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Cugini sì, ma non troppo
Molti italiani in questi giorni, guardando le immagini delle piazze francesi, hanno stropicciato gli occhi, e con un misto di ammirazione e scetticismo per la protesta dei cugini d’Oltralpe si sono chiesti: ma come, noi andiamo in pensione buoni buoni a 67 anni, e questi bloccano il paese perché non vogliono saperne di andarci a 64?
Da un media all’altro, da un talk all’altro, la comune vulgata che ai francesi “guai a toccargli i diritti” è tornata a circolare con insistenza, rovesciandosi su un paese come il nostro dove lo strumento del conflitto sociale è ormai fondamentalmente considerato un vecchio arnese del Novecento. Uno strumento, ma anche un modo di concepire la dinamica democratica, che la sinistra storica italiana ha lentamente lasciato arrugginire in soffitta nel mentre si allontanava dai cancelli delle fabbriche, dalla vita dura dei lavoratori (se l’Italia è l’unico paese ricco che ha registrato nell’ultimo trentennio una riduzione dei salari, un motivo evidentemente ci sarà).
Le proteste francesi contro l’innalzamento di due anni dell’età pensionabile, invece, oltre che segnalare la vitalità di un sindacato capace di mobilitare i lavoratori con ben undici scioperi generali nell’arco di poco più di due mesi, hanno mostrato una sinistra ancora attenta e pronta alla difesa degli interessi materiali dei lavoratori (ma anche degli studenti, in Francia per nulla persuasi dalla narrazione che i diritti di chi lavora o di chi è vicino alla pensione sarebbero in conflitto con quelli delle nuove generazioni). Una sinistra che non si ferma ad una stanca e trita enunciazione di principi, ma che ha ancora la capacità di leggere la nostra società come un luogo dove esistono dei rapporti di forza: delle istanze concrete, sociali, economiche e politiche contrapposte ad altre, che vanno sostenute, perché il benessere si diffonda, la democrazia progredisca, e i principi non restino solo sulla carta.
Dagli anni Novanta ad oggi, l’agenda neoliberista ha determinato una lenta svalutazione del lavoro, sempre più povero e instabile, e una progressiva ritirata dello stato sociale. Le aspettative di benessere delle nuove generazioni, più istruite dei loro genitori, sono state poco a poco frustrate da precarietà e sfruttamento. Ed anche i sistemi pensionistici, con la storia della loro insostenibilità economica, sono stati fatto oggetto di una serie di aggressioni travestite da riforme. Trent’anni di tagli e attacchi, iniziati all’indomani della ratifica del Trattato di Maastricht, che hanno investito gli stati sociali di tutte le principali economie europee. E che nel caso dei sistemi previdenziali di Francia e Italia, a partire dagli anni Novanta, hanno fatto registrare una sequenza di “riforme” praticamente sovrapponibile: tutte all’insegna dell’austerità e di un generalizzato peggioramento delle condizioni di pensionamento.
Una lotta di classe al contrario, potremmo dire, che nell’Italia del lungo riflusso, del lavoro flessibile, del patto tra i produttori, non ha trovato un’opposizione degna di questo nome.
Come definire le tre ore di sciopero indette dai sindacati confederali, quando l’età pensionabile nel nostro paese, ormai già più di dieci anni fa, raggiungeva il primato mondiale dei 67 anni? (un episodio che solo, già basterebbe a giustificare la costante discesa del tasso di sindacalizzazione italiano, a fronte di un aumento di quello francese).
Come spiegare il progressivo trasferimento di ricchezza dal lavoro ai profitti avvenuto in questo paese negli ultimi decenni?
Come considerare l’introduzione, col beneplacito di chi allora rappresentava la sinistra parlamentare, del pareggio di bilancio in Costituzione?
Mentre il vento neoliberista spirava forte, portandosi via le conquiste delle lavoratrici e dei lavoratori italiani, impoverendone salari e pensioni, i sindacati concertavano la resa, e la sinistra di governo si ritirava nei centri storici, dove notoriamente la rivendicazione dei diritti civili fa più figo della difesa dei diritti sociali.
Una deriva di subalternità al pensiero mercatista che tra disintermediazione e indebolimento della rappresentanza politica e sociale del mondo del lavoro ha provocato un arretramento drammatico delle condizioni materiali proprio di chi vive di salari e pensioni. Salari e pensioni che senza un meccanismo di recupero dell’inflazione (abolito nel 1985, quando la sinistra italiana forse ha combattuto l’ultima vera battaglia di giustizia sociale) vedono da anni costantemente eroso il loro potere d’acquisto. Un’erosione che evidentemente è in stretto rapporto con la crisi della partecipazione democratica in questo paese, di cui ad ogni elezione la nostra classe dirigente (soprattutto di sinistra, ça va sans dire) fa un gran parlare, senza alfine però comprenderne davvero le ragioni e cambiare rotta. Persino ora, che la crisi sociale morde in presenza del governo più a destra della storia repubblicana, sul piano nazionale, e una guerra devastante divora risorse che si sarebbero potute impiegare altrimenti, su quello internazionale.
Oltralpe, la mobilitazione continua. In attesa della possibile indizione di un referendum sulla riforma, sindacati e partiti di sinistra restano al fianco dei lavoratori francesi: fino a quando il governo non tornerà sui suoi passi, fanno sapere.
E noi qui alla finestra, a guardare le piazze piene e chiederci se poi è proprio vero che siam cugini.
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