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La speranza che diviene


12 Giu , 2023|
| 2023 | Visioni

Quando scrive il suo libro forse più disperato, Realismo capitalista, da Spettri di Marx di Jacques Derrida Mark Fisher eredita una categoria: hauntology. È un concetto che vale un destino comunitario. Per il pensatore di Leicester, la cognizione esprime una nostalgia, appunto una malattia del ritorno. Essa però è rovesciata nel significato temporale e riqualificata come impossibilità a realizzarsi nella storia. Hauntology allora non si declina al passato, non è una nostalgia memoriale né consente una gratificazione finale, il possesso sentimentale, culturale dell’oggetto nostalgico. Per Fisher, il sovvertimento del passato si fa nostalgia del futuro ed essa appare senza speranza, vuota di ogni escatologia secolare, vacua. Ecco allora che hauntology ammette l’immagine di un futuro destoricizzato dell’accadente, un futuro perduto come perduta è la stessa possibilità di immaginarlo addirittura quale presenza di sé nel mondo.

Nell’appendice a Speranza e utopia. Conversazioni 1964-1975 di Ernst Bloch, a cura di Rainer Traub e Harald Wieser, Mimesis, 2022, la soglia di Laura Boella, icastica e perentoria, richiama proprio un’immagine hauntologica. Specie quando la filosofa scrive che «“speranza” e “futuro”», nel «filosofo della speranza» e dell’«utopia concreta» esprimono un carattere di «incompiutezza», di naturale «incognito». Ma il sentimento del «non-ancora» come orizzonte del realizzabile appare già qualcosa di più aperto in confronto alla recisa, assoluta coscienza fisheriana del mai più. Le conversazioni blochiane pongono quindi un’estrema domanda, l’interrogazione ultimativa sul concreto significato dello sperare. È un’estrema domanda, una questione aperta a rischio di chiusura, a rischio di essere travolta dalla stessa coscienza tragica del pensare e del vivere, nella contemporaneità, come in un tempo chiuso, un tempo murato e esso stesso senza-futuro. Ma allo scadere dell’età moderna, proprio tra i Sessanta e i Settanta, un’epoca in rapida metamorfosi nel postmoderno, per Boella il filosofo della speranza ripensa al nesso presente-futuro più estremamente. E nel «fallimento dell’utopia e della speranza», Boella legge in Bloch una decisiva, caparbia e inedita forma di resistenza, l’indomita volontà di interrogare ancora la “notte” veniente per chiedere se è da attendersi un’alba.

Una traccia originaria del non-ancora blochiano, del suo pensiero di un élan ancora possibile, viene già dalla prima conversazione, Speranza in lutto, nella Conversazione del 1964 con Jürgen Ruhle. Una traccia e forse già un segno, anzi un segnavia in cui Bloch, con riferimento alla sua Bildung,riconosce in sé bambino lettore di fiabe il «desiderio di svignarsela, di spiccare il volo». È l’idea originale, una metafora filosofica, cioè la possibilità stessa di librarsi in mentis nella speranza di un’utopia. E ciòperché la visione fiabesca, la fantasia archetipica è propria di un’infanzia che poi si fa visione del mondo. La sua legge è: la «felicità è là dove tu ancora non sei». Là dove potrai essere. Non la prossimità, in termini filosofici, ma la «distanza» costituisce per Bloch la premessa al pensare utopico, il pensiero del «processo» scaturito dal qui e ora che però genera il , l’altrove. È ciò che Bloch definisce alla stregua di una passione per il «non-ancora» sia del sé interiore sia della storia, del mondo dentro e fuori del sé. Il suo nome culturale, il «marxismo» o il «socialismo», proietta una sua immagine aurorale nei «sogni degli uomini, degli sfruttati e degli oppressi, degli umiliati e degli offesi», insomma nell’orizzonte di un come di una «vita migliore». Un tale profilo di pensiero, che pure non si auto-inganna rimanendo dentro una visione comunista, in Bloch assume una nuance tutt’altro che irrazionale. L’utopia e la speranza camminano sulla terra, definiscono una domanda al campo del possibile storico, si direbbe che compiano un’interrogazione effettuale del presente che si infutura. La forza interrogante passa sia dal sapere aude kantiano, cioè la domanda entra in un orizzonte in cui più comunitaria dovrà essere la coscienza di un esercizio della cultura e della coscienza critica, sia dall’agostiniano «nos ipsi erimus» come promessa di un futuro, di un tempo della nostra presenza a venire. Sono traiettorie che Bloch traccia fin dal 1964 e che paiono donare un orizzonte aperto alla categoria chiusa di hauntology, un’apertura concreta all’utopia astratta, il non-ancora insubordinato al mai per-sempre, l’evidenza di un’utopia reale.

