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La conquista dell’America. Il problema dell’altro di Tzvetan Todorov
Todorov, nella sua lunga dissertazione di taglio storico-sociologico, rievoca due secoli di scoperte e rapporti tra l’evoluto occidente europeo e il nuovo mondo nelle forme dell’incontro-scontro tra due realtà profondamente dissimmetriche.
La narrazione non può che partire dall’origine dei rapporti coloniali; è lo stesso autore a rivelare la volontà di raccontare ciò nelle forme proprie che sono del mito classico, perché più pregno di contenuto – «ho scelto di raccontare una storia. Più vicina al mito che all’argomentazione logica» – e ancora alla domanda di come rapportarsi al problema dell’altro: «non sono in grado di rispondere se non narrando una storia esemplare».
L’incontro tra due popoli così diversi può avvenire solo e soltanto perché tale terra è frutto di scoperta, una scoperta quasi casuale, prodotto di un tanto lungo quanto sospirato progetto.
E allora non si può non iniziare da alcuni appunti sui quattro viaggi di Cristoforo Colombo, il primo a rapportarsi con le tribù autoctone.
È egli stesso, attraverso la redazione di diari, lettere e rapporti ufficiali, a raccontare e a utilizzare questi scritti per diverse finalità che vanno da quelle meramente empiriche a quelle fortemente teleologiche.
In Colombo si esprimono multiformi visioni della realtà e della sua formazione personale, che sono frutto della sua esperienza ma non si esauriscono in essa, così lontana dalla cultura umanistico-rinascimentale a lui contemporanea.
La visione teologico-divina, ma anche quella pragmatica strettamente correlata alla ricerca dell’oro, poco attengono a questa sede se pur centrali nella sua eroica spedizione.
Ciò che più ci interessa è il suo rapporto appunto con il diverso, ovvero con le popolazioni incontrate lungo il viaggio, delle varie isole caraibiche e poi presso le terre emerse del quarto continente. Il tema dell’alterità non sembra centrale, infatti la sua profonda esperienza di navigatore lo spinge maggiormente verso una lettura metodica della flora e della fauna incontrata lungo il percorso piuttosto che verso l’analisi degli indigeni. Mostra prettamente un interesse geografico-naturalistico.
L’atteggiamento è bifasico a seconda che a parlare sia l’ammiraglio sedotto dalle nuove terre scoperte o il credente cristiano con ambizione di evangelizzazione delle terre prive di ogni legame con il divino.
Nel primo caso, ogni affermazione è piena di stupore e meraviglia come se ne avrebbe di fronte ad una qualsiasi novità che si pone allo sguardo del visitatore, mentre nel secondo caso, è armato di spirito coloniale europeo e si pone con atteggiamento ostile, tanto da non considerare in essi nessun dato di civiltà solo perché differenti nel loro esplicarsi. Gli indigeni non hanno lingua, non hanno cultura né religione, non hanno leggi, solo perché non si coglie il carattere convenzionale di tali elementi che possono essere considerati solo in riferimento a dati storici e sociali contingenti.
Sembra che gli indigeni non abbiano identità prima dell’incontro con la cultura europea, l’identità si plasma, per dirla con Hegel, nell’incontro tra autocoscienze.
Sono considerati solo numericamente come si farebbe al mercato delle bestie.
Nelle affermazioni a carattere naturalistico, il fine è quello dell’esaltazione delle terre e dei suoi abitanti affinché la corona spagnola gradisca tale offerta di beni, ormai già considerati parte integrante del regno. In questo modo si alimenta anche il mito del “buon selvaggio”, ma lo straniero è anche uno “sporco cane”, violento e da annientare: in entrambe le visioni così contraddittorie tra di loro, passa un filo comune che è la volontà di porli in schiavitù o quantomeno renderli sudditi, come soggetti-oggetti.
Nella visione di Colombo, gli indiani, da una parte sono identici ai colonizzatori (assimilazionismo), non cogliendo quindi le peculiarità proprie di questi popoli, dall’altra sono considerati in termini d’inferiorità rispetto alla civiltà occidentale e quindi necessitanti forme di ortopedia sociale (tramite dispositivi disciplinari) affinché ne vengano resi docili e uniformati i corpi.
