“Prendete questo delirio, questo macello, e fatelo fiorire”
Il monito di Iris, il suo lascito è sbocciare sulle macerie di una violenza sessuale perpetratale nella prima adolescenza, su prevaricazioni subite finanche da chi avrebbe dovuto cullarla, fin dalla puerizia, su relazioni altamente conflittuali e, talvolta, rovinose coi genitori, con lo sposo, con gli amici, con gli studi nonché con il lavoro.
Si può germogliare su questo macello?
Un groviglio di fallimenti, rinunce, fragilità, terrore dell’abbandono, permanente senso di inadeguatezza il cui balsamo lenitivo sono il sesso sfrenato ed il trip.
Una vertigine, un capogiro ed il vuoto.
Un vuoto che si fa presenza, abilissimo nel fendere il petto di chiunque incontri, Iris, pur d’insinuarsi nel suo animo, sconvolgere qualsivoglia regola e rovesciare qualsiasi misura, pur d’intrappolare senza scampo, impedendo ogni via di fuga.
Iris ha un cappio alla gola.
Ilaria Palomba si fa nocchiero contagiosamente appassionato nell’affascinante terra in cui signoreggia l’Inconscio, coinvolgente corifeo della pallida ombra di un indefinito che non ha confini come una notte nera come la pece, senza bagliori, senza astri.
Da un’estate all’altra, Iris incede confusa e ammantata d’un ascetismo dalle cupe cromìe apocalittiche, si ridesta da terrificanti incubi premonitori.
Alterazione della facoltà di percepire mediante i sensi, coscienza fluttuante, pensieri vaghi e sfumati, abbagli, allucinazioni reggono la texture della narrazione che ondeggia tra flussi di coscienza e monologhi interiori per raccontare dolore e disperazione.
La mente di Iris, la mente umana, è un campo di battaglia, una zuffa di pulsioni scatenate e fratture interiori multiple, scomposte.
“Questo macello” agita la mente: macchina perfetta dagli ingranaggi perfetti?
No! Tra le pagine salta la regola del “gestore centrale” della consapevolezza nostra e della realtà.
Ilaria, Ilaria senza ritrosie, nuda anche per me che sono nata triste, ci offre un racconto di superlativa, insanguinata ed inusitata raffigurazione di abusi e depravazioni in cui l’impalcatura dell’Io si sgretola come pasta frolla friabilissima sotto i colpi dell’inquietudine, della deformazione e della deviazione, proprio mentre gli altri, tutti quanti gli altri, compiono tutti i riti del rassicurante quotidiano.
Forse, l’abisso attrae tutti noi.
Probabilmente, per Iris il “delirio” è un’occasione per nobilitare e glorificare corpo e mente nella loro dimensione più favolosa (anche più appagante?).
E’ terrorizzata dal perdere la bussola ma è seduta sul davanzale di una finestra. Lì dove accarezza l’idea del suicidio: volare giù nel vuoto. Lì dove “Resto a guardare il mare, il mio mare, anche se di anno in anno mangia le spiagge e la falesia crolla, il turchese del mio mare e le sue trasparenze mi fanno essere oltre la vita nella storia, vicina all’eternità.” Del resto, però, si sa, il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella del vuoto verso cui, però, la ragazza incede sprezzante del pericolo: succube del suo riflesso lì giù, in un doppio riflesso con scabrosa devozione nietzschiana.
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