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Babylon: apologia di un film


10 Feb , 2023|
| 2023 | Recensioni

Le opere narrative del postmodernismo appartengono a due categorie: le opere semplicemente postmoderne, e quelle che prendono le premesse del postmodernismo talmente sul serio da portarle fino alle loro estreme conseguenze; partono cioè dalla sua contraddittorietà intrinseca per mostrarne tutta l’insostenibilità. Se queste ultime riescono a sincronizzarsi in modo fecondo con il tempo presente, carpendone un grande tema, o anche semplicemente un timore, mostrando tutta l’inadeguatezza della risposta che la contemporaneità offre, allora riescono ad aprire quelle crepe spirituali che, nella separazione, salvano.

Babylon, l’ultimo film-fiume di Damien Chazelle, si candida a pieno titolo a entrare in quest’ultima categoria. È ambientato a Los Angeles tra gli anni ’20 e gli anni ’30, con una coda finale a metà degli anni ’50. Il periodo è quindi quello, traumatico e fondativo del cinema moderno (e quindi già topos di tanti altri film) del passaggio tra il muto e il sonoro. Torneremo più avanti su questo aspetto. È un racconto corale che coinvolge più personaggi, tutti tangenti tra di loro. In linea di massima, la parte strutturale dell’intreccio narrativo ruota attorno all’ascesa nell’industria cinematografica di Manuel Torres (Diego Calva) e Nellie LaRoy (Margot Robbie) – rispettivamente, un messicano che da semplice factotum riesce a diventare regista e una ragazza che per puro caso avvia una carriera da attrice di successo – e allo speculare declino di Jack Conrad (Brad Pitt) – una star incapace di accettare la fine del proprio momento di gloria.

A un primo livello di lettura, il film sembra rappresentare il trionfo del nichilismo. Si prenda a mo’ di esempio la scena iniziale: la mezz’ora del baccanale esclusivo organizzato da un importante produttore cinematografico – una sorta di via di mezzo tra la festa in maschera di Eyes Wide Shut di Kubrick e un carnevale di Rio: barocca, opulenta, schizoide, immaginifica, ipertrofica, morbosamente autoreferenziale, un caleidoscopio di liquami corporei, l’epos hollywoodiano portato alle sue estreme conseguenze autodistruttive, pura cartapesta. Si la l’impressione, in questi trenta minuti come in tutto il resto del film, che, oltre a questa manifestazione di potere e sfarzo, non ci sia niente. Si nota poi un certo gusto per l’iterazione e la ripetizione: per esempio, verso la metà del film è presente una sequenza particolarmente lunga in cui si rappresentano il fallimento di quasi dieci ciak consecutivi, con il culmine nella giocosa morte del cameraman. Tre segnali indiretti che ci indicano non la realtà bensì la plausibilità del fatto che le cose non si possano fermare a questo livello e che si debba cercare dell’altro: il film è un insuccesso commerciale: cosa che dice poco dei gusti del pubblico e tanto sulla reale volontà di promuoverlo – chi è che ha deciso di fare uscire in contemporanea un film del genere con un blockbuster ingombrante nelle altre sale?; il film, la regia e la sceneggiatura non sono stati candidati a nessun premio Oscar; il film non solo è stato accolto freddamente dalla critica, ma è stato financo stroncato dall’edizione statunitense di Jacobin (probabilmente i chierici della Scuola del Risentimento non hanno apprezzato l’assenza di filippiche sul global warming).

A un secondo livello, accessibile al cultore della storia del cinema, il film sembra qualcosa di più di un semplice flusso vitalistico o volontà di potenza, in quanto sembra costituito da un filo ininterrotto di citazioni di altri film. Per esempio, il set della battaglia campestre in cui a un certo punto è chiamato a recitare Jack Conrad/Brad Pitt è un palese omaggio alla Battaglia del Lago Ghiacciato dell’Alexandr Nevskij di Sergej Eisenstein, ma che per probabili motivi di diritto d’autore, è accompagnata musicalmente non dalla colonna sonora di Prokofiev, bensì da Una notte sul Monte Calvo di Modest Musorgskij, mantenendo così le sonorità russe. Tentare di ricostruire tutti i riferimenti è un esercizio sterile, in quanto coinvolge solo e solamente il singolo spettatore, e la sua storia personale in quanto fruitore di cinema. Fanno eccezione due film, non a caso, anch’essi con protagonista indiretto il passaggio dal muto al sonoro: uno è Cantando sotto la pioggia, l’unico film in cui il richiamo è diretto ed esplicito attraverso la presenza dell’omonima canzone. Il secondo è Viale del tramonto di Billy Wilder. I richiami secondari (a un certo punto Jack Conrad/Brad Pitt cade dentro una piscina e viene inquadrato in modo molto simile a Joe Gillis/William Holden nel film del 1950; pochi minuti più tardi, egli sosterrà nella sua tenda-camerino una conversazione proprio con Gloria Swanson, attrice protagonista di Sunset Boulevard) servono per suggerire un richiamo strutturale di analogia tra i personaggi di Jack Conrad/Brad Pitt e la stessa Norma Desmond/Gloria Swanson. Entrambe sono dell’ossessione per una carriera oramai consumatasi e non più iterabile o replicabile e del tentativo della ripetizione del ricordo: lei esternalizzerà la propria dissociazione nell’omicidio del suo unico oggetto del desiderio; la controparte maschile in Babylon, che del tutto specularmente si dilapida emotivamente con più donne, attua invece ciò che Norma Desmond aveva solo minacciato, cioè il suicidio.

