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Berlusconi ha fatto il suo tempo
Circolano, subito dopo la morte dell’ex presidente del Consiglio, reazioni che tendono a esagerarne le responsabilità sia in senso negativo che positivo. Come sempre la lettura più immediata e superficiale, ma anche la più semplice, tende a dare un valore ipertrofico all’individuo leader ma non è in grado di comprendere la realtà complessiva di cui una leadership non è che un elemento, la quale perciò non può essere caricata da sola di aver segnato l’andamento storico di un trentennio né nel bene né nel male. Un capo è certamente dotato di quel carisma e di quella capacità di capire le fasi e di cogliere i momenti propizi che gli consentono di essere capo, ma il fatto stesso che lo diventi dipende da condizioni oggettive indipendenti dall’individuo, la cui analisi è sempre complessa ma allo stesso tempo necessaria per comprendere l’intera fase storica.
Senza nulla togliere quindi con ciò alla responsabilità della persona e alla sua capacità singolare di incidere nella realtà politica, sociale e culturale, Berlusconi è oggi innalzato come un simbolo di tante cose, buone per alcuni e nefaste per altri, avvenute negli ultimi trent’anni, più che come un punto di partenza per analizzare ciò che è stata questa seconda (e forse terza?) repubblica italiana. Da una parte si dice che abbia avuto il merito di modernizzare l’Italia e introdurvi una vera cultura liberale, dall’altra che abbia sdoganato fascismo e leghismo, introdotto la tv spazzatura e la cultura pubblicitaria, omologato l’informazione, consentito agli ex-fascisti di arrivare al governo designando Meloni e Salvini come sua eredità, rinfocolato la mafia e alimentato l’evasione fiscale, diffuso una cultura del corpo femminile come oggetto di consumo ecc.
Certamente molte di queste cose sono vere, almeno in parte, ma è un dato di fatto che Berlusconi abbandonò il governo quasi dodici anni fa per non farvi più ritorno, mentre non si può dire che lo stato dell’informazione e della politica, senz’altro ancora meno quello della cultura di massa, siano migliorati in questi dodici anni di sua assenza. Una seria analisi storica del berlusconismo (ma è mai esistito il berlusconismo?) – oltre a dover essere limitata ai circa venti anni tra la discesa in campo nel 1994 e la caduta del suo quarto governo nel 2011 – andrebbe focalizzata sulle condizioni strutturali della realtà italiana e internazionale che gli hanno consentito di assumere quella funzione di capo e di simbolo che ha avuto, al di là del ruolo del suo noto impero mediatico e delle sue doti personali, nonché delle condizioni che hanno provocato infine la sua messa da parte.
A mio avviso, infatti, non è ancora stata data una risposta completa e convincente alla caduta del sistema politico-partitico della prima repubblica, al vuoto che ha creato e al modo in cui quel vuoto è stato sostituito. La tesi del colpo di Stato giudiziario non regge, potendo comunque essere considerato quello al limite come un elemento scatenante tra gli altri: come è possibile che l’iniziativa di qualche giudice abbia fatto da sola crollare l’intero sistema di potere radicato nelle masse e consolidatosi in quarant’anni della quinta potenza industriale mondiale? Certamente l’emergere di volontà internazionali in questo senso potrebbe completare almeno in parte il quadro, ma non mi pare che questo sia stato ancora sufficientemente provato.
Silvio Berlusconi ha poi avuto certamente la capacità di saper riempire questo vuoto inventando lo spauracchio del pericolo comunista e utilizzando il suo impero industriale; ha saputo convogliare sotto la sua guida il post-fascismo e il nascente leghismo, oltreché ampi spezzoni di ex-democristiani ed ex-socialisti, dando nuovo contenuto ideologico al nuovo sistema politico-partitico sanzionato dall’istituzione della giornata delle foibe; ha portato il paese in guerra aperta vicino a Bush e lo ha addentrato ancora di più nell’UE attraverso il trattato di Lisbona; ha accelerato la deregolamentazione del mercato del lavoro e non ha certo incoraggiato le rivendicazioni salariali; ha proseguito le privatizzazioni e l’aziendalizzazione dell’università; il suo governo si è inoltre reso responsabile di una gigantesca violazione di diritti fondamentali su scala di massa nell’ambito della repressione della protesta anti-globalizzazione a Genova.
Ma al netto di quest’ultimo fatto, si può dire con sicurezza che tutte le altre tendenze erano già in essere prima della sua ascesa al potere e sono rimaste, rinvigorendosi, dopo la sua caduta: la globalizzazione, l’integrazione europea, la moderazione salariale, la deregolamentazione del mercato del lavoro, le privatizzazioni, i tagli alla spesa e l’aziendalizzazione dell’università erano già iniziate nella prima metà degli anni Novanta, proseguirono con i governi di centro-sinistra e fecero un salto di qualità dopo il 2011 in quanto si trattava e si tratta di tendenze mondiali finora incontrastate; lo scadimento della cultura e dell’informazione e la concentrazione monopolistica degli organi di stampa non sono stati certo una prerogativa di Berlusconi; il post-fascismo e il leghismo sono stati certamente sdoganati dall’ex-presidente, ma c’era un’alternativa? Si trattava di movimenti che prendevano sempre più forza mentre ormai i vecchi partiti, nominalmente gli stessi ma concretamente già post-ideologici da tempo, si indebolivano sempre di più.
Persino la guerra non fu un’invenzione di Berlusconi perché già il governo D’Alema vi aveva portato l’Italia con il bombardamento di Belgrado, fatto al di fuori e contro le Nazioni Unite. Berlusconi ha avuto semmai il merito, quando ormai era un astro morente, di opporsi timidamente alla guerra libica anglo-francese e più recentemente all’alimentazione della guerra ucraina. Ma ormai era un grillo parlante che neanche più i suoi alleati, che forse in fondo aveva sempre disprezzato e trattato da inferiori, ascoltavano più. Perché allora il potere di Berlusconi finisce nel 2011? Sappiamo bene che Napolitano lo sostituì d’imperio e forse è più facile leggere l’epilogo che la genesi di questa storia. La situazione internazionale si faceva più severa: in Europa la crisi dei debiti aveva mostrato i difetti di costituzione cui la Germania si ostinava tuttavia a non voler mettere mano, pretendendo però di obbligare gli Stati membri al pareggio di bilancio e al riequilibrio degli scambi attraverso la deflazione salari-prezzi, cosa che avrebbe certamente rovinato il carisma di un presidente che amava dipingersi così empatico con il popolo; nel mondo eurasiatico poi l’espansione della NATO a Est e in Medio Oriente imponeva un governo più fedele di come poteva esserlo uno presieduto da un amico intimo di Putin, Gheddafi e Erdogan. Rimane un bel lavoro da fare per gli storici; dannazioni e santificazioni sono altra cosa.
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