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Tutto ciò che il neoliberismo (occidentale) è ovunque, tutto in una volta


15 Feb , 2023|
| 2023 | Recensioni

“Il film definitivo sul multiverso”- Mymovies. Il neoliberalismo fa “re-branding” dell’idea cinematograficamente non originale di basare un film sull’esistenza di molteplici “noi” in universi diversi l’uno dall’altro che si generano a seconda di ogni scelta possibile. Il risultato è un inquietante mix tra “Inception” e “Scary movie” condito da esistenzialismo “cheap” da supermercato. È lo spirito dei tempi: il film fa parte dell’’eccitante’ nuova weltanschauung che il capitale coordinatamente costruisce attraverso il nuovo mercato tecnologico della realtà virtuale, del metaverso etc.: è la realizzazione socio-ontologica della promessa capitalista di internet, in cui possiamo essere “tutto” e “ovunque”.

La trama vuole essere una rappresentazione della crisi intergenerazionale ed intra-familiare delle famiglie lavoratrici asiatico-americane. Evelyn, la protagonista, è lo stereotipo della “tiger mum”: donna, mamma, cinese, lavoratrice, emigrata negli Stati Uniti e severa con la figlia Joy. Sta sistemando le scartoffie da portare all’agenzia dell’entrate insieme al marito Waymond, che è anch’egli stereotipo razzista dell’uomo asiatico servile (è sempre eccessivamente gentile) e falso (non ha il coraggio di dichiarare il divorzio e mantiene una facciata). Mentre si preparano per l’appuntamento con l’agenzia delle entrate scopriamo che è imminente l’arrivo dalla Cina del padre di Evelyn che la visiterà per la prima volta da quando è emigrata. Si stanno allestendo i preparativi per la festa di benvenuto del padre e scopriamo che tra Evelyn e Joy vi è una crisi madre-figlia.

Joy incorpora il modo di vivere della società Statunitense liberal-capitalista contemporanea in cui è cresciuta, mentre Evelyn, che è “straniera” (con richiami all’assurdo in forma più Kafkiana che Camusiana: l’angoscia della violenza burocratica) negli USA incarna la difficoltà dell’essere tra due “mondi”, quello asiatico “premoderno” e quello americano moderno. Evelyn ha introiettato la violenza psicologica dell’educazione patriarcale e repressiva del padre cinese Gong Gong e l’ha riprodotta con la figlia, con la quale ha una crisi socio-affettiva. Questa crisi si manifesta nel rifiuto da parte di Evelyn di permettere a Joy di rivelare a Gong Gong la propria omosessualità presentandogli la sua partner.

Quando i personaggi del multiverso intervengono a sconvolgere il racconto, Evelyn si trova catapultata in un vortice ontologico che materializzerà tutte le sue crisi: burocratico-finanziarie, genitoriale, filiale, matrimoniale e finalmente esistenziale. Attraverso la tecnologia del “saltaverso”, il mondo di Evelyn è contaminato dall’arrivo di versioni alternative di Waymond, Joy, Gong Gong e altri, e lei stessa viene costantemente rimbalzata in altri universi in cui la sua vita è completamente diversa: sono il prodotto di ciò che sarebbe successo ogni volta che lei avesse preso una scelta diversa nella sua vita.

La narrativa del film si realizza attraverso una serie concatenata di violenza “pura” (di varie forme, psicologica e fisica) e di plasticismo senza soluzione semantica: l’indeterminatezza del significato narrativo è tesa al punto da tale da avere l’impressione che il film potrebbe essere narrato così all’infinto e che sono i titoli di coda possano offrire un segnale che suggerisce qual è il finale e quindi come retroattivamente interpretare il resto del film. È la rappresentazione cinematografica della crisi del soggetto neoliberista che, esposto alle infinite possibilità di essere “chiunque” (mercificazione dell’identità) e “ovunque” (la compressione dello spazio-tempo della società del network), vive dapprima una crisi meta-cognitiva (l’incapacità di distinguere il “reale”, rappresentata dall’antagonista ‘Jobu Tupaki’ che ha perso ormai interesse per la “verità oggettiva”), ed infine affronta l’abisso del nichilismo (“nulla davvero importa” è lo slogan di ‘Jobu Tupaki’)*. Dal punto di vista registico però, vi è un’inconsistenza rilevante. Infatti, la parte centrale della trama- che racconta l’intervento del multiverso nella giornata di crisi di Evelyn fino alla sua conversione morale nel finale- è rappresentata in maniera inutilmente protratta, nella quale lotte, cambi di costumi e scena riempiono il tempo senza raccontare in maniera dettagliata i “mondi” degli altri multiversi e il perché Evelyn cambi.