Nella Conversazione del 1967 con Iring Fetscher e György Lukács, Ereditare dalla decadenza?, Bloch ricorda gli inizi dell’amicizia con l’autore di Distruzione della ragione. L’affinità culturale, sebbene Bloch riconosca «superiore» Lukács, nonché l’armonia amicale, tradotti in termini di intesa intellettuale guardano al «pensiero oggettivo», alla «sistematica estrinsecazione-di-sé» e alla «comprensione esistenziale». In altre parole, qui è in gioco il radicamento lukácsiano al «mondo umano», una tesi cui Bloch aggiunge, per dirla con un concetto di Simone Weil, l’attenzione necessaria per cogliere i segni futuri espressi proprio nel dato mondo umano. La successiva separazione tra il «neoclassicismo» di Lukács e la cosiddetta partecipazione blochiana alla «spedizione verso l’ignoto», evidente nell’avanguardismo del filosofo della speranza, in Bloch significa gettare uno sguardo meravigliato alle opere di Franz Marc, Vassilij Kandiskij, per il pensatore di Ludwigshafen, il pittore «metafisico». Qui l’autore di Spirito dell’utopia coglie l’affioramento del non-ancora, il baluginio di una nuova presenza, l’idea di un’utopia come «docta spes», la misura reale del mondo e non un alato «bla bla bla». In altre parole, qui è rivelata la misura reale di quel mondo «non-ancora-divenuto», un tempo già patrimonio speculativo dello stesso Lukács. Nella terza Conversazione con Gert Ueding del 1971, Utopie dell’uomo comune e altri sogni a occhi aperti, Bloch matura e difende il concetto di «processo» già discusso nella Conversazione del 1967 contro la staticità fattuale del positivismo. Il «processo» infatti si estrinseca nel «sogno a occhi aperti», una traccia e anche una metafora onirica equivalenti all’orizzonte umano di una «vita migliore nel futuro».

Il futuro qui è il futuro del futuro, l’avvenire che si snoda dal presente, non quanto Bloch definisce il «futuro nel passato», la materia possibile del vivente mai accaduta, mai divenuta. Il riferimento di Bloch all’«arsenale di ogni anticipazione politica» appare il non totalmente espresso del passato, il potenziale mai giunto alla massima espressione storico-politica. Leggiamo qui un vero contenuto di speranza. In questo, Bloch manifesta un’attitudine, di cui Il principio speranza è l’emblema, di lettore, ermeneutadella «latenza» storica. Qui si coglie la chiave per capire la realtà profonda del marxiano «“sogno di una cosa”». Idealmente, le prime tre Conversazioni,la cui terza è appunto del 1971, suggeriscono, per contro, l’idea di «catastrofe nella realtà esistente». È lo sgomentante sfacelo dello status quo, la cui ragione d’essere è di costituire la premessa di un «non-ancora», non già come sinonimo del mai, bensìcome«non-ancora-conscio», semplicemente «non-ancora-divenuto» all’essere singolare e comunitario. Qui è in gioco qualcosa che richiama la dialettica futuro-passato, cioè un «futuro che risale talmente indietro nel tempo», parafrasando Henry Miller di Tropico del cancro e il suo individuo «incinto di un libro», per individuare l’immagine di una comunità umana gravida di un libro-passato, un passato però mai venuto, mai letto al mondo.      

