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Due riforme costituzionali che mai nessuno proporrà


5 Giu , 2023|
| 2023 | Visioni

  Se il nostro sistema repubblicano e democratico è in crisi – crisi grave – assolvere a priori da ogni responsabilità la Costituzione del ’48 dipende, da un lato, dal comprensibile desiderio di aggrapparsi a qualcosa, dall’altro, e di più, dall’attitudine della Carta a soddisfare, con le sue promesse egalitarie e di giustizia sociale senza apparenti limiti, l’ideologia, e anche i sogni, di una parte degli Italiani, probabilmente i meno fortunati, i meno intraprendenti, ma anche i meno intrallazzati o maneggioni.

 Ciò dovrebbe indurre coloro che oggi proclamano di voler riformare la nostra Costituzione a maggior realismo e, anche, a una disposizione di umiltà. Riformare è possibile, probabilmente necessario se si vogliano assetti più repubblicani e più democratici per i quali non sono sufficienti o, meglio, sono irrilevanti i buoni propositi di cui alla prima parte della Costituzione. Ma per realizzare l’obiettivo occorrerebbe preparare il Paese, spiegando e dimostrando la necessità di certi cambiamenti; e poi trovando, in Parlamento, ampie convergenze.

 La metodica è questa e non vi sono alternative. Però essa non è mai stata osservata: l’esempio della riforma Renzi-Boschi, incomprensibile e mal redatta, lo conferma; e giustamente i cittadini l’hanno respinta a forte maggioranza, anche perché quella riforma era apparsa all’evidenza manifestazione di arroganza presuntuosa. La metodica è questa e si può stare certi che l’attuale governo non la seguirà punto: il difetto di realismo e di umiltà contraddistingue l’esecutivo, che non appare immune nemmeno da un preoccupante eccesso di autostima.

 In questo contesto, tenuto conto della caratura dei riformatori, è probabile che alla fine non se ne farà nulla; e, anzi, così stando le cose, c’è da augurarselo. Forse il presidenzialismo non è compatibile con l’antropologia culturale degli Italiani. Certamente le opposizioni non lo vogliono, anche se è da vedere la ragione reale del rifiuto. Allora bisognerebbe pensare a qualcos’altro, che avesse la dote di accomunare in gran parte i parlamentari. Ma è quasi impossibile, mancando l’attitudine a cercare e poi ad attuare ragionevoli compromessi.

  Comunque coloro che rigettano la stessa eventualità di una (qualunque) riforma della Costituzione del ’48 finiscono, consciamente o inconsciamente, con il ritenerla eterna, id est immodificabile. Una conclusione che è, più che fuori dalla realtà, fuori dalla storia: il tempo travolge ogni istituzione e se non la travolge nel senso che non riesce a toglierla di mezzo, si prende però la rivincita imponendone la radicale trasformazione. Un ottimo esempio è qua da noi e ci è offerto dai valori e dalla struttura della Chiesa cattolica quali sono presenti nella contemporaneità (antitetici, cioè, a quelli giurati almeno fino agli anni Cinquanta e anche oltre).

 La tradizione occidentale ci ha trasmesso, come primo, il modello della costituzione non scritta che esiste e regola, ma però non fa di tutto o quasi per impedirne la modifica quando necessario, quando vi siano oggettivamente buone ragioni: una costituzione di questo tipo – flessibile – ha fatto la fortuna, nell’antichità, della res publica romana, nella modernità, dell’Inghilterra. In sistemi del genere la riforma è quasi l’esito di un processo spontaneo, non traumatico perché volto a realizzare un adeguamento atteso, desiderato: una ratifica di quanto la società ha già interiorizzato.

 Le rivoluzioni settecentesche ci hanno, invece, consegnato un modello diverso, quello della costituzione scritta: si voleva con ciò rafforzare certi assetti di potere e, anche, di garanzie. Attenzione, però, questo progetto non era accompagnato dalla pretesa dell’immodificabilità e, soprattutto, vi era la consapevolezza che qualunque istituzione è da assumersi come relativa in quanto prodotto storico: nella Dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1776 i Padri Fondatori americani, se scrivevano che eguaglianza e diritti sono di per sé evidenti, aggiungevano però che questo era quel che loro credevano (We hold), cioè si trattava della loro opinione. Noi, invece, abbiamo una Costituzione non solo scritta, ma anche rigida: da vedere se ciò sia davvero un bene.

