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Reddito di cittadinanza vs job guarantee


18 Mag , 2023|
| 2023 | Visioni

Il pensiero economico mainstream è convinto della necessità di un tasso di disoccupazione naturale o fisiologico, o meglio che debba sussistere un certo tasso di disoccupazione affinché l’inflazione non cresca pericolosamente: a questo proposito, si parla di non-accelerating inflation rate of unemployment (tasso di disoccupazione che non accelera l’inflazione). Il compito delle banche centrali dovrebbe allora essere quello di alzare il costo del denaro, cioè il tasso di sconto[1], quando la disoccupazione si appresta a diventare troppo bassa: bassa disoccupazione equivale a scarsa forza attrattiva in capo alla parte datoriale e dunque a innalzamento dei salari, che a sua volta induce le imprese, per coprire i costi, a alzare i prezzi: di qui l’inflazione.

In un simile scenario, la sola misura ammessa a sostegno di chi è escluso dal mercato del lavoro sarebbe il reddito di cittadinanza, un’elargizione di gran lunga ribassata rispetto al salario medio e dunque di carattere eminentemente deflativo. Non solo: in assenza di un salario minimo stabilito per legge, il reddito di cittadinanza spinge a un ulteriore ribasso i salari stessi, giacché a un qualunque datore di lavoro basterà promettere un salario che sia appena superiore al reddito di cittadinanza per legittimarsi agli occhi del mercato del lavoro. Questo effetto ribassistico sui salari si acuisce tanto più laddove il reddito di cittadinanza sia una misura di workfare, cioè condizionata all’inserimento o peggio alla disponibilità all’inserimento nel mondo del lavoro, e dunque possa venir meno per il semplice fatto che una qualsiasi “offerta di lavoro”[2] sia avanzata al suo percettore: ecco che il reddito di cittadinanza diviene strumento per “ridurre l’inclusione sociale a inclusione nel mercato” – per dirla con le parole di Alessandro Somma – e per legittimare politicamente qualunque salario se ne discosti al rialzo, anche se in minima misura.

Nello strumentario mainstream il reddito di cittadinanza si qualifica come misura tutt’altro che anti-ciclica[3]: potrebbe mai definirsi tale una misura che, in un contesto di deflazione salariale, comporta indirettamente un ulteriore abbassamento dei salari e, in definitiva, una corsa al ribasso?

In un contesto di deflazione salariale e correlata dilagante disoccupazione, occorre invece uno strumento anti-ciclico che si proponga in primo luogo il raggiungimento della piena occupazione e, tramite questa fondamentale tappa politica, l’aumento dei salari: è possibile individuare simile strumento nella c.d. job guarantee o lavoro garantito.

La proposta di una job guarantee muove dal presupposto che la disoccupazione costituisce uno spreco in termini di beni e servizi di interesse pubblico (e, spesso, di rilevanza costituzionale) che non vengono prodotti e che potrebbero esserlo se solo le persone disoccupate venissero occupate a tal fine. Inoltre, la mancanza di posti di lavoro nel settore privato – come comprovato da numerose indagini statistiche – è cronica; questo è un dato che ben si spiega considerando la linea comportamentale delle imprese: esse perseguono il proprio profitto e non l’obiettivo di politica economica della piena occupazione e, inoltre, non sono ben propense a assumere i disoccupati, preferendo a costoro persone già impiegate o comunque con pochi buchi lavorativi.

È ragionevole invece che un obiettivo di politica economica quale quello della piena occupazione sia assunto dallo Stato nella propria agenda, così come è giusto che sia lo Stato – che, almeno in Italia, ha il compito di rendere effettivo il diritto all’istruzione (art. 34 Cost.) – a farsi carico della formazione dei disoccupati di medio e lungo periodo.

Tramite la job guarantee lo Stato-apparato (la c.d. macchina pubblica) si onererà di dare un lavoro a chiunque busserà alla sua porta per farne richiesta: a tal fine, di concerto con gli enti territoriali, ideerà piani di intervento materialmente portati a compimento da coloro che faranno richiesta di un lavoro garantito e diretti a soddisfare interessi pubblici quali, per esempio, la cura dell’ambiente (dal giardinaggio in parchi pubblici a lavori di bonifica) o l’attenzione per gli anziani (come progetti comunitari per la valorizzazione del tempo libero) o per i bambini (come i doposcuola o i corsi estivi). Si penserà che a questi piani di lavoro corrispondano altrettanti servizi pubblici ordinariamente disastrati: è proprio così, si tratta di quei settori economici semi-abbondonati dallo Stato e nei quali i privati, qualora entrino in gioco, fissano prezzi abbordabili per pochi.

A ciascun lavoratore aderente alla job garantuee verrà garantito un salario dignitoso (il che, in Italia, sarebbe secondo Costituzione); l’effetto della fissazione di un simile salario (che immaginiamo in una somma ben lontana dal reddito garantito) indurrà le imprese private, se non vogliono perdere i propri lavoratori, a incrementare i salari. Se credete che per queste ciò costituisca un sacrificio, non dimenticate che, garantendo occupazione e salario a coloro che poco prima impinguavano le fila dell’esercito industriale di riserva, avremo un aumento della domanda aggregata e dunque anche della domanda di beni e servizi prodotti dalle imprese private (con conseguente incremento dei loro fatturati).

A chi teme poi che i salari erogati ai lavoratori aderenti alla job guarantee potrebbero provocare inflazione si può replicare che un rialzo dei prezzi potrebbe determinarsi solo in prima battuta, come effetto dell’aumento della domanda aggregata di cui abbiamo appena detto, ma poi l’inflazione dovrebbe restare – salvo il sopraggiungere di fattori estranei – stazionaria, in quanto la job guarantee, implicitamente fissando un minimo salariale praticabile, concorrerebbe grandemente a stabilizzare il prezzo del lavoro, che, in quanto input produttivo, concorre a sua volta a determinare i prezzi di beni e servizi.  

I piani di lavoro garantito, infine, si espanderanno e contrarranno in senso contrario al ciclo economico (di qui la natura di misura anti-ciclica della job guarantee): verranno incrementati all’aumento della disoccupazione e ridotti alla ripresa dell’occupazione, fermo restando che, come abbiamo detto, il settore privato è di per sé inadatto a garantire la piena occupazione.

In conclusione, la job guarantee appare uno strumento di civiltà economica, che assicura pace sociale, cura degli interessi pubblici e relativa stabilità dei prezzi facendo leva – per dirlo con le parole di Pavlina Tcherneva – su “una scorta cuscinetto di occupati”, laddove il reddito di cittadinanza si configura come una misura di workfare, diretta a garantire manodopera a basso costo alle imprese e dunque a porre tra incudine e martello l’esercito industriale di riserva[4].  


[1] Il tasso di interesse al quale la banca centrale presta soldi alle banche commerciali del Paese.

[2] Metto quest’espressione mainstream tra virgolette per evidenziare quanto sia fuorviante: in verità è il lavoratore a offrire il proprio lavoro-merce e il datore a domandarlo!

[3] Sono anti-cicliche quelle politiche economiche tese a indurre inflazione laddove vi sia deflazione e viceversa.

[4] V. Pavlina R. Tcherneva, Lavoro garantito. Un programma per la piena occupazione, Milano, 2020; William Beveridge, La libertà solidale. Scritti 1942-1945 (a cura di Michele Colucci), Roma, 2010; Alessandro Somma, Il reddito di cittadinanza e il reddito minimo garantito sono dispositivi neoliberali, in La Fionda, n. 2/2021, Roma, pag. 163 ss.

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