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Ultima Generazione: estetica e politica del gesto eclatante


23 Mar , 2023|
| 2023 | Visioni

Un’era geologica fa – politicamente parlando –  il cosiddetto movimento no global era al suo apogeo, tutti i giornali ne parlavano ma con una spiccata preferenza: Luca Casarini. Questi era il leader di una delle componenti di tal movimento, delle Tute bianche o dei Disobbedienti, che pareva lasciarsi andare a dichiarazioni altisonanti latamente minacciose: fra tutte la “Dichiarazione di guerra” ai Grandi del G8 a Genova per il (tristemente noto) vertice di luglio 2001.

Ai tempi non è noto quanto consenso avesse tale figura fra i militanti, ma chi si è spolmonato per giorni e settimane per spiegare i contenuti al cittadino comune che non pensava che a cassonetti incendiati o bancomat scassati forse non aveva troppa simpatia per tale strategia. Diversi lo consideravano una testa calda che parlava d’impulso facendo danni d’immagine inenarrabili. Potremmo però vederla come una strategia comunicativa che per il suo fine particolare era riuscita: far parlare di sé i media, e certo non solo quelli di nicchia. Chiunque faccia attivismo per qualche causa che richiede un consenso cerca di attirare l’attenzione in qualche modo e maniera. Quale modo migliore che far balenare scenari da guerriglia urbana facendo inviperire come bisce i soliti reazionari bolliti del Giornale e Libero, e turbando i sonni del borghesissimo Corriere e degli (allora) progressisti Repubblica ed Espresso?

Chi ha vissuto quella fase ricorderà pure i lati negativi però: è vero, alla fine il Movimento dei Movimenti si guadagnò le prime pagine, ma al costo non indifferente di essere dipinto come una manica di facinorosi e violenti. I media dominanti cercano in generale di sminuire o distorcere le proteste dal basso, con una marcata preferenza di elementi sensazionalistici e di facile comprensione. Al diavolo le statistiche sulla globalizzazione e il tema del capitalismo, il vandalismo di strada se pubblicato fa presa immediata e lo capiscono tutti.

Peraltro era tutta fuffa: l’immaginario belligerante e sovversivo di Casarini era tutto simbolico e non ha mai torto un capello a una mosca, al contrario della repressione poliziesca, quella sì davvero temibile.

Ricordiamo tali trascorsi in merito alla oramai arcinota vicenda dell’episodio di provocazione del gruppo ecologista Ultima Generazione su Palazzo Vecchio, che ha visto un protagonismo muscolare del sindaco Nardella – di cui si è impossessata la rete, sfornato una serie di meme e fotomontaggi satirici.

Lo scopo delle righe che seguono non è di criticare o stigmatizzare tale azione, se non altro perché l’opposizione ad essa è tanto ampia e trasversale da non aver bisogno di una ennesima presa di posizione contraria; è forse più produttivo capirne la logica e – soprattutto – le implicazioni.

Premettiamo che una certa parte di commentatori si sarebbe opposta a qualsiasi forma di protesta in materia ambientale, perché è un fatto che uno stuolo di incalliti reazionari – tipo i lettori del Giornale, di Libero e simili – è tanto allergico ad ogni mobilitazione quanto insensibili al tema ambientale; la stessa categoia di persone che avversa gli scioperi perché “non ci si deve sempre lamentare” e che inveisce senza pietà quando viene colpita personalmente. L’effetto delle proteste “radicali” su di essi è trascurabile: sarebbero contrari in ogni caso.

Ma essi non possono essere considerati la maggioranza. In diversi sondaggi di opinione l’ambiente compare fra i primi posti fra le priorità politiche, e negli stessi programmi dei partiti di destra c’è più apertura rispetto ad esso. Possiamo dire che esiste una salda maggioranza trasversale che include il tema ecologico nel novero delle proprie preoccupazioni, e semmai si divide sul modo concreto di affrontarle – sul fatto di vietare la vendita di automobili a combustione fossile per esempio.

Qualcuno ha scritto che imbrattare un palazzo medievale sarebbe una cosa stupida. Se si prende come criterio l’effetto-Casarini (bucare il video) invece l’atto non poteva avere effetto migliore: tutti ne hanno parlato, è andato sui tg nazionali e ha scatenato reazioni. Per le sue finalità generali – aumentare la consapevolezza ambientale e spingere le autorità a provvedimenti conformi ad essa non si può dire la stessa cosa.