Per il pubblico ciò si traduce in una permanente crisi ermeneutica tenuta in piedi nel film da violenza “pura” (e a momenti da comicità basata su peni volanti e penetrazioni anale involontarie)- proprio nel senso della violenza “purificata” da ogni narrativa. Gli elementi e le combinazioni di sceneggiatura, fotografia e scenografia consistono per la maggior parte in citazioni di altri film. Alcuni vengono citati più esplicitamente, come il “Il signore degli anelli” nella fotografia del “Bagel” che riprende l’occhio di Sauron, o “Ratatouille che diventa “Lavatouille” o “Odissea nello spazio” di cui viene riprese la scena delle scimmie; altri sono richiamati solo con momenti scenografici (“Shining” con i corridoi) o con brevi citazioni registiche (sempre “Shining” con un momento in cui un personaggio si immola su un altro brandendo un’arma bianca); infine, ci sono quelli citati in maniera mediata e quasi metaregistica, come “Parasite” (di cui si riprende la scelta registica di far correlare fotograficamente un elemento scenografico a una gerarchia sociale, in “Parasite” con le scale che correlano la gerarchia di classe e qui con lo sgabellino che correla la gerarchia di razza: lo sgabellino che Evel usa per raccogliere i vestiti dalle lavatrici e che le viene bloccato dal cliente bianco americano che appoggia il suo piede sopra lo sgabellino per impedire a lei di salirci).

Il citazionismo è impiegato senza organicità e quindi prevalentemente svuotato di una profondità artistica: gli elementi citati sono dislocati dal loro contesto originario senza risuonare tra loro e quindi col film nella sua totalità. La loro risonanza è puramente performativa: si rappresenta il senso del multiverso: “tutto” è “ovunque” – “tutto in una volta”.

L’opera vorrebbe comunicare, e lo fa letteralmente verso la fine, che siamo un nulla nell’universo, “fino alla prossima scoperta” che ci ricorda quanto siamo “piccoli” e “stupidi” (ah, il neoliberalismo che vive di “stupore” senza “meraviglia” …!), che “nulla ha realmente significato” davanti all’abisso (che non viene vissuto come un assurdo) della nostra piccolezza. Perciò? In un primo momento la reazione è di rabbia e violenza pura- una reazione “culturalmente” occidentale, anzi proprio Statunitense, che ha poco della cultura asiatica o dell’esistenzialismo continentale europeo. Poi la reazione diventa opposta: bisogna essere gentili e amarsi davanti al nulla esistenziale e affermare la nostra vita per com’è, accettando noi stessi e le persone che amiamo- anche perdonando, come fa la Evelyn con il padre Gong Gong.

Gli sceneggiatori propongono questo contenuto etico-esistenziale come una liturgia formale: è solo una formula nominale che viene imposta come imperativo categorico dopo quasi due ore di tumulto di violenza pura e assenza metanarrativa. Evelyn è folgorata sulle vie dei metaversi: sceglie d’improvviso di accettare, perdonare, amare e affermare la propria vita, proprio come suggerisce la tradizione etico-esistenziale (Nietzsche, Camus, etc…). Le tempistiche registiche suggerirebbero che la conversione morale di Evelyn sia il risultato di un percorso, quello tra i multiversi, per il quale, come nella tradizione della bildungsroman, Evelyn si “forma” e “matura” dopo un percorso di catabasi e anabasi.

