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Volodymyr, we love you


16 Mag , 2023|
| 2023 | Visioni

  Visibile, visibilissimo il fil rouge che unisce un evento – la guerra in Ucraina – a uno status, quello dell’Italia entro l’Europa, l’Occidente, in generale la comunità internazionale.

 In latino status indica la posizione che una persona (ma anche un popolo) ha nel contesto di una comunità più o meno ampia. Nella Roma antica si era o liberi o schiavi. Allo stesso modo un popolo era libero se non soggetto al potere di comando di un altro popolo. Ma sottilmente il giurista Proculo (I secolo d.C.) introduce ulteriori status, tra cui quello di un popolo formalmente libero nel rapporto con un altro popolo che gli è però superiore quanto a potenza, con la conseguenza che la libertà del primo si articolerà entro i confini tracciati dal secondo, il più forte, la cui autorità il più debole dovrà fiduciosamente osservare. Teniamo presente quest’antica categorizzazione quando ripensiamo a quel che s’è visto lo scorso 13 maggio in occasione della visita di Volodymyr Zelensky a Roma.

 Mattarella: “Noi siamo pienamente al vostro fianco. Benvenuto Presidente”. Meloni: “la nostra Nazione intende svolgere un ruolo di primo piano e noi scommettiamo sulla vittoria dell’Ucraina”. Entrambi pare che siano rimasti lusingati dalla scelta dell’amico Volodymyr di passare dall’Italia prima di andare in Germania e in Francia.

 Sia Mattarella che Meloni recitavano un copione scritto da altri e fuori d’Italia: almeno così è meglio pensare perché diversamente si dovrebbe concludere che i vertici della Repubblica non comprendono la realtà fattuale. E non stupisce affatto che entrambi abbiano rilasciato dichiarazioni identiche: anche se uno resta organico al PD, l’altra è il capo assoluto di FDI. Entrambi sanno bene che ai vertici istituzionali essi non sarebbero né giunti, né soprattutto rimasti se non avessero riconosciuto la maiestas non di Volodymyr, ma di chi ha il potere negli USA e in UE: come leggiamo nel testo di Proculo, la condizione non negoziabile è che, in una Nazione vincolata qual è la nostra, i titolari dei poteri supremi riconoscano, rispettino, rafforzino i vincoli esterni.

 Ecco che questa guerra ha messo a nudo, e visibilmente, l’estrema debolezza dell’Italia: quel fil rouge è come una catena che qualcuno accorcia o allenta a proprio piacimento. Il Presidente della Repubblica ne ha lunga esperienza; il Presidente del Consiglio, dopo aver fantasticato (e fatto fantasticare durante i lunghi anni di opposizione), ha bruciato i tempi e si è automaticamente adeguata. Conservare (nel significato pregnante di Proculo) la maiestas del superiore esterno garantisce i pezzi di potere – quasi offe – che il superiore concede localmente; e per i ceti dirigenti della Repubblica italiana è meglio di niente, anzi è molto se si tiene conto dei vantaggi che quei pezzi di potere assicurano sul territorio.

 La guerra nel profondo Est dell’Europa ci restituisce come un cristallo la limpida immagine di quel che oggi noi siamo o, meglio, di quel che noi oggi contiamo: molto poco e, la previsione, è che conteremo sempre meno. Potrebbe essere diversamente? Certo che sì, nonostante alcuni handicap oggettivi, probabilmente irrimediabili. Potrebbe essere diversamente se avessimo dei dirigenti politici più attrezzati, più colti, più abili, anche meno avidi.

 Nella (fantomatica) Prima Repubblica i vertici politici erano – e si sono dimostrati – parecchio migliori degli attuali: erano capaci, pur consci della debolezza dell’Italia, di vendersi meglio e di vender meglio la posizione del Paese, non proprio irrilevante dal punto di vista geo-politico. Oggi non ce la fanno, anche perché c’è meno coraggio. La differenza qui passa attraverso la diversa qualità delle persone: i politici attivi fino agli anni Settanta-Ottanta si erano formati prima della guerra, avevano ricevuto mediamente nelle scuole e nelle università un’educazione culturale oggi drammaticamente perduta, nutrivano un certo sentimento di patria come comunità da onorare e da far valere, al massimo possibile.