Prendiamo come esempio i commentatori favorevoli all’azione di Ultima Generazione. Essi se non tacciono sono totalmente sulla difensiva e si sentono evidentemente assediati come dentro ad un fortino. Lo testimonia il tono degli argomenti, riassumibili nel “guardare la luna e non il dito”, e cioè di considerare l’emergenza climatica in sé e non le modalità controverse con cui essa viene comunicata. È un argomento debole: separare rigidamente le forme di comunicazione e il messaggio è già di per sé difficile, soprattutto per chi non è già informato della questione. Diventa evidentemente errato se si considera che parliamo non di una modalità espositiva come un saggio o un paper scientifico ma di una forma comunicativa. Se questa suggerisce una reazione negativa anche a coloro che dovrebbero essere aperti al tema in questione, non è forse una modalità criticabile? Il ragionamento di fondo sembra essere che dato che il tema (emergenza ecologica) è giusto lo è anche qualsiasi forma di comunicarlo. La giustezza di quest’ultima riposa su quella del messaggio da veicolare. Versione laica del detto neotestamentario omnia munda mundis, tutto è puro per i puri. Purtroppo è una forma di logica circolare  che “convince” solo chi è già convinto. Lo stesso potrebbero dire gli antiabortisti, legittimando anche le forme più violente e ripugnanti di contestazione – tipo gettare sangue infetto sui medici abortisti; se uno è d’accordo sul principio di base può giustificare qualsiasi cosa appaia conforme ad esso. Ma una modalità comunicativa che mira ad allargare il consenso si misura sulla sua efficacia effettiva (vale per tutti, ambientalisti ed antiabortisti), altrimenti è testimonianza. Qualcosa di molto nobile che però non corrisponde alle ambizioni dei movimenti di cui si parla: “salvare il pianeta”.

Non tiene nemmeno l’argomento per cui “è la solita demonizzazione di qualsiasi tipo di protesta che non sia nei parametri della accettabilità del sistema”. Anche questa è una affermazione debole. È evidente che molti di coloro che si pronunciano negativamente accetterebbero di buon grado altre forme di proteste. Si torna al punto precedente: sarebbe la intrinseca giustezza dell’obiettivo a “irrorare” la modalità. Chi ragiona così per affermare nobili cause legittimerebbe proteste che mettano in pericolo le persone? Evidentemente no. Quindi pure loro farebbero una valutazione di adeguatezza funzionale, mentre in questo caso no; non sarebbe meglio ammettere i problemi e prendere discussione nel merito che asserragliarsi in tale autoreferenzialità?

Lo sbocco di questo modo di ragionare è un po’ quello noto come benaltrismo: smettete di rompere per un po’ di vernice, perché l’emergenza climatica è il problema vero. D’accordo, ma purtroppo questo ragionamento risulta solido e credibile solo all’interno di un orizzonte che considera già tale emergenza come una salda realtà. Al di fuori di esso non ha molta presa; e se il famoso gesto era destinato ad accrescere il novero di coloro che vi si collocano dentro è difficile immaginare un fallimento più evidente.

Non se la cava meglio l’argomento che raffronta il gesto ecologista con lo sfruttamento della cultura. In sintesi: vi sono critiche assai decise verso lo sfruttamento della cultura per rendere la città di Firenze una Disneyland al servizio della mercantilizzazione per il turismo di massa; l’assunto sarebbe che l’insieme di processi (espulsione dei residenti a favore della rendita immobiliare, sfruttamento della manodopera del settore, selezione del patrimonio da esibire sulla base della sua corrispondenza con gli stereotipi da cartolina illustrata, ecc.) è più nocivo di una mano di vernice da parte di attivisti climatici.

