La Fionda è anche su Telegram.
Clicca qui per entrare e rimanere aggiornato.
Perché va sostenuta la proposta di legge sulla tutela della lingua italiana
Non condivido l’ilarità, se non un certo allarmismo, che la proposta di legge per la salvaguardia della lingua italiana, promossa dall’esponente FdI Fabio Rampelli, ha suscitato. Tale legge è concepita sul presupposto, difficile da negare, che anno dopo anno assistiamo ad un progressivo aumento dello stabile utilizzo di termini inglesi al posto degli analoghi italiani, nella nostra comunicazione. Poi, che si sia favorevoli, in disaccordo o indifferenti a questo, si può discuterne; anzi, a mio avviso, dovremmo farlo e spiegherò il perché.
Intanto, credo sia errato approcciare al dibattito su tale proposta di legge attraverso una preconcetta polarizzazione destra/sinistra, ovvero evocando con certa facilità talune analogie con il deprecato ventennio fascista, senza, invece, soffermarsi a riflettere sull’esistenza delle ragioni di una tale proposta; tanto che, negli ultimi anni, si sono sentite anche personalità come Corrado Augias, Andrea Camilleri, Gian Antonio Stella, ma anche Mario Draghi sollevare la questione dell’abuso di anglicismi nel nostro linguaggio pubblico.
Intanto, sarebbe bene rispondere a cosa, precisamente, si dovrebbe tutelare attraverso la lingua. A questo pare rispondervi, in primo luogo, la nostra Corte Costituzionale la quale, in una sentenza volta a limitare fortemente l’esclusivo insegnamento di materie universitarie in lingua inglese, ha affermato che la centralità della lingua italiana garantisce “il principio di uguaglianza, anche sotto il profilo della parità di accesso all’istruzione” (sent. n. 42 del 2017). Di qui si coglie che il primo interesse a tutela di una lingua nazionale – cioè comune – è quella di garantire la parità di accesso per chiunque, senza distinzioni, alle comunicazioni, oltre che all’istruzione, di ogni sorta. Diversamente, come da taluni osservato, andremmo incontro ad una sorta di diglossia, di memoria medievale, per cui si avrebbe una lingua inferiore, c.d. volgare, ed una superiore, per i più colti (ossia, soprattutto per i ceti più agiati); ieri il latino oggi l’inglese. Quindi, imporre l’ufficialità di un’unica lingua aiuterebbe il godimento per chiunque dei diritti di cittadino formalmente riconosciuti.
Ad esempio, recentemente in Italia, pensionati della società F.C.A. possessori di azioni nella stessa, si sono visti recapitare una lettera da Stellantis con cui erano elencate informazioni sulla fusione aziendale scritta in lingua inglese. Per qualcosa di simile, nel 2006, in Francia la General Medical System venne multata per diverse centinaia di migliaia di euro. D’altronde, è noto che il popolo francese tiene molto alla tutela dei propri diritti. Ma possiamo anche pensare a prodotti alimentari che, sempre più spesso, si trovano con confezioni che ne riportano le descrizioni in lingua straniera. Allora, si può ritenere che anche noi italiani avremmo degli interessi affinché chiunque possa conoscere interamente il contenuto di ogni comunicazione. Quindi, questa è una battaglia di destra, sinistra, o cos’altro…?
Poi, c’è anche un ulteriore interesse da tutelare che è quello della cultura nazionale, ovvero la garanzia della preservazione della ricchezza culturale in questo mondo sempre più globalizzato; globalizzato anche, se non soprattutto, proprio dal punto di vista culturale (inteso, questo, in senso ampio, esteso pure a costumi, desideri, immaginario e, per certi versi, anche il pensiero stesso). Insomma, per una salvaguardia della multiculturalità del mondo, le nazioni, quantomeno quelle che ritengono di avere una tradizione culturale forte, come l’Italia, dovrebbero contribuire a questa tutela dinnanzi alla dominante – specie in Occidente – cultura anglo-sassone. Poi, la produzione culturale italiana ha un forte ritorno economico, e siccome, almeno tradizionalmente, questa cultura si è sempre espressa in italiano, tutelare la lingua è anche un investimento nella nostra economia. La nostra stessa industria manifatturiera con i suoi marchi, oramai meno in italiano del passato, conserva ancora un legame con la nostra lingua e, infatti, come ha sottolineato il presidente della Società Dante Alighieri, Andrea Riccardi: non si investe seriamente sul prodotto italiano se non si investe sulla lingua italiana. Dovrebbe quindi essere nostro interesse preservare l’utilizzo generalizzato di tale lingua.