Si rompe quindi l’atmosfera giocosa e leggera che aveva pervaso il film. Le morti che ci sono state sono state rappresentate in modo grottesco, quasi parodico. A seguito di una vera e propria catabasi di Torres in un bunker infernale, doppio perverso della festa iniziale, strutturato in gironi come l’inferno dantesco e che vede come suo punto più profondo un muscoloso energumeno che mangia ratti di fogna vivi (speriamo che la Von der Leyen non lo prenda a esempio per fare compagnia alla farina di grillo), l’atmosfera del film si inscurisce. Le morti diventano pesanti. E poi, alla fine, gli ultimi due minuti, ambientati diversi anni dopo. La visione di Torres dentro a un cinema.

La citazione collassa nelle rispettive sequenze citate. I vari leitmotiv della colonna sonora del film si sovrappongono in un crescendo politonale e rumorista che poi, a un certo punto, conflagra e frena come nelle battute finali di Pacific 231 di Arthur Honegger. Questi ultimi due minuti, di cui il film è in qualche modo la premessa spirituale per potere arrivarci con la massima densità di significato, apparentemente sembrano una citazione del finale iconico di Nuovo Cinema Paradiso (anche questa, una pellicola che intreccia una storia d’amore con l’amore per il cinema). Apparentemente: là, il montaggio finale con la sequenza dei baci tagliati era viva, fisica, intimamente autobiografica. In Babylon l’orgia finale in cui coesistono frammenti del film e frammenti dei film, da Georges Méliès ad Avatar, più altri schizocromatismi – testimone dell’impossibilità di una resa filmica della simultaneità – altro non è che il cinema, epifania finale di un Dio benevolo che dice che, alla resa dei conti, sarà lui a vincere la sfida contro il Tempo. Il nichilismo della sequenza del ballo, non a caso richiamato esplicitamente in questi ultimi due minuti, si mostra in tutta la sua insostenibilità. Non è possibile che si dia il vitalismo e il caos senza nessun principio sottostante, immortale e incorruttibile, che guarda chi da lui si allontana in attesa di un ritorno in cui sciogliere la propria singolarità in qualcosa di più grande (sogno di Torres esplicitato in una delle prime battute del film). Non a caso, uno dei due dialoghi più interessanti del film, quello tra la giornalista Elinor St. John (Jean Smart) e Conrad verte proprio su questo: il cinema è in grado di donare l’immortalità, ma non bisogna ricercarla in vita se si riconosce proprio tempo come finito.

Babylon non è esente da difetti. Un film così tracotante poteva essere girato solo con un’ampia disponibilità economica che, in quanto investimento, deve garantire un ritorno nelle sale. Questo ecumenismo della fruibilità porta ad alcune situazioni fastidiose durante la visione. Per esempio, il virtuosismo nei movimenti di macchina, che abbiamo già sottolineato, spesso porta il regista a delle inquadrature ipocrite, con delle carrellate che sembrano più delle strizzate d’occhio ai blockbusters che non soluzioni congeniali alla vicenda narrata (di fatto il film è girato come se fosse un musical senza canzoni). Chazelle è ben lontano da alcune soluzioni galvanizzanti a cui ci sta abituando l’ultimo Lanthimos. Oppure ancora, scopriamo la morte di Nellie LaRoy ed Elinor St. John dall’inquadratura di due ritagli di giornale (che bisogno c’era di chiudere due vicende che potevano solo rimanere sospese?). Il problema più grande, però, è che tutta la vicenda principale, per la quale sono stati investiti più tempo e più capitale emotivo, cioè le carriere e la (non) storia d’amore tra LaRoy e Torres è un gigantesco MacGuffin, un pretesto dal sapore del già visto, che serve per unificare tanto le vicende di personaggi con drammi ben più interessanti con il contesto storico di cui abbiamo già parlato fino alla sequenza finale, che è vista dalla prospettiva dello stesso Torres.

È ancora troppo presto per me per capire quanto ho scritto è una pura autoproiezione, una lettura forzata per giustificare il fatto che sono uscito dal cinema galvanizzato come non mi succedeva da tempo (per esattezza, dalla da me già citata Favorita di Lanthimos), oppure se c’è qualcosa di vero. Di certo, il film non merita le cattiverie che si son scritte e l’insuccesso del botteghino. Probabilmente Chazelle non si spingerà più a girare una cosa del genere, e tornerà sulle vie già battute per redimersi nel mercato cinematografico. Attendiamo quindi il giudizio più riposato dal tribunale del Tempo su cui già ci siamo spesi. Giudice sicuramente più giusto e imparziale degli sciroccati liberal.

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