Effettivamente, per Evelyn vi è una caduta e una ripresa: “discende” nella crisi ontologica del multiverso in cui non sa più chi è chi, e “ascende” affermando la sua verità d’amore: “Jobu Tupaki” è “Joy”. Il lógos della storia di formazione è il viaggio, e quello che Evelyn compie è un viaggio estetico che di tanto in tanto provvede a fornire accenni psicanalitici alla sua crisi (il rimpianto di aver lasciato la famiglia cinese per sposarsi con un marito non approvato da questa e aprire una lavanderia negli USA, la consapevolezza di aver riprodotto sulla propria figlia la violenza psicologica che lei aveva a sua volta ricevuto dal padre che l’ha disconosciuta, ecc…). Tuttavia, come detto prima sulle citazioni metafilmiche, gli elementi narrativi che dovrebbero giustificare la conversione morale di Evelyn sono disarticolati tra loro e non emerge nessuna storia che tracci un’analisi psicanalitica e biografico-spirituale tale da giustificare la svolta etico-esistenziale del finale. Ed è proprio qui che il film, esprimendo al pubblico il suo messaggio, performa il nichilismo etico inerente al consumismo neoliberista, nel quale la nostra morale è eterodiretta dal nostro consumo:

se grazie alla tecnica possiamo essere tutto, ovunque e tutto in una volta, allora nulla ha senso, ma siccome la protagonista di un film di Hollywood senza una ragione trasponibile- o realmente traducibile nella mia vita particolare- sceglie di perdonare, accettare ed affermare la propria vita con amore, allora devo fare lo stesso.

Evelyn cambia senza una ragione. Le crisi che la attraversano, infatti, non sono che presentate superficialmente e individualmente. La sceneggiatura le “risolve” con un dialogo tra pietre in cui il pubblico viene indirettamente interrogato da un discorso astratto-esistenziale, sciolto da ogni fondamento materialista o percorso psicanalitico, che presenta il messaggio esistenzialista come uno slogan da “self-help” su come vivere bene.

L’imperativo categorico entra come un deus ex machina nella sequenza narrativa che ne prepara l’arrivo solo presentando disorganicamente e superficialmente le difficoltà materiali, sociali e affettive di Evelyn. Ad esempio, dal punto di vista sociale, vi è una banalizzazione classista della sofferenza economica e del sistema capitalistico-patriarcale: le violenze burocratico-sistemiche ed economiche subite dalla famiglia diventano un luogo di puro intrattenimento estetico attraverso lotte di arti marziali à la Jackie Chan e gag comiche à la “Scary movie” riproposte nel contesto del “multiverso”. Lo stesso vale per l’idea razzista per cui la cultura asiatica viene rappresentata dal nonno omofobo che incarna valori “premoderni” tradizionali in contrasto alla tolleranza moderna occidentale. Il riconoscimento di Evelyn del fatto di essere colpevole di trattare Joy come suo padre aveva fatto con lei è solo la conseguenza di qualche flashback sulla sua vita e sul rapporto col padre. Non vi è analisi strutturale, psicanalitica, interculturale o sistemica; tutte le tensioni sono presentate così come si vedono e il film le costruisce come fossero solo fatti “individuali” di Evelyn che le risolve da sola (non senza l’appoggio di qualche aiutante, come il Waymond dell’“Alfaverso”). Infatti, per gran parte del film, si ripropone il cliché Hollywoodiano dell’“individuo speciale” che può essere l’unico a salvare i multiversi- che non sono che l’espressione cubistico-metafisica del suo cosmo personale e individuale.

A parte la reiterazione cinematografico-capitalistica dell’individuo straordinario che salva il mondo, la novità del film rispetto alla produzione statunitense di massa è nel far coincidere “il mondo”- anzi i “multiversi”, e quindi l’esistenza- con i propri interessi e proiezioni personali e individuali. Questo meccanismo è tipico del consumatore onnivoro neoliberista per cui il mercato trasforma ogni entità esistente in merce da decontestualizzare, recidere genealogicamente, e riconfigurare nel cosmo del consumatore individuale affinché questo la trovi appetibile e quindi consumabile. Così, il consumatore neoliberista vede “tutto”, “ovunque” e “tutto in una volta” come in un supermercato di multiversi configurati ad hoc per il suo consumo personalissimo- tutti gli universi sono una versione diversa di Evelyn e del suo mondo personale. Nel film non vi è incontro con multiversi abitati da “altro” da Evelyn e il suo mondo. È anche per questo che la conversione morale di Evelyn non convince: il processo di cambiamento è puramente autoreferenziale e quindi non comporta nessuna reale trasformazione.