L’assimilazione è strettamente legata a un’idea di evangelizzazione delle nuove terre. Colombo mette in atto delle vere e proprie compravendite di terre verso un corrispettivo che risulta essere la salvezza dello spirito, ma è proprio in questo punto che si coglie l’asimmetria sia della sproporzione sinallagmatica contrattuale, sia della visione che è propria di Colombo; il dualismo diviene elemento non scindibile.
L’espropriazione delle terre presuppone una sottomissione di quei popoli sia militarmente che politicamente: si passa senza remora alcuna dallo strumento disciplinare a quello sovrano.
Quest’idea dualistica di fondo si presenterà in tutto il secolo successivo di conquiste, anche se nelle forme più brute e crude della guerra e della sottomissione fisica.
Questa logica, implicita in Cristoforo Colombo, è in atto più o meno velatamente in Cortés e in altri conquistadores presi in rassegna da Todorov. In questi il tutto diventa più vigoroso, più fisico, più violento.
La comprensione dell’altro diviene maggiore, ma prevale la logica dello sfruttamento di quelle terre e di quegli uomini-bestia. È la natura dell’uomo. Il denaro, la ricchezza prevalgono su tutto.
La comprensione si trasforma in appropriazione dapprima e successivamente in delirio di onnipotenza e distruzione. Ciò è maggiormente acuito dal fatto che, in assenza di controllo del proprio stato di appartenenza, quello che sarebbe stato delitto diviene permesso. Nelle colonie non vigono nemmeno le più basilari regole comportamentali; dirò di più, lontani da Dio-Stato non vigono nemmeno leggi morali.
La partecipazione dei conquistatori spagnoli alla decimazione della popolazione indigena si manifesta secondo tre profili: per uccisione diretta, questa forma è la meno utilizzata ed è quella che più attiene alle forme classiche di conquista di terre straniere, ma per la sua crudeltà, mostra i caratteri prima definiti del massacro; per maltrattamenti, in ciò si manifesta la piena volontà di arricchirsi nel minor tempo possibile, ovvero prima che quelle terre entrino formalmente nel dominio sovrano; la maggior parte delle vittime si ha invece a causa di shock microbico che tuttavia gli spagnoli avrebbero be potuto combattere, senonché le malattie si presentano nell’immaginario dei conquistatori come forma di assistenza del divino nel loro progetto, tanto che vengono addirittura chiamate piaghe dal francescano Motolinia in ricordo degli eventi narrati nell’Esodo.
L’endiadi eguaglianza-ineguaglianza prende sfumature che spingono verso una nuova coppia concettuale che è quella di identità-differenza (sarebbe maggiormente corretto sostituire la parola differenza con alterità, che ha insita in sé un’idea di gerarchia tra soggetti).
La teoria dell’ineguaglianza affonda le radici in un testo redatto dal giurista Palacios Rubios nel 1513, il Requerimiento, letto alle popolazioni indigene come atto formale di annessione, che fonda nella diretta concessione dei sovrani dal papa, quindi indirettamente dal Signore, del potere su quelle terre.
Autori che riconoscono l’inferiorità degli incivili in virtù dei loro comportamenti, che vanno dal ripudio di ogni forma d’ordine a una sessualità spudorata, fino a riti cannibaleschi e ai sacrifici umani, sono religiosi come Tomás Ortiz e letterati come Oviedo.
Tali congetture trovano nel filosofo aristotelico Juán Ginés de Sépulveda il più strenuo apologeta e la più compiuta opera.
Sepúlveda, appoggiandosi a tesi che vanno da Aristotele a Tommaso d’Aquino, coglie l’inferiorità degli indiani, e da qui la legittimazione delle guerre coloniali, in aspetti della ragione naturale: gli indiani sono inferiori agli spagnoli come le scimmie agli esseri umani, le donne agli uomini, i figli ai padri e ancora la ferocia è inferiore alla clemenza come l’intemperanza alla temperanza, la materia alla forma, il corpo all’anima, l’appetito alla ragione e infine il male al bene.
