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Quanto ci piace scomporre lo Stato
Sull’autonomia Luca Zaia ha detto una cosa, una sola cosa, condivisibile perché vera: fare l’autonomia è attuare la Costituzione. L’art. 117 esiste e invito a leggerlo: un testo lunghissimo, di lettura faticosa, disarmonico rispetto agli articoli licenziati dai Padri costituenti. La ragione è nota: il testo originario è stato modificato nel 2001 e l’attuale è, diciamo, sopravvenuto. Evidentemente sintassi e stilistica si erano, nel frattempo, smarrite. Smarrita anche la coerenza dei parlamentari: il PD si oppone al progetto Calderoli, ma la riforma fu da esso (pardon, dai DS) voluta pervicacemente solo per togliere voti alla Lega (a riconoscerlo è stato Gianni Cuperlo).
Questo, lo stato dell’arte che, però, si complica se si torna alle scelte dei costituenti. Il regionalismo è stato una loro invenzione. Il fil rouge che attraversa il sistema di governo consegnatoci dalla Costituzione è la scomposizione del potere pubblico nella misura massima consentita dalla necessità che lo stesso potere non abbia a scomparire. L’autonomia regionale era utile in questo progetto. Poco importava che l’Italia fosse un Paese di città; e che le regioni non avessero una tradizione alle spalle. Comunque il 117 scritto in assemblea costituente aveva in sé la riserva della primazia dell’«interesse nazionale» a fronte delle leggi regionali che disponessero nelle materie loro assegnate. Nel 2001 l’interesse nazionale scompare e le materie sono alquanto incrementate (leggere l’art. 117 vigente!). E in chiusura del nuovo testo vi è una disposizione che è difficile qualificare, letteralmente questa: «nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato».
Incoerente anche la Costituzione a questo punto: come la mettiamo con la inequivoca disposizione dell’art. 5, quella che recita che, pur riconoscendo le autonomie locali, la Repubblica è «una e indivisibile»? La riforma costituzionale del 2001 ha investito, riscrivendolo, tutto il titolo V della Costituzione. Centrale – 117 a parte a cui è, però, strettamente connesso – è l’art. 116 che detta il percorso: le materie di cui al 117 saranno attribuite con legge dello Stato, «su iniziativa della Regione interessata»; e sì con legge statale, ma «sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata». Quasi che la Regione interessata fosse a sua volta uno Stato: comunque dove sta la congruenza con una Repubblica la cui facies – meglio maschera – è l’unità rafforzata dall’indivisibilità?
Ma poi la coerenza esisteva veramente nell’impianto originario? Da una parte lo Stato unitario e centralista, dall’altra queste autonomie locali che erano pregnanti già secondo il testo originario del 117; con in più la complicazione di ben cinque regioni a statuto speciale e poi due province (molto) autonome. Era prevedibile che un impianto del genere avrebbe creato dei problemi; e, in effetti, li ha creati.
Il regionalismo costituzionale si presentava dall’origine quale scelta non sufficientemente meditata o, almeno, non adeguatamente normata. I partiti, che pur avevano varato la Carta, si dovevano poi essere resi conto che con il regionalismo si sarebbe dovuta adoperare cautela; e così le regioni furono rese operative a distanza di oltre un ventennio dalla Costituzione. Anche in questo passaggio la politica italiana diede prova di trasformismo. Alla Costituente l’opzione regionalistica, con l’attribuzione alle regioni della potestà legislativa, era sostenuta dalla Democrazia Cristiana; ma non dal blocco socialcomunista, favorevole a un regionalismo minore che prevedesse il conferimento alle regioni di funzioni essenzialmente amministrative. Ma per l’attuazione del 1970 fu la sinistra a spingere perché calcolava che il regionalismo avrebbe attribuito ad essa poteri concreti nelle regioni cosiddette rosse. Contraria restò comunque la destra: dai liberali ai missini e ai monarchici.
Le piroette continueranno: oggidì è la destra che sostiene l’autonomia differenziata e la sinistra si oppone o, almeno, non vuole il disegno di legge Calderoli. E se ventidue anni separano la Costituzione dalla legge del 1970 istitutiva delle Regioni a statuto ordinario, esattamente ventidue anni ci separano dalla legge costituzionale del 2001.
In mezzo ci sta un cinquantennio abbondante di regionalismo che dovrebbe essere valutato nei suoi effetti se solo se ne avesse il coraggio. Per esempio, dovrebbe verificarsi l’impatto del regionalismo sulla burocrazia (le competenze regionali l’hanno appesantita o alleggerita?); o sulla spesa pubblica (è un caso o no che essa sia lievitata proprio a partire dagli anni 70?). Ma più di tutto ci si dovrebbe interrogare se in un Paese come il nostro, nato e cresciuto profondamente diviso, questo regionalismo confuso, utilizzato come strumento di lotta politica o trofeo elettorale, espediente retorico bipartizan, abbia giovato all’Italia. O se, piuttosto, fomentando identità inconsistenti (la padania, il venetismo ecc.), abbia compromesso definitivamente il sentimento dell’unità nazionale, che pur la Costituzione sembra incoraggiare in più passaggi. Un’operazione nella quale il regionalismo leghista ha trovato un alleato nella sinistra o, almeno, in certa sinistra che a lungo ha voluto vedere nel patriottismo quasi un rigurgito del fascismo.
Quante menzogne si sono dette e si dicono in nome del regionalismo. Il Presidente della Regione Veneto giura che l’autonomia differenziata non impoverirà il Sud e che i dirigenti politici saranno finalmente chiamati ad essere responsabili: l’autonomia a questo si ridurrebbe, nulla di più. Niente paura, ecco la conclusione. Ma allora perché nessuna regione del Sud ha presentato istanza per essere ammessa a questa autonomia? E forse che oggi i dirigenti politici non debbono essere responsabili? La verità è che le regioni più ricche vogliono godersi la loro ricchezza; e così la pensano anche parecchi lombardi, veneti e pure emiliani (anche se questi ultimi mantengono un profilo basso per convenienza politica). Ma è anche vero che il Sud avrebbe dovuto far di più, molto di più; e colpevolmente non l’ha fatto. L’esito è che il Paese è in scomposizione e, forse, in decomposizione.
Tutto ciò ci ha danneggiato e ci danneggia: se Francia e Germania ci snobbano è perché ci avvertono come deboli e percepiscono come ancor più debole lo Stato italiano. I mugugni di Giorgia Meloni per il recente vertice franco-tedesco fanno sorridere. Le relazioni internazionali e dentro l’UE sono dettate dalla potenza degli Stati; e l’Italia non ha potenza sufficiente e fa sorridere anche chi pensa che con Draghi le cose stessero diversamente (e ancor di più chi pensava lo stesso ai tempi di Mario Monti).
La riforma del titolo V è stata qualcosa di più di quell’errore che Gianni Cuperlo ha avuto l’onestà di ammettere. Se vi fosse davvero responsabilità, allora si dovrebbe riformare il titolo V una seconda volta e non scrivere il progetto Calderoli. Non se ne farà nulla e così anche il governo Meloni verrà a mettere la sua firma, la sua pezza, sulla scomposizione del Paese (pardon, della Nazione). Tra destra e sinistra il conto sarà pareggiato. Resteranno, anzi, lieviteranno confusione, burocrazia e spesa pubblica. Decresceranno ulteriormente peso e credibilità dell’Italia. Però ai dirigenti politici, e agli italiani, non dispiacerà: tanto ci sarà l’UE che penserà e deciderà per noi. Amen.
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