Ha poco senso stilare un giudizio sulla performance dei singoli partiti quando la contesa coinvolge solo quattro elettori su dieci, come nel caso delle ultime Regionali.
Il dato dell’astensionismo, sempre più eclatante, è ancora una volta quello politicamente più rilevante, l’ennesima manifestazione di una grave crisi di legittimità e di fiducia del sistema politico-istituzionale nel suo complesso, sulla quale si tende troppo sbrigativamente a sorvolare. Esso rappresenta, come è stato fatto più volte notare, una vera e propria secessione delle masse dai circuiti tradizionali della partecipazione politica.
Certo, l’offerta politica è di pessima qualità, ma oggi il problema è strutturale, di domanda politica: se prima disincanto e sfiducia si alternavano con una dose massiccia di indignazione e di sana ribellione, oggi quei sentimenti lasciano il posto ad uno scenario di rimozione totale della politica dall’orizzonte di vita di ciascuno di noi. Essa non esiste più, così come non esistono più domande di una politica diversa, vicina alle condizioni di vita e di sofferenza delle persone. D’altra parte i ritmi della politica – questo il messaggio ormai interiorizzato da molti – sono scanditi da eventi più grandi di lei: è il tempo delle necessità e delle ineluttabilità, dei vincoli più che dei conflitti, delle minacce da cui difendersi più che delle promesse a cui corrispondere. Se c’è da sperare in qualcosa conviene rivolgersi altrove: ai miracoli della tecno-scienza, alla fantasmagoria delle merci e al miraggio di un aldilà collocato alle porte della società dello spettacolo mediatizzato. Sullo sfondo un’ansia diffusa da fine del mondo imminente e da caos ingovernabile, da cui certo non ci salverà la politica incardinata negli Stati, ma solo le virtù e il buon cuore dei singoli uomini dissociati.
A complicare ulteriormente il quadro c’è l’esaurimento, compiutosi ormai da tempo, della spinta propulsiva originaria, quella che dalla Costituente in poi si era propagata fino a tutti gli anni Settanta del secolo scorso. Finita quella stagione, entrano in crisi le culture politiche costituzionali (la socialcomunista e la cattolico-democratica su tutte) e viene meno il vincolo interno con le promesse inscritte nel nucleo sociale e politico della nostra Costituzione, che aveva comunque ispirato, tra mille contraddizioni, la Prima Repubblica.
Negli anni successivi, tra shock economy ed emergenzialismo, adesione acritica al vincolo esterno e primato dei tecnici, le linee di frattura si sono dapprima sviluppate attorno a due presunte anomalie (il berlusconismo da una parte, l’Italietta da salvare agganciandola al treno dell’eurozona dall’altra), per poi assumere le forme di una contrapposizione populista al sistema nel suo complesso, la quale camminava assieme alle attese di un cambiamento radicale in positivo. Se di logica antagonista si può ancora parlare, perché nei fatti insopprimibile, essa è però oggi in modalità dormiente, spoliticizzata, informe; spoglia com’è, può essere mobilitata solo in occasioni di eventi e appuntamenti ritenuti decisivi, eccezionali, o perché risvegliata da parole d’ordine o tribuni particolarmente efficaci e carismatici, non certo per scegliere a chi affidare il mal governo inutile della propria Regione.
Insomma, europeismo e berlusconismo, sistema e anti-sistema, e sullo sfondo lo sforzo di rianimare le forme della decisione politica attraverso maldestri tentativi di riforma degli assetti istituzionali: questo, in breve sintesi, il copione prevalente degli ultimi tre decenni. Chissà che esodo dai canali tradizionali della partecipazione politica (per esplorare vie inedite, ma più promettenti?) e comparsa di una verticalità politica di tipo nuovo (auspicabilmente sotto forma di “cesarismo progressivo”) non siano invece le coordinate principali attorno alle quali ruoterà la politica dei prossimi anni, escalation di guerra permettendo.
