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L’euroatlantismo meloniano e il vuoto di alternative
Chi si aspettava una Meloni autarchica, patriota e tutrice degli interessi nazionali oggi è costretto a ricredersi. Tutti i provvedimenti che contano presi dall’esecutivo, infatti, vanno nella direzione opposta, seguendo il solco già tracciato negli ultimi decenni: vincolismo esterno, europeismo dogmatico, fanatismo atlantico.
Escluso qualche sussulto iniziale con cui ha provato a marcare una differenza col passato e qualche saltuaria uscita scomposta o decisamente grave dei suoi ministri, il nuovo governo non ha perso tempo nel rimettersi sulla “retta via”: seguendo alla lettera le indicazioni di Bruxelles in politica economica, eliminando – anziché migliorarla – l’unica misura espansiva degli ultimi trent’anni, rifinanziando la guerra, confermando senza batter ciglio e con rinnovato orgoglio la sudditanza all’imperialismo statunitense.
E ancora: sulla scuola procede spedita lungo il binario tracciato negli ultimi anni, cioè merito e formazione come propedeutica al mercato. Ridimensiona la spesa sanitaria, in linea con i governi Monti-Letta-Renzi-Gentiloni, lasciando collassare una sanità pubblica già agonizzante e desiderandone una più massiccia privatizzazione. Non elimina, come solennemente promesso, le accise sulla benzina, rimettendosi integralmente all’ideologia della “sostenibilità” della spesa pubblica. Come fosse una Fornero qualsiasi.
Non a caso riceve il plauso dei vari Letta, Bonaccini, Calenda. E d’altra parte fu proprio Mario Draghi a rassicurarci che – sulle cose che contano, come già si intravedeva subito dopo l’esito elettorale[1] – nulla sarebbe cambiato con la destra al governo. Anzi, senza l’ingombro dei 5 Stelle, per quanto anch’essi cronicamente ambigui, sarebbe andata ancora più liscia (come di fatto sta andando) sulla via della de-sovranizzazione del nostro Paese (e questo, detto incidentalmente, lascia sospettare che l’accordo Pd-5 Stelle alle ultime elezioni sia stato scientemente osteggiato dall’ex presidente della BCE – proconsole dell’oligarchia tecnocratica nella provincia italiana – e i suoi fedeli seguaci).
Insomma, una Meloni che segue il sentiero già intrapreso dal centrosinistra nell’ultimo decennio, confermando ciò che l’Italia è già di fatto diventata: una nazione a sovranità limitata che sui bisogni prioritari dei cittadini pone sempre vincoli di spesa, ma poi se ne infischia della sostenibilità finanziaria se si tratta di spese militari.
Ma allora perché, a fronte di una linea di governo del tutto compatibile e in continuità sostanziale con le dinamiche profonde degli ultimi decenni, media e stampa cercano continuamente e affannosamente falle ed errori nell’esecutivo? Si teme l’inaffidabilità dell’attuale maggioranza nel garantire fino in fondo la conservazione dei processi e dei meccanismi sovranazionali che hanno, di fatto, destituito di senso la democrazia. Sarebbe meglio – sostengono senza enunciarlo esplicitamente – una forza più affidabile, che sappia farlo senza tentennamenti. Come il Pd ha dimostrato di essere negli ultimi anni, appoggiando governi tecnici, maggioranze trasversali, politiche anti-popolari.
Ci sono dunque ancora dubbi sulle ragioni dell’astensionismo? Non si tratta – come il nuovo clero intellettuale predica nei format televisivi preconfezionati – di un fenomeno di inciviltà, inconsapevolezza o ignoranza. Si tratta, al contrario, della ormai sempre più emergente consapevolezza che – eccettuati determinati aspetti più o meno secondari, se non del tutto ornamentali – la scelta di un campo politico o dell’altro è del tutto ininfluente per migliorare le condizioni materiali di vita dei cittadini.