 E poi, nel dopoguerra, l’Italia si era corredata di un’industria che ora non c’è più, sciaguratamente distrutta o dispersa. C’è il turismo, coccolato da destra a sinistra. Ma ci salverà il turismo? Questo turismo spesso insaziabile, irrispettoso del patrimonio storico, artistico e ambientale, cinico al punto da offrire ai lavoratori condizioni gravemente inique? E poi quale garanzia di stabilità nel tempo offre il turismo esposto com’è ai gusti di quei consumatori capricciosi quali sono i turisti? A ben vedere, dietro le tende degli studenti accampati, ci stanno i proprietari di case il cui valore locativo è lievitato per l’inaspettata domanda di b&b in ogni dove del Bel Paese.

  Questo contesto interno determina il nostro status a livello internazionale; ed è causa della salda intesa fra quasi tutti gli schieramenti politici a proposito della vicenda ucraina. Soggezione, ma anche calcolo e opportunismo. Difficile, però, negare che il pieno sostegno a Volodymyr sia quanto meno problematico rispetto all’interesse nazionale e, più ancora, degli Italiani, persone o famiglie.

 Qui si affaccia una questione pregiudiziale. Il sostegno dell’Italia – Mattarella si è affrettato a rassicurare il suo importante ospite – è ‘pieno’: non ha inviato al fronte il suo esercito (e nessun paese Nato lo ha fatto), ma armi sì. Ci si è interrogati se l’ordinamento italiano lo consenta, ma l’art. 11 della Costituzione è ambiguo. Dice che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa consentendo (ovviamente) la guerra di difesa, tuttavia non precisando se la difesa sia (solo) quella propria o, anche, l’altrui; dice che la guerra non può essere mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, però consentendo di limitare la sovranità dell’Italia per assicurare la pace e la giustizia, evidentemente tramite trattati od organizzazioni sovranazionali da cui possono derivare – e sono derivati – impegni contraddittori  (ma è la stessa parola ‘giustizia’ ad essere vuota, non avendo alcun preciso significato). Insomma, anche l’art. 11, per com’è scritto, manifesta la debolezza del nostro sistema istituzionale, nemmeno isolata perché, aggiungo, l’ambiguità si annida in più di una disposizione della Costituzione del ’48. 

 La storia ci ha consegnato tre paradigmi fondanti la giuridicità di base e le relazioni tra esseri umani o tra quelle associazioni di esseri umani quali sono gli stati: l’occupatio (l’occupazione, la conquista di territori quasi sempre attraverso l’uso della violenza bellica), l’humanitas (l’atteggiamento e la condotta rispettosi degli altri), la conventio (l’accordo, il contratto, il trattato con cui, muovendo da luoghi diversi, riusciamo a convenire a un luogo comune). Dietro la vicenda ucraina li ritroviamo tutti e tre: l’occupatio è in scena da protagonista, l’humanitas soffre e subisce, la conventio si spera che possa entrare in scena. Ma entrerà senz’altro in scena e quella vicenda conoscerà il suo termine. Quando ciò avverrà, non lo sappiamo. Però è la conventio ad essere indicata, nelle Carte internazionali, quale unico strumento per la composizione dei conflitti: gli Stati, compresa l’Italia, hanno fatto finta che le disposizioni relative non esistessero. Ma questo è il limite dello strumento convenzionale: funziona solo le parti che vi hanno aderito siano capaci di mantenere la parola data. È un limite ontologico, variamente denunciato da Grozio ad Hegel.

 La via è però tracciata senza le ambiguità dell’art. 11 della nostra Costituzione: eccola. Artt. 33 e 52 dello Statuto dell’Onu: negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, accordi; e Corte di conciliazione e arbitrato Osce, a cui presentare proposte di accordo tra gli Stati in conflitto (all’Osce aderiscono sia la Russia che l’Ucraina, oltre a 55 altri Paesi del mondo). Allora: perché nessuno, nessuno dei Paesi che proclamano di volere la pace (l’Italia tra gli altri) ha dato impulso a queste procedure finalizzate alla ricerca di un accordo di pace? Eppure trattati erano stati sottoscritti, impegni assunti. Possibile che solo il Papa abbia evocato un percorso di mediazione che Volodymyr ha subito respinto? Humanitas e conventio restano strumenti utopistici, come Hegel aveva cinicamente denunciato? Può essere. Ma continuiamo a coltivare (anche) l’utopia a 360 gradi; solo essa potrà salvarci, un giorno.

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