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Fare ciò che è giusto, ma cosa è giusto fare?


7 Mar , 2023|
| 2022 | Visioni

La legge è quell’ombra

verso la quale necessariamente avanza ogni gesto

nella misura in cui essa

è l’ombra stessa del gesto che avanza

Michel Foucault

Forse nessuno potrebbe sostenere con assoluta certezza, nonostante gli innumerevoli sproloqui in senso contrario, che la società odierna, presa nelle evidentissime contraddizioni che si sono negli ultimi anni violentemente manifestate, prediliga la “giustizia giusta” al suo spudorato contrario[1]. Infatti, «Se in questo senso [cioè sulla superiorità assoluta della giustizia] aveste parlato voi tutti fin dall’inizio e di ciò ci aveste convinti sin da giovani, non ci saremmo sorvegliati a vicenda per impedire l’ingiustizia, ma ciascuno sarebbe stato il migliore guardiano di sé, perché avrebbe avuto paura di trovarsi per la sua ingiustizia a coabitare con il maggiore dei mali» (Platone, Repubblica II, 366-67a). Se la giustizia sociale fosse realmente e sempre preferibile all’ingiustizia ecco che, come dice bene Adimanto nel passo platonico in questione, non ci sarebbe nemmeno bisogno di formulare una legge punitiva, poiché tutti sarebbero occupati nel perseguire unicamente il giusto (per sé e per gli altri). Ma visto che così, con buona pace di tutti, evidentemente non è, Trasimaco decide di proporre, stanco a suo dire delle vane parole socratiche, un’ipotesi più realistica: «Chi biasima l’ingiustizia lo fa non perché tema di commettere le azioni ingiuste» – o perché, aggiungo io, creda nell’assoluta superiorità morale della giustizia – «ma perché [quelle stesse azioni ingiuste] teme di patirle» (Repubblica I, 344 – XVIc). Ciò in qualche modo significa ipotizzare che è credibile unicamente quella giustizia che decreta colpe ed impartisce pene, o meglio: che la giustizia vige come tale solo lì dove si rendono massimamente evidenti colpe e pene. Il punto, in quest’ottica perversa ma molto moderna, è che non importa a nessuno se la legge sia giusta per rispettarla, ma bensì piuttosto quanto sia severa (il famoso detto latino: auctoritas non veritas facit legem). Nonostante tutto ciò possa apparire stupido e paradossale, è proprio questo tipo di giustizia meramente punitiva che caratterizza prepotentemente anche la nostra legislazione. E dirò di più: è su questo modello punitivo che si fonda ancor prima la nostra comprensione della giustizia stessa. Non solo, nelle grandi strutture occidentali, è incomprensibile una giustizia che sia priva di pene, ma lo è altrettanto (e forse maggiormente) perseguire quelle prescrizioni che, allorquando non rispettate, non siano in grado di produrre effetti concreti e punitivi.

Chi rispetterebbe uno soltanto dei limiti di velocità presenti sulle nostre strade se avesse la certezza di non incorrere mai in sanzione alcuna? Quasi nessuno! Ma la domanda allora da porsi è: perché? Perché, come già accennavo, si reputa in questo caso la legge stradale corretta solo limitatamente a tutti quei luoghi punitivi che la caratterizzano (autovelox, tutor, controllo semaforico, posto di blocco, etc.), cioè “giusta” – per tornare alla citazione iniziale di Trasimaco – solo poiché limitatamente “ingiusta”. Ma che cos’è questa giustizia paradossale se non il risvolto comico di una legge unicamente autoritaria piuttosto che intelligentemente propositiva? La legge infatti, ponendosi meramente come obbligo e divieto, si dimostra poco propensa a sviluppare un certo buon senso in chi, quella legge, la deve rispettare. Si è sempre preferito cioè perseguire la via dell’imposizione (“Fai questo!”) più che quella della responsabilizzazione (“Cosa pensi sia opportuno fare?”), cioè del cieco far obbedire piuttosto che del sano dibattere – non sarà necessario qui ricordare quanto avvenuto negli ultimi tre anni –. Ma a che costo? A costo di ritrovarci non, come vorrebbe qualcuno, con più “giustizia giusta”, bensì con meno capacità di discernere il giusto dall’ingiusto. Per questo la legge stradale – così come gli stessi automobilisti – considerano “giusti” tanto coloro che guidano sempre con prudenza quanto chi rallenta solo in prossimità di un controllo. Ma è “giusta”, bisogna chiederci, una siffatta giustizia? Non sarebbe invece più corretto trovare quell’inguaribile differenza che intercorre tra chi “giusto” lo è a prescindere – a prescindere cioè da qualsiasi ipotesi di pena o sanzione – e coloro che lo diventano appositamente solo per non cadere dalla parte dell’ingiusto?