Una cosa almeno adesso è chiara: la destra meloniana, pur se ancora resta stabile nei sondaggi, ha fatto cadere la maschera che ha indossato negli ultimi anni e si è evidenziata per quello che è realmente: una forza “thatcheriana”, neoliberale, perfettamente compatibile con l’assetto mercatista dell’Unione europea (“ineccepibile in Europa”, la giudica Monti), destinata ad essere abbandonata da gran parte dei suoi elettori.
Il dramma è che, ad oggi, non c’è alcuna alternativa politica a tutto questo. Il Pd non abbandonerà la linea liberista e anti-popolare che lo sostanzia, nemmeno con la cosiddetta “svolta progressista” della Schlein: tutt’al più la mitigherà, modificando la comunicazione politica e cambiando i suoi slogan. Sull’invio di armi in Ucraina, inoltre, la nuova segretaria si è già espressa favorevolmente, appiattendosi sulla narrazione dominante che non riesce ad andare oltre lo schema aggredito/aggressore.
Con la Schlein, dunque, più che i temi del lavoro, dei salari, del ritorno della dimensione pubblica, della pace, troverà voce il tema – necessario ma non sufficiente – dei diritti civili, tema prioritario per la classe media-riflessiva e per i ceti abbienti, non per l’ampia maggioranza di chi vive del proprio lavoro, dei disoccupati, di chi fatica a rimanere a galla. Dall’opposizione, insomma, la Schlein apparirà come l’anti-Meloni, ma alla prima occasione di governo non tarderà ad abbracciare il solito mantra della governabilità e le parole d’ordine saranno ancora le stesse: austerità, vincoli di spesa, sacrifici, responsabilità. Esattamente come ha fatto la Meloni. Ma soprattutto – ed è la cosa più drammatica – il nuovo corso del Pd fungerà da ostacolo per la nascita di un vero partito socialdemocratico in Italia.
E le altre forze di opposizione? Le sinistre dette “radicali” sono inconsistenti e con le idee confuse su troppe questioni dirimenti, tant’è vero che guardano con interesse al “nuovo” Pd: in fondo si accontentano di qualche postazione parlamentare. I 5 Stelle, infine, pur se offrono qualche sponda alle richieste di protezione sociale, scontano una cronica schizofrenia politica, quindi un’incapacità di proporsi come guida per una vera opposizione.
C’è, dunque, urgente necessità di una forza in grado di riaprire realmente il conflitto, che riporti al centro del dibattito il lavoro, la dimensione pubblica, la pace e che si ponga come guida consapevole della trasformazione. Ma per conseguire questo non bastano le dichiarazioni di principio. Occorre, in primo luogo, una elaborazione teorica strutturale, sistemica, che si richiami al socialismo, ma che allo stesso tempo si emancipi da quegli inveterati pregiudizi (come l’europeismo romanzato e astratto) che hanno impedito alle sinistre degli ultimi decenni – un po’ per ingenuità, un po’ per malafede – di comprendere il presente. E in secondo luogo occorre una capacità organizzativa che possa aggregare quegli ampi strati di popolazione oggi assenti e indifferenti, perché traditi nei loro bisogni e nelle loro rivendicazioni.
Sembra che i tempi non siano ancora del tutto maturi perché qualcosa appaia all’orizzonte: “il vecchio muore ma il nuovo ancora non può nascere”, diceva, come è noto, Antonio Gramsci. E inoltre la storia ci ha drammaticamente insegnato che le forze del rinnovamento si sviluppano dopo le catastrofi. Ci siamo vicini?
[1] Queste riflessioni, infatti, riprendono l’articolo pubblicato su La fionda il 28/09/2022, “Finire il lavoro”, in cui discutevo degli scenari probabili che avrebbero seguito la vittoria del centrodestra alle ultime elezioni politiche: https://www.lafionda.org/2022/09/28/finire-il-lavoro/
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