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Napoli scudettata


5 Mag , 2023|
| 2023 | Sport

L’evento inaspettato tanto atteso, ma mai così scontato come quest’anno, alla fine si è materializzato: dopo 33 anni riappare sulle maglie del Napoli lo scudetto tricolore.

Non si tratta del coronamento della grande bellezza di sarriana memoria, non c’è un legame particolare con le gesta di un eroe popolare oggetto di devozione e immedesimazione: a differenza di altre imprese sportive, in questa vicenda di veramente leggendario non c’è molto.

Lo scudetto del Napoli è nei fatti la vittoria delle “cose fatte per bene”, per citare Luciano Spalletti, grande maestro di tattica e funambolo della parola barocca e misterica.

Come è noto, mister Spalletti è garanzia di bel gioco e ottimi risultati. Assieme a Maurizio Sarri è il più grande allenatore italiano in attività: toscanacci di spessore entrambi, fra i pochi al mondo a combinare qualità del gioco, valorizzazione dei calciatori e vittorie.

Senza nulla togliere al valore dell’allenatore, il merito principale di questo capolavoro sportivo, prima ancora che allo staff tecnico o al presidente Aurelio De Laurentiis, va però assegnato a Cristiano Giuntoli, direttore sportivo del Napoli, lo stratega di un calciomercato ad un tempo sostenibile e illuminato: anche quest’anno la rosa della prima squadra d’Italia, nonostante le cessioni illustri della scorsa estate (da Koulibaly a Insigne), era fra le più competitive del campionato (certo non inferiore a quelle di Roma, Milan e Inter, che almeno in campionato hanno raccolto risultati al di sotto delle loro potenzialità), e questo grazie all’ennesima campagna acquisti sorprendente fatta a suon di giovani talenti perlopiù sconosciuti non solo al grande pubblico ma anche al mondo degli addetti ai lavori (vedi ad esempio il georgiano Kvaratskhelia).

Certo, in una piazza come Napoli nulla è mai troppo lineare o prevedibile. Di conseguenza anche una pagina già scritta da tempo (la partita dello scudetto era chiusa da diversi mesi) si carica di una tensione emotiva esplosiva, di una gioia liberatrice che ha il sapore di una spinta di riscatto popolare da decenni di frustrazioni e delusioni, sportive ma non solo.

Anche se di epico c’è ben poco nella corsa liscia e priva di grandi ostacoli del Napoli di Spalletti e Osimhen, la dimensione del mito e del senso diffuso del sacro ritorna con il richiamo nostalgico ai numi tutelari della città: Diego Maradona, Pino Daniele e Massimo Troisi in primis.

Tutto questo ad ulteriore conferma di come il calcio, soprattutto in una città come Napoli, non sia soltanto un gioco, ma uno dei punti di snodo più importanti delle dinamiche più profonde della vita comunitaria.

D’altronde anche il nesso con la politica è evidente: identità e appartenenze, conflitto ed antagonismo, meccanismi di identificazione e rappresentazione sono concetti comuni ad entrambe le dimensioni. Per non parlare dell’uso politico del calcio, sia come fattore di passivizzazione che di mobilitazione delle masse; tanto momento di ipnosi o catarsi collettiva quanto canale di scarico di conflitti e pulsioni distruttive.

Inoltre anche in uno sport ormai troppo segnato dalle logiche del mercato e della spettacolarizzazione televisiva, per ciò stesso destinato a vivere nei flussi, il legame con i territori e con i contesti concreti resta un elemento centrale, inaggirabile.

Diego Maradona e Cristiano Ronaldo inarcano alla perfezione questa polarità: insediamento e radicamento sociale e popolare nel nome del sud del mondo da una parte, nomadismo plastificato delle élite globali all’insegna della mercificazione e spettacolarizzazione universale dall’altra.

Il calcio, si potrebbe quasi dire, è sì un “agente dell’universalismo”, ma di un universalismo concreto, situato, legato a determinate specificità, identità collettive e appartenenze territoriali. D’altra parte il pallone anche se lanciato in aria è destinato sempre a cadere in basso, a terra, che rappresenta il suo luogo naturale, all’incrocio fra passioni popolari e legami comunitari.

Prima o poi andrà comunque meglio indagata la storia del calcio in parallelo alle grandi trasformazioni del nostro vivere civile. Basti pensare al nesso fra il numero di maglia e i ruoli ricoperti in campo, più in generale al rapporto fra singolo e collettivo: a come tutto questo si sia modificato nel tempo in linea con i cambiamenti che hanno attraversato le nostre società.

Oggi il numero di maglia non è quasi più associato ad una precisa funzione, ma viene scelto e pensato soprattutto in rapporto alle esperienze di vita del singolo calciatore nella sua veste di persona privata.

Tutto paradossalmente inizia con le esperienze del calcio “totale” dei fatidici anni settanta del secolo scorso (si pensi al celebre numero 14 dell’immenso Johan Cruijff): mentre scompaiono i ruoli tradizionali, la trama di gioco si sviluppa attraverso automatismi e schematismi imposti dall’esterno a cui gli undici calciatori sono chiamati ad adattarsi (nel tempo la sfida poi sarà quella di conciliare le idee di gioco collettivo con la considerazione e valorizzazione delle qualità individuali del giocatore).

Non più legato ad una specifica collocazione in campo, il calciatore sfuma per un verso nel collettivo, ma al tempo stesso vede riaffermata la sua unicità con l’esaltazione delle sue prodezze individuali di atleta e con una sempre maggiore sovraesposizione mediatica e commerciale.

Negli stessi anni prende avvio quel processo di liquefazione delle identità collettive e di ripiegamento individualista, legato allo smarrimento del senso del legame sociale e alla volatilità dei ruoli sociali e lavorativi definitivamente compiutosi solo nel periodo più recente.

In conclusione, celebrare la vittoria della città di Napoli è anche l’occasione per ripensare ai mille significati e alle mille implicazioni del gioco del calcio come “rappresentazione sacra e comunitaria del nostro tempo”, per dirla con Pier Paolo Pasolini: non solo evasione, ma anche rito, epica e immagine del mondo.

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