Glaucone, poco dopo l’intervento di Trasimaco sopracitato, alza il tiro: a suo dire «[La giustizia] sta in mezzo tra il meglio (che consiste nel commettere ingiustizia senza pagarne la pena) e il peggio (che consiste nel ricevere ingiustizia senza potersi vendicare). Perciò, essendo in mezzo a questi due estremi, la giustizia non è amata come bene, ma tenuta in onore perché manca la forza di commettere ingiustizia» (Repubblica II, 359 – IIab). La giustizia, come nella definizione di Trasimaco, non è di per sé un bene, bensì un compromesso posto a metà via tra un’assoluta libertà (fare tutto ciò che si vuole senza conseguenza alcuna) e una sfiancante costrizione (non poter fare altro che subire la libertà degli altri). In questo senso – l’unico, a ben vedere, realmente democratico – il “giusto” è pertanto ciò che è giusto sia per me che per te, ma solo poiché né per me e né per te questo giusto è il meglio o il peggio. Nessuno insomma perde diritti in questa giustizia sociale, poiché in fondo nessuno ne guadagna (ma tutti li mantengono). Ma a ben vedere allora, che cos’è questa ipotesi di giustizia se non quell’equilibrio precario – ma fondamentale da perseguire – che sorregge la differenza tra etica (fare tutto ciò che si può) e morale (fare quello che si deve)? Bisognerebbe cioè pensare la giustizia come quella cosa che sta tra “dovere” e “potere”, e non come scelta esclusiva tra l’uno o l’altro: bisogna pensarla allora come termine mediano, come sussunzione, come sinossi, affinché nulla – né di etica cioè e né di morale – vada drasticamente perduto. O al limite, quantomeno, sarebbe auspicabile che si riportasse all’interno del discorso giuridico canonico (incentrato unicamente attorno ai poli del “dovere” e del “non puoi”) la dimensione essenziale del “potere” personale, poiché in fondo è proprio questa potenza che fa la grande differenza al momento del bisogno: la coscienza di coloro che, nella Germania nazista, non si allinearono al regime, «Non parlò loro in termini di obbligazione, non disse loro “Questo non devo farlo”, ma semplicemente “Questo non posso farlo”» (H.Arendt, Responsabilità e Giudizio). Non si tratta mai cioè, nel massimo momento della responsabilità, di prendere una decisione ponderata, di riflettere del più e del meno o di fare un bilancio degli aspetti positivi e quelli negativi: non si sceglie cioè di essere “giusti” – questo rientrerebbe a pieno titolo nel conformismo più borghese e meschino –, bensì lo si è poiché non si potrebbe che esserlo. Quando si è allora veramente dalla parte del giusto? Non di certo quando si è obbligati ad una scelta, piuttosto ogniqualvolta non si trova un’alternativa contemplabile al fatto di diventarlo.

È in questo ultimo senso che si potrebbe leggere la definizione di “giustizia” posta in ultimo da Socrate: «Si potrebbe riconoscere come giustizia il possesso di ciò che è proprio e l’esplicazione del proprio compito» (IV, 433-34, Xea). Magnifico! La grandezza di questa definizione sta nel fatto di aver cercato finalmente di spostare l’attenzione del discorso giuridico-legislativo dal polo meramente autoritario-costrittivo (“Tu devi!”) a quello soggettivo-propositivo (“Cosa è giusto che io faccia?”). Solo attraverso questo spostamento sostanziale la Legge diverrebbe infatti davvero giusta, poiché lascerebbe finalmente all’individuo l’ultima parola sulla giustizia che gli compete. Il prodotto finale della giustizia più giusta infatti «Non è l’uomo che obbedisce alla legge, ma l’individuo sovrano e legislatore che si qualifica attraverso la potenza su se stesso […] e sulla legge» (G.Deleuze, Nietzsche e la Filosofia). Il fine della giustizia allora deve essere niente di meno che la fine della giustizia, ma non poiché sia venuto meno un certo ordine sociale, tutt’altro: la giustizia finisce allorquando i singoli individui comprendono che essere “giusti” non è semplicemente il contrario dell’essere “ingiusti” (o lo spazio che intercorre tra ingiustizia ed ingiustizia, o il modo per non cadere in sanzione, etc.), ma quel luogo sostanziale in cui si possiede davvero quello che ci è più proprio, in cui si esplica il proprio compito più imprescindibile e i nostri doveri più necessari: il luogo, cioè, di una promessa ontologica mantenuta. Questo spostamento prospettico, come non bastasse, ha il pregio ulteriore di focalizzare l’attenzione non sull’ingiustizia subita – sempre al di fuori della propria competenza –, ma sulla giustizia che abbiamo ancora da compiere: in fondo, in quest’ottica, «È mio diritto naturale tutto ciò che mi è possibile» (G.Deleuze, Cosa può un Corpo? Lezioni su Spinoza). Che magnifica conquista sociale sarebbe un siffatto diritto: poter fare cioè tutto ciò che posso! Ma quanta delicata responsabilità sarebbe necessaria per poterlo correttamente esercitare? Quanta comprensione “di sé”, dei propri limiti, dei propri fini, degli altri? Diritto oltremodo difficile, certo!, ed assolutamente inamministrabile. Bisogna però lavorare non altrove, per dare infine un senso “giusto” alla giustizia, che su questa ardua via.


[1]Riporto qui una dichiarazione dell’attuale premier che, interrogata sulle riforme ancora da compiere in materia giudiziaria, ha risposto con determinazione che il governo è al lavoro per «Dare ai cittadini una giustizia giusta» (ANSA). Ad onor del vero l’adagio della “giustizia giusta” è stato riproposto più volte nel corso delle ultime legislature, in maniera assolutamente trasversale rispetto lo schieramento politico di appartenenza.

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