Qualcosa manca… Sulle contraddizioni dell’anelito utopico è il titolo della Conversazione con Theodor W. Adorno del 1964. L’autore di Minima moralia sembra già parlare dal punto di vista della «vita offesa». Guarda al «compimento dei desideri», alla stessa «immagine del desiderio», all’«utopia erotica», in altre parole al divenuto di Bloch come a un diveniente/defraudante, dallo stesso Bloch identificato come una spontanea «malinconia del compimento». Pur senza negare Bloch, Adorno riflette sull’aggregato di senso e di opportunità storica dell’«utopia» e del «futuro». Se è vero che il coautore di Dialettica dell’illuminismo guarda alla cristallizzazione del «mondo così com’è», è ugualmente vero che l’uomo del nostro tempo è richiamato entro un gorgo di dissociata ambiguità, unitamente una visione soggettiva, intima di un altro mondo, e la resa, l’abbattuta rassegnazione all’oggettività di questo mondo. Eppure, tra Moro e Campanella, l’utopia non è un’utopia, è proprio un «sogno a occhi aperti» in cui Bloch legge l’esistenza di una «speranza» non metafisica, anzi ricercata a livello della realtà, nella semplice forma di un mito ormai resistente com’è la sognata «vita migliore». Essa cammina nella stessa traccia della «giustizia» utopico-platonica. Ciò che infatti sintetizza il dialogo tra Adorno e Bloch è dunque un possibile del desiderio entro un orizzonte «oggettivo-reale». Richiamare il katéchon (altrove Bloch parla esplicitamente di «fattore frenante») nel quadro del nostro discorso è menzionare, ancora tra Bloch e Adorno, una categoria, sì ambigua, come recentemente la espone Monateri, che però resta allo stato implicito e silenzioso, per così dire segreto ma ugualmente in grado di bloccare ogni possibile nella sua riuscita secolare. Non la «libertà» né la «felicità» ma la «morte» appare finalmente a Bloch la più potente «contro-utopia», l’eventochiamato a fungere da deterrente nella speculazione sulla via dell’«utopia» concreta come della concreta «speranza». La morte, l’insuperabilità della morte, anche per Adorno rende impensabile l’utopia ovvero la pensabilità dell’utopia non può che contemplarsi nella certezza della fine.La contraddizione dell’utopia sta allora nell’impossibilità del suo respiro infinito, nell’abolizione ferale della sua spinta teleologica. In altre e più crude parole, la morte è procurata a livello dell’ordine mondiale. Bloch afferma infatti che l’«Ovest e l’Est sono d’accord, sono sulla stessa penosa barca, concordi sul fatto che non deve esistere niente di utopico». Il nostro è allora un «mondo completamente svuotato di coscienza utopica», pieno solo di coscienza mortale. Se allora la fine dell’utopia concreta va letta come un suicidio per mano del mondo, la domanda brechtiana di Mahagonny citata da Bloch, «Qualcosa manca», non avrebbe ragion d’essere. È un’interrogazione senza paese. Lo è se non si sa, se non si rivela, prima di ogni altra speculazione, quale sia il mondo ad aver suicidato l’utopia concreta.

Quando nella Conversazione con Fritz Vilmar del 1965, Compiti irrisolti della teoria socialista, Bloch parla dell’«a-che-scopo dell’intero» chiede al marxismo uno sviluppo della sua «teleologia umana». Finora Bloch non ha mai utilizzato la parola «cultura» come momento fondativo dello sviluppo, usato solamente il fiorente innesco dei «sogni di una vita migliore e più degna». D’altra parte, se è vero che in Marx il «punto di svolta è il totale abbrutimento», la «reificazione e disumanizzazione del proletariato», la torsione attuabile è il tentativo “culturale” del suo sovvertimento, poiché si è o si sta già drammaticamente nel «punto più basso dell’umano». Placare la «fame di un ordine più alto», come sostiene Bloch, per gli uomini significa avere davanti a sé – così nel pensiero di Vilmar – «enormi possibilità di appagamento», avere davanti a sé «domande che li aspettano circa la loro esistenza». Se questo è il piano dell’utopia, lo è nella misura in cui a tale teleologia si oppongono, ancora con Vilmar, «forze politiche, sociali, economiche» che «impediscono di giungere a sé stessi». In sostanza, vige uno status quo a cui solo la speranza, quella che passa dalla cultura, può permettere uno sblocco, una liberazione. È una salvifica via soggettivante nel mare inquieto dell’oggettività.

