontologico/giuridico una misura di eccezione nella trama della penalità ordinaria.
Ebbene i destinatari del 41bis sono perlopiù capi mafiosi o affiliati di punta alle altre organizzazioni criminali.
Vi sono certo anche altri soggetti destinatari del carcere duro (questo è un dato) e il caso Cospito lo dimostra; ciò detto cosa deve fare uno Stato che vuole garantire innanzitutto la sicurezza delle sue istituzioni?
Molti dimenticano che quella misura sul 41bis fu pensata proprio come garanzia dello Stato in anni in cui l’emergenza della criminalità organizzata stava diventando sistemica e l’attacco alle istituzioni quotidiano.
Addirittura nella dottrina penalistica fu coniata l’espressione “diritto penale del nemico” – certo scivolosa e che comunque esula dalla vicenda storica del 41bis – proprio per dare forma a un fenomeno che oramai non riguardava evidentemente solo l’Italia (e le sue mafie) ma tutti i paesi dell’Occidente alle prese dopo l’11 settembre col contenimento del fenomeno terroristico.
Bisogna allora sgombrare il campo dai dubbi: come detto uno Stato può e deve difendersi contro chi minaccia la sua integrità politico-istituzionale. E questo è senza dubbio il caso delle organizzazioni criminali quali si sono avute e si hanno, purtroppo, ancora in Italia.
Per questo motivo lo Stato deve difendersi a volte anche nelle modalità più lesive delle singole libertà personali, se necessario. È una legge della Storia, della nostra storia scritta soprattutto col sangue delle vittime.
Tanto riferito uno Stato può e deve tutelarsi sempre contemperando la propria sacrosanta esigenza di sicurezza con la razionalità delle scelte compiute in sede di politica criminale prima ed esecuzione della pena poi.
Insomma uno Stato deve sempre combattere il fenomeno criminale (questo è ovvio) con le armi più avanzate e più efficaci (il carcere duro ha dimostrato di esserlo) avendo cura però di vedere se nel singolo caso un’esecuzione della pena troppo dura sia incongrua rispetto al pericolo potenziale (per la pubblica sicurezza) di chi è sottoposto a quella pena.
Un capo mafioso ancora nel pieno della sua leadership criminale è sicuramente un soggetto verso cui un possibile allentamento della misura restrittiva può determinarne la ripresa in pieno dell’attività criminale.
Al contrario un individuo gravemente malato e “svincolato” da quella che fu la sua logica delinquenziale di un tempo è sicuramente un soggetto verso cui la pena può è deve essere ri/equilibrata.
Si dirà: ma la pena deve innanzitutto rieducare il condannato come secondo il dettato costituzionale. Ma l’idea della pena che la costituzione ci offre è un mosaico composito in cui alla prevenzione speciale positiva si sommano esigenze inderogabili di prevenzione generale negativa.
Tradotto nel linguaggio comune ciò vuol dire che al regime della rieducazione può derogarsi parzialmente in casi eccezionali.
È lo Stato allora che decide quali sono questi casi eccezionali via via, non la pubblica opinione in preda alle convulsioni del momento.
Per questo bisogna fidarsi del giudizio della magistratura (nel caso di specie di quella di sorveglianza) e dei singoli operatori della giustizia.
È nella fiducia che si costruisce quel vincolo che ci lega ad ogni comunità politica.
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