In senso generale è una posizione che ha una consistenza forte, ma nello specifico è perdente: se si ragiona così qualunque tipo di protesta/ mobilitazione per quanto idiota e dannosa sia sarebbe “scusata” in quanto non può certo competere con l’incisività di politiche più vaste. Questo tipo di argomenti suona un po’ come un invito a non giudicare i gesti specifici ma di prendere piuttosto posizione su una contrapposizione più ampia. Ma perché? Non si può fare entrambe? Magari suggerendo modalità più produttive e consone? Purtroppo, pare proprio che nel consenso comune tutto ciò passi in secondo piano, anche presso persone che normalmente sono critiche verso l’amministrazione l’azione di Ultima Generazione non pare abbia suscitato reazioni particolarmente positive. Si confermerebbe un flop clamoroso sul piano della acquisizione di consenso.

Ma è proprio così? In realtà non proprio. Il successo in termini di visibilità è legato proprio alla indignazione che suscita. Una indignazione molto particolare: anziché rivolgersi come gesto a cittadini come gli automobilisti – quindi ad una soggettività privata – o a istituzioni legate ad un gruppo sociale o politico, una scia di proteste colpisce – sia pur simbolicamente – il bene comune più universale che ci sia: l’arte. Qualcosa che per universale consenso appartiene all’umanità intera. È questa la chiave del successo di Ultima Generazione sul piano comunicativo: provoca e fa infervorare non solo incalliti reazionari ma un po’ tutti, inclusi i progressisti che teoricamente sarebbero i destinatari ideali del messaggio. Una rinascita del vecchio gusto di épater le bourgeois; solo che il borghese da sbalordire magari è proprio il piddino che in teoria vorrebbe la transizione energetica, non solo l’incallito reazionario che vede il complotto globalista dietro ad ogni istanza ambientalista.

Insomma fa parlare di sé proprio perché non attira consensi ma, all’opposto, induce indignazione e sconcerto calamitando antipatie, avversione, insulti. In tal senso Ultima Generazione su uno specifico piano vince. Eccome se vince. Chi potrebbe negarlo? Chi ha sentito discussioni sulla performance-protesta sulle piste innevate di Claviere? O alla fontana di Torino? Chi ha parlato del blitz negli uffici dell’ENI a Napoli? O alla Fontana dell’Elefante a Catania? O del presidio a Bologna? Praticamente nessuno. È storia vecchia: le dimostrazioni più tranquille e pacifiche sono meglio accolte ma non bucano il video dell’informazione. Gli attacchi alle opere artistiche invece fanno parlare eccome. Da qui lo stuolo di dimostrazioni di questo tipo in diversi paesi, che hanno inevitabilmente generato polemiche e discussioni. Quando un’attivista è comparsa seminuda sul palco canadese della consegna dei Juno Awards – una famosa cerimonia di premiazione di artisti in campo musicale – la nota cantante Avril Lavigne l’ha apostrofata in maniera dura, e sul suo profilo twitter ha dovuto fronteggiare le reazioni dei fan che in generale non hanno approvato. “Capiamo il tuo disagio ma non avresti dovuto offenderla, perché sul punto ha ragione”, pare la posizione più ricorrente. Va detto che il gesto dimostrativo era relativo alla spianata di cemento che il governo dell’Ontario vorrebbe riversare su una zona naturalistica protetta, quindi magari fra i canadesi questo ha influito – il paese peraltro ha una sensibilità ambientale molto più acuta dei loro vicini statunitensi, e al tempo stesso presenta degli esempi di scempi raggelanti. Ma quando c’è di mezzo l’arte le reazioni sono di segno assai diverso.

Questo punto ci porta ad andare oltre il dibattito sulla giustezza di azioni radicali di tal genere. Da un lato si può trovare comprensibile che a fronte della indifferenza con cui sono accolte azioni più tranquille si voglia alzare il grado di conflittualità. Le proteste che non danno noia a nessuno hanno mai avuto effetti concreti? C’è però un problema: forme di mobilitazione radicali rivolte contro una controparte identificata come responsabile di politiche nocive (governi, imprese, Esercito, ecc.) costruisce una opposizione rispetto a tali soggetti; nell’imbrattare il vetro di un quadro di Van Gogh il “nemico” chi sarebbe? Non è affatto chiaro.