Anche il discorso di Bloch sulla politica, sulla cultura della politica, denuncia una carenza di proiezione «utopica». Dopo aver esaminato, partendo da Eredità di questo tempo del 1935, le ragioni “politiche” dello sviluppo del nazismo, nella Conversazione con Rainer Traub e Harald Wieser del 1974, conversazione intitolata Non-contemporaneità, provincia e propaganda, Bloch affronta un discorso sociologico in cui si chiede, proprio alla luce del nazismo, quel che veramente «sazia» una società, nella fattispecie una società elettrice. E allora i «discorsi al parlamento» o i «programmi di partito» istituiscono la carestia contro cui «bisogna comporre l’opera», creare, anzi sperare la «musica» scrive Bloch. Lo stesso anno di Non-contemporaneità, con Il marxismo come morale Bloch ribadisce una volta di più la sua idea forte, cioè che «c’è del futuro nel passato». L’avvenire occultato nel remoto non è morto, dovrà rinascere, poiché c’è sempre «qualcosa che non è stato liquidato», una latenza che dunque non si è espressa. Essa è la nostra «eredità». Un altro suo nome è «non-contemporaneo», cioè non venuto fino a noi. In altre parole, tra il passato e il futuro Bloch individua una forma di risalente bloccato. Quando nella Conversazione con Hans Ohly e Leonhard Reinisch del 1975 Bloch parla del suo libro, Experimentum mundi, è evidente che il risalente, tra l’identità storica e il valore individuale, assume il carattere di categoria socio-antropologica. «Noi stessi e tutto quanto ci circonda non siamo che tentativi di portar fuori qualcosa che non è stato ancora portato fuori» confessa Bloch. Il risalente allora è il latente, qualcosa di «non-ancora-divenuto», ma la sua peculiare caratteristica, ciò che esprime il cosiddetto «segreto del mondo», è nella sua «prossimità più prossima dell’immediato». Nel pensiero di Bloch c’è un ubi consistam da rivelare. Ed esso equivale propriamente a un hic et nunc che Ohly e Reinisch definiscono, quanto al tema, con la parola «mondo», quanto alla filosofia di Bloch come «laboratorium possibilis salutis» dell’uomo (e ovviamente del mondo). Qui Bloch non enuncia alcuna legge, non dà il nome alla salus-salvezza, semplicemente nell’a-che-scopo individuato legge il «Novum in forma di sistema aperto», di sistema sempre aperto. Il filosofo riconosce il paradosso della «non chiusura», tuttavia essa non occulta il segno di una mancata apocalisse, per cui Experimentum mundi esprime, non meno che il resto dell’intera opera di Bloch, solo l’illuminazione di una via, la fissazione tra il passato e il futuro di un possibile esistente. Qui si dà il nome e la voce a un «contenuto di speranza». Quando nella Conferenza radiofonica del 1974, La funzione utopica del materialismo, Bloch riferisce del «materialismo storico-dialettico» marxiano tramite cui ragiona sulla «storia» per sostenere che il «futuro non ci viene incontro spuntando completamente dal nulla come un presunto ineluttabile destino» e che esso è «pianificabile, calcolabile», in realtà sta fornendo di un contenuto proprio il suo principio-speranza. La cultura può tutto questo. Bloch infatti confessa che il «Nuovo» viene dal «processo storico» e che dunque esso può essere interrogato tramite il mezzo della cultura e della coscienza critica, poiché il suo antecedente culturale, il «dynámei ón» aristotelico, cioè l’«essere-in-possibilità», è come una cifra anti-nichilista, anti-crepuscolare. Passa da un atto di disponibilità. È cioè la stessa possibilità di pensare e capire la nostra storia per intuire così il reale futuro. Un nesso la cui natura esprimente è, ancora con una categoria di Bloch, qualcosa di paragonabile alla «sostanza del mondo». Per altri sentieri, la cultura vale come anello di congiunzione tra il passato, anche quello inespresso o risalente, e il non-ancora divenuto, la speranza che diviene come promessa di un avvenire sempre possibile, anche se inimmaginabile.

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