Questo assoggettamento degli indiani comporterebbe loro notevoli benefici, come l’abolizione dei sacrifici umani, in quanto chi ha natura di schiavo deve necessariamente essere ricondotto al proprio padrone.
Sicuramente portatore di una visione completamente opposta è il domenicano Las Casas, avversario di Sepúlveda nella disputa di Valladolid, amorevole con gli indiani ma infine colonizzatore egli stesso. La critica rivolta da Todorov al vescovo spagnolo non è meno forte di quella riservata agli altri personaggi presi in rassegna.
La sua conoscenza del mondo conquistato, a ben vedere, è ancora inferiore rispetto a quella che hanno i suoi avversari; infatti, lui non fa altro che proiettare aprioristicamente sugli indiani valori propri della cristianità, vede ciò che vuole vedere in essi. Sicuramente apporta dei miglioramenti nelle condizioni di vita degli indiani a lui sottomessi, ma la sua è comunque una forma di assoggettamento, una forma di colonialismo.
Las Casas si comporta come il buon pastore con il suo gregge, lo protegge, lo guida, lo cura, ma non coglie le loro differenze, crea una forma d’identità naturale con i suoi valori e la sua cultura.
La sottomissione non avviene più con la forza, ma con l’amore dell’insegnamento della morale cristiana.
La sua è una forma di governamentalità.
Il monaco spagnolo si prende cura di loro, li cura, li potenzia, ma li controlla anche nell’ottica di trasformare gli indios in ottimi fedeli. È la logica del pastorato cristiano.
Ivi si rende necessaria una precisazione; abbiamo fatto largo uso di categorie proprie della filosofia biopolitica contemporanea, adattandole a un’epoca pre-moderna non senza forzature, cercando comunque di cogliere dati di fondo comuni a ogni epoca, quantomeno in forma embrionale.
Non si può dubitare dunque che anche nell’animo del monaco spagnolo covasse una forma di colonialismo, derivante dal possedere la verità assoluta, quel cristianesimo universalizzante che mantiene la pretesa di essere obbedito e solo in cambio concedere, con l’intervento della Divina Provvidenza, la salvezza eterna. Inoltre non è lo stesso Las Casas, in alcune lettere alla Corona, a illustrare i benefici di tali comportamenti benevoli, rendendo più docili e maggiormente ben disposti gli indigeni alla conversione e alla sottomissione ai nuovi sovrani?
Utilizzare in questo modo l’indiano è più redditizio di utilizzarlo come schiavo. Il colonialismo sostituisce lo schiavismo primordiale.
Tutto riceve una parvenza formale di giustizia, lo sfruttamento diviene commercio, lo schiavo suddito, nell’essere assimilato riceve in cambio formazione, cure, tecniche e usanze europee.
Le intenzioni di Las Casas non sono differenti da quelle di Cortés, entrambi vogliono la sottomissione dell’America alla Spagna, l’assimilazione degli indiani alla religione cristiana, la preferenza per il colonialismo a danno dello schiavismo; ciò che li differenzia è solo il piano per il raggiungimento degli obiettivi comuni che si sono prefissati, uno ama gli indiani, ma non li conosce, l’altro li calpesta e disprezza, ma ha una conoscenza più completa di quel mondo.
Tale modo di operare va letto alla luce del paradigma politico inclusione-esclusione: sicuramente in ogni caso, qualunque colonizzatore si ponga di fronte allo straniero, applica una logica escludente, ovvero lo espelle, quantomeno lo marginalizza, non gli vengono riconosciuti diritti, spesso nemmeno lo status di persona, le differenze si pongono sia sul piano razziale-biologico sia su quello culturale. Perché tutto questo odio nel colonizzatore europeo? Parafrasando Sartre, i coloni sono uomini per diritto divino e gli indigeni sono sotto-uomini. Questa è la traduzione mitica di un fatto preciso, in quanto la ricchezza dei primi si fonda sulla miseria degli altri. Il colonizzato è abbandonato alle “leggi ferree dell’economia”, il razzismo è collegato al sistema colonial-capitalistico.
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