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Depensamento e decrescita
Per gentile concessione dell’editore vi proponiamo la prefazione di “Go Waste. Depensamento e decrescita” di Onofrio Romano. In libreria dal 4 aprile, ma già acquistabile sul sito dell’editore. Si tratta di una lettura come sempre acuta e originale che deborda dai confini spesso assai ristretti entro i quali la narrazione della decrescita normalmente s’inquadra.
“Il mondo al quale siamo appartenuti
non propone niente da amare fuori
dall’insufficienza individuale di ciascuno:
la sua esistenza si limita alla comodità.
Un mondo che non può essere amato da morire
– allo stesso modo che un uomo ama una donna –
rappresenta solo l’interesse e l’obbligo del lavoro.
Se paragonato ai mondi scomparsi, è orribile e
appare come il più mancato di tutti”.
Georges Bataille
I “decrescitisti” sono pressoché unanimemente biasimati – sia da chi li detesta sia, paradossalmente, da chi ne approva le istanze – per l’adozione della parola “decrescita”. Non suona bene, innanzi tutto. Né appare granché invitante. Sono molteplici, indubbiamente, le ragioni della sua inappropriatezza e, come vedremo più avanti, spesso largamente condivisibili. Non sono solo tattiche, ma anche sostanziali. Ad esempio, il riferimento diretto alla sfera produttiva della vita associata incorpora il progetto, sebbene per negazione, proprio in quell’immaginario economicista dal quale la decrescita pretenderebbe di affrancarsi.
Ciò ammesso, non c’è dubbio che puntando l’indice sulla crescita economica i sostenitori del progetto inquadrano quello che, a nostro avviso, è il carattere maggiormente distintivo della civiltà occidentale e allo stesso tempo la scaturigine delle sue derive contemporanee. Quindi, sì: sul piano del marketing politico, l’adozione del termine “decrescita” non è proprio una mossa vincente e, certamente, un’alternativa di società fondata sulla mera negazione della crescita economica appare tutt’altro che entusiasmante. Ma sul piano – ci si perdoni il termine – “scientifico”, la focalizzazione sul dispositivo di crescita appare molto pertinente. Come proveremo ad argomentare, infatti, esso da un lato disvela la logica profonda di funzionamento della società occidentale moderna, dall’altro costituisce la principale fonte di una serie di derive ecologiche, sociali, economiche, politiche e antropologiche sempre più incontrollabili, che reclamano un deciso e rapido cambiamento di rotta. Un mutamento di regime regolativo, piuttosto che meramente politico. La crescita è il pistone fatale della nostra civiltà. Merita di essere collocato al centro della discussione.
Nondimeno, è importante comprendere a fondo il significato di questa centralità. La crescita è il sintomo, non la malattia. È il dito che indica la luna. Non la luna. È la manifestazione superficiale di un sistema la cui logica, articolazione e ontologia sono tutte da decifrare. Il regime che produce una tensione all’illimitato perseguimento della crescita non coincide e non si esaurisce con la crescita.
Del resto, la crescita non beneficia di manifesti politici che la designino come un valore in sé. Tutti la glorificano, facendone un oggetto di perseguimento ossessivo, ma è difficile rintracciare dichiarazioni d’intenti, carte fondative, sacri testi che eleggano la crescita a finalità sociale esplicita. Essa è presentata come una tensione pre-intenzionale, che non abbisogna di argomenti a supporto. La sua desiderabilità è auto-evidente. Si dà come atteggiamento naturale, indipendente dalla sfera dei valori. Dal punto di vista chimico-paretiano, potremmo definire la crescita come un “residuo”, ossia una delle componenti elementari e non scomponibili della nostra civiltà. Sebbene “in-discussa”, la crescita rappresenta una chiave di accesso privilegiata alla modernità. Essa ne cattura la logica di fondo. Attraverso la crescita è cioè possibile accedere allo statuto fondativo della civiltà d’Occidente (una mossa preliminare per chiunque intenda decodificarne i disagi). In ogni caso, la crescita rende l’Occidente qualcosa di inedito nel catalogo storico delle civiltà umane.
