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Politica e religione in Russia


31 Mar , 2023|
| 2023 | Visioni

“Ancora uno, un ultimo racconto e la mia cronaca è terminata; si è concluso il lavoro, affidato da Dio a me, peccatore”[1]; è con ardente zelo che l’anziano monaco Pimen si appresta a narrare la Storia della propria Russia, lui ne è testimone, ha visto la storia scorrere sotto i propri occhi e sente la necessità di tramandarla ai posteri.

La storia che racconta è quella dell’epoca dei “torbidi”, ed in lui già si manifestano le due anime più profonde ed inconciliabili della tradizione russa, quella popolar-religiosa, e quella storico-materialista, un solco tra le due ampliatosi sempre di più a partire dal grande raskol e che ha provocato una frattura insanabile tra governanti e governati.

Ugualmente, pochi decenni dopo, l’arciprete Avvakum dona le proprie memorie in una sconvolgente autobiografia, nella quale racconta l’epoca della grande scissione della riforma di Nikon.

Avvakum racconta la Storia, propriamente con la “S” maiuscola, che è sì la propria storia, ma è anche e soprattutto la realizzazione apocalittica dell’Anticristo.

Negli stessi anni, in cui nell’Europa Occidentale si avviava a compimento il processo di neutralizzazione del conflitto religioso, da cui scaturisce il moderno, in Russia si inaspriva il lacerante scisma interno all’Ortodossia.

Precedentemente nell’Europa continentale era stata la trascendenza dell’Auctoritas a fondare il riconoscimento del potere temporale, secondo quella teoria che vedeva San Pietro delegare una delle due spade del potere all’Impero.

Ugualmente, in Russia, i due ambiti (temporale e spirituale) avevano convissuto in una profonda summa ed il potere del sovrano era inconcepibile al di fuori della cornice gerarchica della Chiesa: “la religione serviva sia da fondamento culturale sia da principio di autodefinizione della nazione”[2].

Quindi la proficua occasione dello scisma, provocò da un lato, la decadenza della Chiesa ufficiale, animata da conflitti interni di carattere sia morale che simbolico, privata “di ogni influenza sulla vita intellettuale, sociale e politica del paese, addomesticata dal potere civile”[3], dall’altro lato, il conseguenziale innalzamento dello Zar al di sopra del Patriarca.

Mentre l’Occidente, in quell’unitario “Jesus is the Christ[4], riconosceva il primato del politico rispetto al religioso, di cui tutto ciò che rimane è il simbolo svuotato dell’unità cristiana, mettendo così da parte tutto il conflitto antecedente,  la Russia, con la riforma, spegneva la Chiesa, edificando una religione di Stato e al pieno servizio di Esso.

Il conflitto veniva deformato al fine di garantire una Chiesa sottomessa e accondiscendente che rafforzasse il potere zarista.

La religione ortodossa veniva definitivamente assorbita, quindi conglobata alla corona.

La vecchia fede, invece, si conservava e rafforzava in piccole comunità monastiche (skit) od eremitiche (pustyn’) che si accrescevano sempre di più spiritualmente ed economicamente fino a diventare centri di riferimento per l’intera regione.

Una religione di Stato trasformata successivamente in religione dello Stato.

Infatti Marx spalma il Divino nell’immanenza materiale della Storia, tutto si realizza nella storia, “la religione dell’uomo che si fa Dio” si sostituisce senza mediazione alcuna alla “religione del Dio che si è fatto uomo”[5].

La Rivoluzione non rinunzia, tuttavia, al suo portato egoistico proprio del materialismo borghese, essa si trasforma ben presto in una vacua sfilata di burocrati, funzionari ed intellettuali al servizio del Partito che disprezzano il vivo e vero popolo russo fatto di persone semplici, operai, soldati, contadini.

Questo disprezzo si manifesta nella guerra implacabile condotta contro la Chiesa e la Tradizione conservata presso gli umili.

La rivoluzione rossa non ha alcun legame con il substrato culturale e popolare della Russia.

I contadini e i religiosi sono tagliati fuori, la rivoluzione si rivolge agli stessi apparati di Stato a cui si rivolgeva il potere zarista.

É una rivoluzione che guarda all’adattabilità della borghesia e dei freddi, formali burocrati.

Tuttavia uno spazio libero rimane pur sempre, un germe mortifero, conservato dai Vecchi Credenti nella libertà dell’essere umano, che ha permesso al popolo russo di rispolverare la propria gloriosa tradizione contro ogni forma totalitaria del potere.

