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La donna allo specchio, frammenti su Sibilla Aleramo
Una delle donne più autentiche e ribelli della storia della nostra letteratura è Sibilla Aleramo, nome d’arte scelto da Rina Faccio, nata ad Alessandria nel 1866. In Una donna, suo primo romanzo, racconta la prima parte della propria esistenza, segnata da una violenza, un matrimonio infelice, una maternità sofferta e un necessario abbandono per seguire la tanto agognata indipendenza e libertà, che si configura anche come liberazione del corpo. È un romanzo autobiografico che affronta la questione femminile in modo coraggioso e con uno stile lirico e dannunziano. È il primo di una lunga serie per Sibilla, composto da venticinque capitoli e pubblicato nel 1907, fu subito un caso letterario, destinato a diventare un classico: nel tempo sono state stampate ben venticinque edizioni ed è stato tradotto in dodici lingue.
Dopo l’infanzia a Milano, Sibilla si trasferì con la famiglia in un paese delle Marche dove il padre dirigeva un’impresa. Frequentò solo le scuole elementari, perché a Civitanova Marche non c’erano scuole secondarie, dunque coltivò la sua cultura da autodidatta. Lavorò nell’ufficio del padre. Qui conobbe l’uomo che rovinò la sua vita.
I primi capitoli parlano dell’infanzia e dell’adolescenza felici, dove Sibilla era il centro dell’attenzione della famiglia. Il padre era molto amato dalla figlia, in modo esagerato, a tratti edipico; la madre, invece, sottomessa al marito e profondamente infelice. Sibilla ammira il sorriso trionfante del padre, la testa fiera ed eretta. Ne descrive minuziosamente i tratti e le movenze, provando profonda fascinazione per lui. La madre è sempre più sconvolta dalla gelosia, diviene folle, presto sarà internata in manicomio. Nel rapporto tra Sibilla e suo padre qualcosa si spezza. Scopre l’adulterio del genitore che tanto amava, con un’operaia della sua impresa, per altro. Ecco che si presenta per lei la prima grande delusione. Sibilla ha quindici anni e tale caduta di stima, con conseguente perdita del suo punto di riferimento, diventa una tragedia nella sua vita. Sente il padre debole e uguale a chiunque. Percepisce sé stessa come sola e abbandonata. Dopo la delusione paterna ne arriveranno altre. Subito accade qualcosa di terribile e ineluttabile, ma narrato come non fosse importante. Un dipendente del padre, un impiegato, abusa di lei. La descrizione della violenza non è carica di pathos, ma al contrario, viene solo accennata, come una cosa qualunque, una cosa cui non si riesce a dare nome, né significato.
Così, sorridendo puerilmente, accanto allo stipite di una porta che divideva lo studio del babbo dall’ufficio comune, un mattino fui sorpresa da un abbraccio insolito, brutale: due mani tremanti frugavano le mie vesti, arrovesciavano il mio corpo fin quasi a coricarlo attraverso uno sgabello mentre istintivamente si divincolava. Soffocavo e diedi un gemito ch’era per finire in un urlo, quando l’uomo, premendomi la bocca, mi respinse lontano. Udii un passo fuggire e sbattersi l’uscio. Barcollando, mi rifugiai nel piccolo laboratorio in fondo allo studio. Tentavo ricompormi, mentre mi sentivo mancare le forze; ma un sospetto oscuro mi si affacciò. Slanciatami fuor della stanza, vidi colui, che m’interrogava in silenzio, smarrito, ansante. Dovevo esprimere un immenso orrore, poiché una paura folle gli apparì sul volto, mentre avanzava verso di me le mani congiunte in atto supplichevole…
(Sibilla Aleramo, Una donna, Feltrinelli, 2014, pp. 26-27)
Tale abuso interrompe ex abrupto l’adolescenza di Sibilla. L’uomo, per riparare al danno, la chiederà in sposa. Si tratta di un matrimonio riparatore, senza l’ombra di un sentimento, da parte di entrambi. Appena sedicenne Sibilla è affidata, abbandonata forse, a costui. Inizia la tragedia silenziosa di una sposa infelice. Nella descrizione di questa infelicità femminile, e nel tentativo di liberarsene, è la grandezza di un romanzo femminile e furente. Sibilla, dalla tragedia coniugale tenta in tutti i modi di venirne fuori e trasforma la propria coscienza. Si ribella alla meschinità gretta e provinciale cui si sente estranea. Dal sé ferito passerà al sé universale femminile, dalla consapevolezza della ferita primigenia di ogni donna, a una lotta dunque per l’indipendenza, per la parità dei diritti, per la liberazione della donna dalle proprie prigioni sociali e interiori.
La scoperta della maternità sarà centrale. La scoperta di una nuova vita che dapprima le appare spaventosa e terribile, tra le preoccupazioni sull’avvenire, sulla propria capacità di essere madre. Ma poi accetta il suo futuro, la stessa malinconia, la possibilità di dare la vita. Così riesce a conferire un senso al suo matrimonio. Ci sarà poi un altro episodio centrale, l’arrivo di un uomo, un forestiero, di cui s’infatua, e che la spingerà alla rivolta nei confronti del marito, rivolta che però s’incarna non già in una forma di liberazione, quanto in un tentativo di suicidio con il laudano.
Per quanto si senta disperata, inizia a occuparsi delle questioni sociali: si avvicina al socialismo, si getta in un turbine di studio, letture senza sosta, e avverte su di sé una responsabilità di persona umana, così nasce l’idea di scrivere un libro d’amore e di dolore, straziante, inesorabile e pietoso.
A costo di una grandissima perdita: separarsi dal figlio, che il marito le vieta di portare con sé, Sibilla riuscirà ad andar via da quella casa, da quella illusione di famiglia che per lei è solo una prigione. È una scelta sofferta, dolorosissima ma necessaria per ricominciare a sentirsi viva. Scelta che non le verrà mai perdonata dalla gran parte del mondo letterario femminile, Grazia Deledda prima tra tutte. Il figlio le scrive delle dolcissime, quanto disperate, lettere, in cui le chiede di tornare con lui, di tornare a prenderlo e portarlo con sé, le dice che tutti parlano male di lei, che tengono a impedire categoricamente il loro incontro.
Sibilla decide dunque per il divorzio e si lega a una figura di intellettuale riformista, Giovanni Cena, che vive a Roma, dove la protagonista e autrice si trasferirà. Direttore della prestigiosa rivista La nuova antologia e poi, in ambito sociale, fondatore delle scuole dell’agro romano, che si proponevano di combattere l’analfabetismo. Al suo fianco la Aleramo crebbe dal punto di vista sociale e letterario, e fu qui che iniziò a scrivere Una donna, che dal punto di vista stilistico è parecchio dannunziano: prende spunto dai due grandi romanzi Il piacere e e Il fuoco. L’esordio inizialmente ebbe una grande difficoltà a emergere, a essere pubblicato. Trascorsero diversi anni, fu nel 1906 che venne acquistato e pubblicato nel 1907. Ugo Ojetti, critico del Corriere della Sera, scrive a Cena che avrebbe immaginato di non conoscere Sibilla Aleramo, ma non era poi difficile comprendere che il romanzo fosse fortemente autobiografico. Fu subito un caso letterario. Parlarono di lei, elogiandola, Pirandello, Bontempelli e Anatole France.
La Aleramo visse fino al 1960. Tra le sue relazioni amorose ci furono i più grandi intellettuali dell’epoca, tra cui l’immenso Dino Campana, le lettere tra i due sono raccolte nel libro Un viaggio chiamato amore, da cui è stato tratto l’omonimo film di Michele Placido.
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