C’è, inoltre, da considerare che tanti nuovi campi del sapere paiono parlare ormai in lingua inglese, almeno in quelle nazioni, come l’Italia, in cui non ci si preoccupa di tradurre più dall’estero alcunché. Ma potremmo, ormai, dire che, per noi, anche i campi tradizionali iniziano a parlare inglese: pensiamo a quelli sportivi, ai ruoli lavorativi aziendali e non solo, ai termini nel campo della sanità, del cibo (che molti preferiscono ormai chiamare “food”), ecc. Effettivamente, vi è una forte e progressiva anglicizzazione della nostra lingua, tanto che potremmo immaginare come nel futuro, anche tra soli vent’anni, pronunceremo tante parole che oggi diamo per scontato farlo in italiano. Allora: ci conviene proprio lasciare andare tutto così? Come ho scritto in un precedente analogo articolo per “La Fionda”, la lingua è un po’ come un cellulare di oggi che, se non procedi con i dovuti aggiornamenti, poi con il tempo non ti servirà più a nulla, con conseguente rischio “museificazione” dell’italiano.
Dinnanzi a tale fenomeno, qualcuno ha provato ad obiettare che questo non sia altro che una sorta di “evoluzione” della lingua, che c’è sempre stata, sin dai tempi di Dante. A tal riguardo, è facile far notare che è vero che nella nostra lingua sono presenti parole di derivazione straniera, ma queste sono state da sempre, appunto anche dai tempi del Poeta, italianizzate e non importate “crudi”, come si fa invece ora. Operazione, quella della “nazionalizzazione” di termini stranieri, che avviene anche all’estero. Poi, per carità, certamente vi sono termini stranieri fortemente caratterizzanti quali “rock”, “crepe”, “robot”, che non sarebbe il caso di italianizzare. Non si vuole certo esagerare.
Inoltre, avere un pizzico di orgoglio nazionale, magari rubandone un po’ a quello sportivo, è ancora lecito in campo culturale? In questo periodo in cui molti, compreso chi scrive, sono allarmati dalla riforma delle autonomie differenziate, è opportuno insistere su una delle cose che, storicamente, più unisce la nostra nazione? La stessa Corte Costituzionale succitata si è riferita alla nostra lingua come “elemento fondamentale di identità culturale e” […] “mezzo primario di trasmissione dei relativi valori“, nonché di “vettore della storia e dell’identità della comunità nazionale” […] “patrimonio culturale da preservare e valorizzare“. Quindi, è un male attuare tale principio espresso dalla Corte? Principio che, come rilevato sopra, preserva anche l’uguaglianza tra i cittadini? A me, quello della tutela della lingua nazionale appare, piuttosto, un tema molto democratico e progressista, confortato anche da tale sentenza.
Tra l’altro, l’Italia non sarebbe la prima nazione a dotarsi di un tale strumento. Una legge sulla tutela della lingua è presente anche in altri ordinamenti senz’altro democratici come Francia e Spagna, dove anche lì sono previste multe elevate agli enti che non comunicano al pubblico nella lingua nazionale e dove è affidata alle rispettive accademie nazionali della lingua – equivalenti, circa, alla nostra Accademia della Crusca – il compito di dare indicazioni su come aggiornare la lingua nazionale dinnanzi a nuovi forestierismi e/o neologismi. In realtà, un principio, seppur a carattere generale, esiste anche in Italia ed è la legge 482 del 1999, con la quale l’italiano viene dichiarata formalmente lingua ufficiale della Repubblica. Però, questa è rimasta sostanzialmente lettera morta; probabilmente perché non si è mai pensato ad un regolamento per la sua attuazione.
La proposta di legge ora in discussione in Italia, analogamente ai corrispettivi francese e spagnolo, riguarda l’obbligo di utilizzo dell’italiano da parte di enti pubblici e di privati che si rivolgono al grande pubblico, non certo alla generalità dei cittadini che tra di loro rimangono liberi di esprimersi nella lingua che vogliono. Quindi, c’è poco da allarmarsi. La legge può essere migliorata? Perchè no? Ad esempio, l’Accademia della Crusca, che da sempre cerca di sensibilizzare contro l’abuso di anglicismi, non condivide di tale proposta l’apparato sanzionatorio. Se ne può discutere senz’altro, ma la via non è certo quella di attaccarla in toto. Trovare, magari insieme, modalità per non rimanere passivi dinnanzi alla forza livellatrice di questa globalizzazione, che coinvolge inevitabilmente le identità culturali, può essere una buona iniziativa di politica culturale a favore dell’economia italiana, della cultura mondiale, della nostra autonomia di pensiero e delle nostre giovani generazioni alle quali trasmettere la lingua dei padri.
La Fionda è una rivista di battaglia politico-culturale che non ha alle spalle finanziatori di alcun tipo. I pensieri espressi nelle pagine del cartaceo, sul blog online e sui nostri social sono il frutto di un dibattito interno aperto, libero e autonomo. Aprendo il sito de La Fionda non sarai mai tempestato di pubblicità e pop up invasivi, a tutto beneficio dei nostri lettori. Se apprezzi il nostro lavoro e vuoi aiutarci a crescere e migliorare, sia a livello di contenuti che di iniziative, hai la possibilità di cliccare qui di seguito e offrirci un contributo. Un grazie enorme da tutta la redazione!