Per queste ragioni, non possiamo prendere per scontato che contrastando gli effetti diretti della crescita (a livello ambientale e sociale) sia possibile disinnescare la logica generale dalla quale essa sorge. È un’illusione frequente, spesso coltivata dagli stessi sostenitori della decrescita. Il presente lavoro si staglia contro questa forma di riduzionismo. È corretto focalizzare lo sguardo sulla crescita, dal momento che è una delle più agevoli porte d’accesso al cuore del regime dominante. Ma se prendiamo le cose alla lettera, se ci opponiamo nominalmente alla crescita in sé, non è detto che saremo poi in grado di sconfiggere la “sindrome” della quale essa non è altro che il sintomo. Non è scontato che contrastando la crescita si aggredisca anche la logica che la sottende.
Sta qui la specificità del nostro contributo. Questo non è un libro contro la crescita e a favore di una società fondata sul limite o sulla traiettoria esplicitamente opposta (la decrescita). Questo libro propone una critica del sistema che genera il feticismo della crescita. La crescita viene qui considerata l’esponente operativo di uno specifico regime antropologico, economico, sociale, politico e istituzionale. Su di esso focalizzeremo l’attenzione. Non è escluso che questo regime possa eventualmente rigettare la crescita e manifestarsi in futuro sotto altre vesti continuando però a produrre macerie, magari di natura differente. Insomma, è immaginabile che si possa rinunciare alla crescita senza per questo fuoriuscire dal “regime di crescita” e, reciprocamente, che si possa sfuggire al “regime di crescita” senza necessariamente abbandonare il movimento di crescita. In astratto, la seconda ipotesi ci sembra preferibile alla prima.
Come vedremo, infatti, in molte delle narrazioni decrescitiste attualmente circolanti, la contestazione della crescita non mette in alcun modo in discussione i capisaldi del regime socio-istituzionale del quale essa è espressione. Una mossa certamente legittima ma, a nostro avviso, completamente insoddisfacente, poiché lascia intoccati i fattori che rendono invivibile il presente. Per converso, la nostra prospettiva contempla, in astratto, la possibilità di promuovere un tipo di società che, sebbene estraneo al regime di crescita, non si preoccupa né dell’esaurimento delle risorse né della sopravvivenza del pianeta (che in sé, a nostro avviso, non costituisce un obiettivo necessariamente desiderabile), ossia di tutti quei propositi che animano oggi i sostenitori della decrescita. Per costoro, l’obiettivo fondamentale è salvare il pianeta. La nostra aspirazione, invece, è vivere in un mondo che possa essere “amato da morire”, anche accettando la possibilità di scomparire prematuramente proprio a causa del nostro amore. Questo obiettivo richiede l’abbandono del “regime di crescita” ma non necessariamente della crescita. Se la vita è il primo obiettivo per i decrescitisti (la ricerca della “buona vita”, generalmente, compare come corollario ex-post), per noi la vita in sé, la “vita per la vita”, è completamente priva d’interesse. Preferiamo la fine del pianeta piuttosto che una vita miserabile. Per queste ragioni, il nostro contributo deborda dai confini entro i quali la narrazione della decrescita normalmente s’inquadra. Ce ne assumiamo la responsabilità. Né pensiamo la decrescita come una mera tecnica di adattamento ad una condizione di fatto – la presunta necessità di adeguarsi, volente o nolente, al progressivo esaurimento delle risorse (che, come vedremo, è una via per recuperare surrettiziamente il mito originario della modernità). Partiremo, invece, da un altro punto di vista: quanto è desiderabile il modello di vita generato dal regime di crescita? Siamo in grado di sfidarlo con una visione di futuro più appassionante?
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