 Comunque, tornando alle riforme, a me sembra che, prima che pensare al presidenzialismo, sarebbe necessario introdurre il principio di alternanza, diciamo ad ampio spettro: esso è indispensabile in democrazia perché rompe od ostacola circuiti, catene, cerchi magici, gruppi di potere, spesso di malaffare, sempre avidi e autoreferenziali. I rischi per il perseguimento dell’interesse generale, pubblico, collettivo lievitano, nel difetto del principio di alternanza, in un Paese come l’Italia ad alto, e generalizzato, indice di familismo amorale. Allora occorrerebbe sancire in Costituzione il limite del doppio mandato almeno (o come inizio) per le cariche di vertice della Repubblica: dal Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio dei Ministri ai Presidenti della Camera e del Senato.

 Così è in altre democrazie occidentali: il caso degli USA è solo il più noto. Ma in Italia nessun partito si è sognato, né si sognerà, di confezionare una proposta del genere. Ci aveva pensato il Movimento 5 Stelle e, non senza ragione, aveva imposto, almeno a livello di disciplina interna, il limite del doppio mandato ai propri parlamentari; poi si è visto come quest’impegno sia stato tradito, per interesse miseramente personale, dai suoi più accesi sostenitori. Però il limite del doppio mandato sarebbe buona regola di etica pubblica anche per i segretari e i direttivi di partito. Che questa regola non sia incarnata nella vita istituzionale italiana è causa di un certo immobilismo della società e, soprattutto, di corruzione ai vari livelli (ivi compresi i vertici delle Federazioni sportive).

 La seconda riforma è l’abrogazione del titolo V: questo ci deriva dalla riforma costituzionale del 2001, una riforma a dir poco scellerata, voluta dal centro sinistra per miserabili calcoli elettorali (togliere voti alla Lega) e ora divenuta la bandiera (proprio) della Lega che, altrettanto miserabilmente, dichiara sommessamente di volere solo il rispetto della Costituzione. È una vicenda che ci fa capire il degrado a cui è giunta la politica in Italia: qualunque menzogna per soddisfare l’interesse (mai ideale) della propria corporazione.

 Il regionalismo della Costituzione del ’48 era già troppo avanzato: quasi un azzardo in un Paese che si segnalava, e soffriva, a causa delle divisioni (profonde) tra Nord e Sud. Questo, credo, fu il motivo per cui le Regioni vennero attuate solo nel 1970. Nei fatti il regionalismo costituzionale ha moltiplicato il ceto politico e la burocrazia e ha divorato enormi risorse; e non è probabilmente un caso che il debito pubblico abbia cominciato a lievitare proprio dagli anni Settanta in avanti. E il regionalismo ha consentito alle Regioni più ricche di rivendicare identità e tradizioni culturali spesso ridicole; e tuttavia capaci di implementare in molti la convinzione che la Lombardia o il Veneto siano qualcosa d’altro rispetto al resto dell’Italia (com’è già per le Regioni e le Province a Statuto speciale che, queste sì, esigerebbero un’urgente e coraggiosa riforma).

 Il progetto Calderoli sull’autonomia differenziata dividerà ancora, e profondamente, gli Italiani (se verrà poi tradotto in legge); aumenterà ulteriormente il debito pubblico e indebolirà un Paese già debolissimo e, di conseguenza, non più veramente sovrano. Per queste, e molte altre ragioni, la riforma migliore, la prima da farsi, sarebbe il ritorno al regionalismo del ’48, che pur qualche cautela aveva introdotto e, soprattutto, riconosciuto la supremazia dell’interesse nazionale.

 Limite del doppio mandato e abrogazione del titolo V: non se ne parlerà mai e il presidenzialismo appare sempre più una copertura di storture istituzionali di cui è obbligatorio tacere. Il sistema mass-mediatico si è adeguato da un pezzo. 

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