Questa metafisica dei multiversi di Evelyn è l’incarnazione cinematografica del capitalismo moderno: non esiste l’“altro”, se non come frontiera da superare e inglobare in uno stato di espansione illimitata. Esempio concreto: nelle politiche internazionali questo si traduce nell’inammissibilità “geopolitica” degli Stati Uniti d’America di accettare il multipolarismo e quindi ammette l’esistenza di interessi e potenze altre da sé- proprio la Cina, ad esempio. L’altro è ciò che il mercato trasforma in merce da vendere a me, quindi, non può mai essere fonte di una mia trasformazione radicale (guarda invece “A Taxi Driver” del 2017, dove è proprio l’incontro con l’altro in un contesto ultraviolento a determinare una trasformazione radicale del protagonista). Esempio concreto: ciò che è fuori dal mio “mondo”, come le morti e sofferenze della violenza militari nella guerra Russo-Ucraina, è trasformato in merce che si riconfigura in un quadro di consumo tarato sulla mia vita personale, come un tema d’intrattenimento e autoassoluzione morale durante il consumo quotidiano- guarda Sanremo; l’incontro con esso non provoca una radicale trasformazione del mio “mondo”: non scendo in piazza e lotto per fermare l’invio di armi o la guerra, perché questo comporterebbe una messa in discussione della mia vita.

La filosofia auto-deificatoria è tipica della modernità capitalista, in cui l’“uomo”- senza Hýbris- “uccide dio” e attraverso la tecnica trasforma sé stesso in un dio. Infatti, attraverso la tecnologia del “saltaverso”, Evelyn incorpora un “pura volontà” creativa diretta da un arbitrio libero da qualunque limite, per il quale si può diventare tutto e ovunque, anche in una volta. Questa “pura volontà” si traduce eticamente nella conversione morale individuale avulsa da qualunque analisi o percorso organico, contestuale, biografico o sistemico. Da un punto di vista psicanalitico, tutto ciò vi si traduce in an-affettività (“nulla davvero importa”), narcisismo (tutti i multiversi sono costruiti nel film una ri-formulazione quantistica del mondo personale di Evelyn, in un tripudio di iper-individualismo) ed ego-maniacalità (Waymond dall’“Alfaverso” le ripete sempre che lei è l’unica che può salvare i multiversi).

Per chi è davanti allo schermo, il risultato artistico-affettivo è il seguente: il pubblico si abitua ad assistere alla violenza pura** senza nessuna ragione narrativa profonda in una cornice estetica iper-individualista e poi deve sentirsi “buono”. L’effetto? Anestetizzarsi alla violenza (che si traduce nell’anaffettività), abituarsi a vedere che non vi è “altro” dalla propria individualità (che si traduce nel narcisimo) e risolvere ogni questione morale con la pura volontà di essere “buoni” (che si traduce in egomaniacalità). Così, per esempio, ci si abitua a tollerare la guerra, senza che la presenza di questa ci faccia mettere in discussione il nostro modo di vivere perché tanto ci basta sentirci “buoni” per volontà, mentre intanto continuiamo a consumare “tutto” (anche la guerra), “ovunque” (anche a Sanremo), “tutto in una volta”: Everything, Everywhere, All At Once è davvero tutto ciò il soggetto neoliberale occidentale è, ovunque, tutto in una volta.

* È interessante notare come anche le giustificazioni dell’antagonista in merito alla discontinuità del “reale” da cui Evelyn è alienata per via dei continui attraversamenti, contaminazioni e incroci dei multiversi si impernino sul vocabolario della metafisica contemporanea tecnico-finanziaria: il fato si trasforma in “un’ineluttabile probabilità statistica” (ci sarebbe molto da ridire sulla contraddizione tra la volontà di affermare l’assenza di metanarrative e l’imposizione della metafisica della statistica).

** Al limite, si potrebbe ipotizzare che la violenza del film sia una “denuncia” delle multiviolenze della società neoliberista nei confronti del soggetto della classe lavoratrice razzializzata: ma nulla lo suggerisce esplicitamente, il pubblico dovrebbe derivarlo quindi da elementi sottintesi che non sono presenti nel film ma che devono essere importati extra-contestualmente ad esso per dargli risonanza e profondità di significato.

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