Una parte importante di movimenti ecologisti delle decadi precedenti era rivolta al cambiamento con la costruzione di alternative: nuovi stili di vita, acquisti consapevoli di prodotti in qualche modo meno impattanti, e simili. La logica era da cambiamento lento, con dolcezza, con una  paziente diffusione del consenso che alla fine avrebbe cambiato un po’ tutto il sistema. La pazienza non sembra essere condivisa dalle nuove generazioni di attivisti – in tutte queste azioni l’età anagrafica dei partecipanti pare essere più verso i vent’anni che verso i trenta, che vi darebbe una impronta generazionale (va detto che tali modalità sono state facilmente digerite dal sistema dominante, anche tramutandosi in facile ritorno d’immagine, anche per amministratori locali, facendo greenwashing). Si muovono in un’atmosfera più emergenziale: bisogna fare presto, presto, presto, il tempo sta per scadere e l’Apocalisse è vicina, quindi il “tempo lento” non basta. Ma c’è un’altra caratteristica: la ricerca della visibilità da social, del video che diventa virale, dell’entrare di prepotenza nella agenda del discorso pubblico sgomitando grazie al gesto eclatante di grande risonanza;  In altre parole, queste forme di mobilitazione sono altrettanto figlie dell’atmosfera culturale del sistema stesso. Che sia una strategia meditata o irriflessa (in fondo maneggiare gli strumenti del sistema col perizia non richiede necessariamente una consapevolezza) è una scommessa assai rischiosa: usare la logica del sistema dandogli quello che vuole, trollare le dinamiche dominanti sfruttandone le modalità di funzionamento per suscitare consapevolezza.

Funzionerà? Chi si è adattato agli ingranaggi del sistema poche volte ha avuto successo nel sabotaggio. L’idea di queste azioni radicali pare essere: intanto facciamo qualcosa di cui tutti parleranno, e questo genererà un effetto di trascinamento che alla fine farà pressione sulla politica. Ma è davvero una implicazione che funziona sempre? Uno dei lati più negativi è che, come un faro di luce in una stanza semibuia illumina un punto specifico ma il resto in penombra lo rende anche meno visibile, i gesti eclatanti rischiano di far parlare di se stessi e dei loro promotori più che del problema retrostante e magari delle piccole iniziative che faticano ad affermarsi nel panorama sociale. Francesco Cancellato di Fanpage nota la divergenza fra l’indignazione generalizzata per la vernice su Palazzo Vecchio e la sonnolenta indifferenza fra il rapporto dell’IPCC che ha richiesto otto anni di studi. Verissimo: ma una strategia accurata dovrebbe modificare tale situazione, se invece non la modifica o la riproduce c’è qualcosa che non va. Peraltro lo stesso Cancellato non sembra abbia dedicato molte energie ad analisi sulle criticità dell’eurozona, preferendo stigmatizzare le sparate un po’ sopra le righe di chi caldeggiava posizioni di uscita dall’euro. A quanto pare quando fa comodo (cioè quando conferma le proprie convinzioni, pregiudizi e inclinazioni) un po’ tutti predicano di non fermarsi al “dito” ma di alzare lo sguardo sulla Luna, quando non è così si fermano alla prima falange. Per questo tipo di temi la testata di Cancellato si potrebbe ribatterrare Falangepage.

Ripetiamo l’interrogativo: funzionerà la strategia alla Casarini? Ci si dovrebbe ricordare quello che accadde vent’anni fa: molti si misero a parlare del movimento di allora, ma una buona parte del paese – in particolare quella che nel 2001 votò Berlusconi – maturò una opinione negativa di esso; la campagna di comunicazione volta a dipingerlo come una fonte di pericolo e che si prestò a legittimare il trattarlo come un problema di ordine pubblico – per chi ha memoria di allora non si riusciva proprio a parlare dei contenuti – e infine a a reprimerlo. Ovviamente il leader delle Tute Bianche non può essere incolpato di questo – anche se altre frange dei movimenti avrebbero preferito una comunicazione meno colorita, che alla fine ritornava in testa a tutti, anche a chi la condivideva poco. Ma si potrebbe concludere che giocare con il fuoco è pericoloso, e assecondare delle dinamiche comunicative del sistema, pur se si “vince” nello sfondamento mediatico può aiutare il potere a confezionarsi l’immagine pubblica dei movimenti un po’ come preferisce lui, vuoi per assimilarlo nelle dinamiche dominanti quanto per reprimerlo nel momento in cui vi scorgesse un reale potenziale antisistema, rischiando quindi “tutto”.

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