In ogni caso, ben venga la ristrutturazione del sistema politico-istituzionale, secondo molti ineludibile, ma solo – mi verrebbe da dire – se affiancata da una verifica sapiente e consapevole dei concetti fondamentali della politica moderna (il nesso rappresentanza-rappresentazione, quello unità politica-pluralismo ecc.), quanto mai necessaria al tempo della cosiddetta “crisi del rappresentato”, dei mille volti dell’eterogeneità sociale e del logoramento dei fondamenti di un tempo. Perché senza questo tipo di riflessione prevarranno le soluzioni confuse e pasticciate di sempre, in linea con la narrazione che ha accompagnato i tentativi di riforma istituzionale che si sono accavallati negli ultimi quattro decenni, promossi da una classe dirigente inadempiente, ridotta nei fatti ad amministrazione per conto terzi e intrattenimento, che ha strumentalmente attribuito le responsabilità dei suoi problemi a motivi di ingegneria costituzionale. Quel che è certo è che non saranno le forme e le procedure a restituire sostanza ed energia alla politica affinché essa possa riscoprire il senso perduto della propria autonomia e la capacità di formulare una visione strategica dell’interesse nazionale (da declinare in termini progressivi sul piano interno e orientati verso il multipolarismo e la ridefinizione degli assetti europei sul piano esterno): non c’è difatti futuro per le nostre istituzioni se esse non sapranno riconquistare un legame profondo con la vita materiale e spirituale del nostro Paese, se esse cioè non sapranno risvegliare la volontà di riscatto del “popolo-nazione” nel nome di un progresso sociale diffuso e di una politica estera assertiva e autonoma, che sia in grado di salvaguardare le giuste interdipendenze e di crearne di nuove.
Concentriamoci ora, in chiusura, sulla stretta cronaca politica. Come prevedibile, il centrodestra a trazione meloniana vince sulle macerie di un Paese indifferente e stremato, mentre si aggravano la crisi senza fine della sinistra politica tutta e il declino del Movimento 5S, il quale finora ha tenuto a livello nazionale grazie al consenso, comunque in discesa, di cui ancora gode Giuseppe Conte, oltre che, naturalmente, per gli errori e le inadempienze altrui. A premiare i 5S c’è stato soprattutto il fatto di essersi distinti, come unico baluardo di peso, per una posizione meno appiattita sulla guerra e per la sua storica intransigenza in difesa della legalità democratica e del reddito di cittadinanza. Ma è un movimento destinato a ridimensionarsi sempre più, se non ritrova i motivi della sua funzione storica di critica radicale ma non velleitaria dell’esistente, se non approfondisce cioè le ragioni della sua piena autonomia politica e culturale, contrastando un eccesso di conformismo e subalternità alle parole d’ordine del progressismo delle élite. Per fare questo dovrebbe avere il coraggio di andare oltre se stesso, aprendosi a nuove energie, stabilendo un punto di rottura con la sua storia recente. Per poi provare a riconnettersi nuovamente con i bisogni e gli umori popolari e contestualmente intestarsi l’opposizione al Governo Meloni nel nome della sovranità democratica e dei diritti sociali presi sul serio: ciò significa rivendicare la necessità di una politica decisamente meno accondiscendente verso il vincolo esterno euro-atlantista e molto più inflessibile nel contrastare le vecchie e nuove forme di esclusione sociale, che oggi incorporano anche un’esigenza diffusa di una vita qualitativamente diversa contro solitudine, frustrazioni e assenza di significati. Valorizzando il nesso – giova ribadirlo anche qui – tra questione nazionale, questione democratica e questione sociale.
Ma il timore è che da una parte si sia fuori tempo massimo, dall’altra che prevarranno, se non adeguatamente contrastate, alchimie politiciste e un epilogo da Pd 2.0. A quel punto, la bandiera del riscatto popolare non potrà che passare nelle mani dei nuovi “barbari” che, prima o poi, assedieranno la cittadella di una politica autoreferenziale e priva di propulsione ideale. Speriamo solo che questa nuova irruzione dell’imprevisto avvenga in un quadro di vera rinascita e non di caduta definitiva nella barbarie.
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