Torniamo, quindi, alle due anime: “quella popolare, santa, giusta, fedele al giuramento e, al disopra di essa, l’anima delle classi sociali superiori, che si alimenta attingendo nel calderone di tutti i veleni, di tutte le illusioni se preferite, e di tutte le agitazioni, e non sa più, sciagurata anima di Caino, dove cacciarsi, dove vivere, con chi fare alleanza”[6].

A questo inaridirsi della Rivoluzione, Pierre Pascal contrappone il vivo fluire del cristianesimo sociale, o per meglio dire l’incarnazione dei valori cristiani nel socialismo, che avrebbe ancora potuto rinverdire l’opera dei Soviet.

Al materialismo dialettico che nega Dio, a cui si contesta la desertificazione delle possibilità creative dell’animo cristiano libero, si risponde con la passionale militanza fatta di fratellanza, benessere e giustizia.

Il socialismo si fa anch’esso religione, ma di una fede che è chiusa nei suoi dogmi, nelle sue illusioni, nelle sue dispute, nei suoi scismi.

La verità diventa peccato, la disinformazione unico strumento possibile.

Ai testi sacri si sostituiscono le massime di Lenin.

Si finisce per segnare una irreparabile frattura tra Stato e popolo sempre più indifferente.

Inoltre viene messo al bando il vivo fluire dell’immaginazione e denigrata l’opera di carattere intellettuale, in quanto pericolosa per la conservazione dell’instabile ordine costituitosi.

Tuttavia le limitazioni della libertà, frenando l’operosa attività del laboratorio politico collettivo costruitosi, provocano uno schema statuale sterile e profondamente fragile.

Segnato irrimediabilmente il corso della Storia con il finale crollo del blocco sovietico, anche per intercessione della Santa Chiesa Romana, quel che rimane dell’impero è un ammasso di tradizioni reazionarie, di ideologie in chiave anti-occidentale, di nazionalismo illiberale e di imperialismo euro-asiatico.

La Russia odierna si fonda su una duplice matrice, quella nazionalista di derivazione sovietica, motivo per il quale Stalin è tuttora presente nelle parate pubbliche a differenza dell’autonomista Lenin, e quella religiosa di fede ortodossa, anch’essa in grado, solo in parte, di restaurare la grandezza della Terza Roma.

Non è un caso quindi che Aleksandr Dugin rispolveri i temi dello Stato come comunità organica governata da un paterno monarca, perché no anche padre spirituale, seppure in un’ottica post-moderna di relativismo storicistico.

Dugin, al di là di una lettura oramai propagandistica e strumentalizzata da ambo le parti, andrebbe riscoperto proprio sul versante della relativizzazione del discorso su verità e potere.

Ed anche e soprattutto nell’intuizione della tradizione, non solo come collante sociale, ma come elemento all’origine del politico.

La tradizione funge da miracolo, elemento irrazionale che fa breccia nel politico senza liberarlo dai vincoli esterni.

In Dugin c’è una teologia politica non realizzatasi, che non spoliticizza e anzi rafforza il legame tra il momento Alfa e governo del caos.

E tutto questo fa sì che la Russia sia, in parte, fuori dal paradigma decisionistico moderno pur senza rinunciare alla verticalità del comando e all’uso della forza.

Non vi è mai stato, forse, quel pieno svuotamento che possa permettere la completa realizzazione dello scopo della Rivoluzione.

Quindi, possiamo infine dire che la Russia si inserisce nello scenario post-moderno di crisi globale, senza aver mai pienamente attinto alla fonte del moderno e senza offrire più un valido modello universale ed alternativo (il bolscevismo) carico di appeal.


[1]M.P. Musorgskij, Boris Godunov, Atto Primo, Quadro Primo;

[2]M. Raeff, Comprendre l’ancien régime russe, Editions du Seuil, Paris, 1982;

[3]P. Pascal (a cura di), La Vie de l’Archipretre Avvakum écrite par lui-mème, Gallimard, Paris, 1960, pp. 14-15;

[4]T. Hobbes, Leviathan, or The Matter, Forme & Power of a Common-wealth Ecclesiastical and Civil, Chapter XLIII, 323, 1651, MacPherson, Crawford Brow, London, 1968;

[5]Allocuzione del Santo Padre Paolo VI. Ultima sessione pubblica del Concilio Ecumenico Vaticano II. Martedì, 7 dicembre 1965;

[6]P. Pascal, Mon Journal de Russie, vol. I, L’Age d’Homme, Lausanne, 1975, p. 33.

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