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Francesco Nuti e la generazione dei malinconici: epitaffio per la commedia all’italiana


13 Giu , 2023|
| 2023 | Visioni

E così, si è chiusa la tragica parabola di Francesco Nuti. Con lui se ne va uno dei quattro protagonisti della generazione dei malinconici: una delle quattro sponde fra le quali, tra gli anni Ottanta e i primi Novanta, la commedia all’italiana provò a rinverdirsi dopo i fasti dei colonnelli (Gassman, Manfredi, Mastroianni, Sordi, Tognazzi ‒ in rigoroso ordine alfabetico) e dei loro straordinari registi (Monicelli, Risi, Scola, a volerci fermare qui). Quattro sponde di un biliardo che, per ragioni diverse, ci ha regalato molto, ma non tutto ciò che ci aspettavamo e che ci era stato in qualche modo promesso. Nuti, che si lanciò in un’impresa con l’ansia di chi non seppe aspettare la giusta maturità (OcchioPinocchio). Roberto Benigni, stanco troppo presto di dismettere i panni nei quali è stato maestro, quelli del giullare. Carlo Verdone, e quel colpo di reni atteso, lasciato tante volte intravvedere e, alla fin fine, mai arrivato. E il più geniale, colui che il colpo di reni lo ebbe subito prima che il destino gli giocasse beffardamente contro: Massimo Troisi.

I malinconici, appunto: se c’è un linguaggio, una poetica comune, è quella della malinconia. La malinconia di chi, nel pieno del riflusso, del rampantismo, dello yuppismo, non può che richiudersi in sé stesso, e in sé stesso non trovare risposte. Nuti, Benigni, Verdone, Troisi ci hanno raccontato l’altro volto degli anni Ottanta. Ma lo hanno fatto, ed è forse qui il limite, inconsapevolmente. Al di là delle capacità e delle professionalità (nessuno dei quattro ne difetta), lo scarto con la generazione precedente, quella che la commedia all’italiana l’ha inventata, è stata la capacità di critica sociale. Dove i Sordi e i Manfredi ci hanno raccontato, nella loro carriera, la storia di un Paese e dei suoi mutamenti, i Troisi e i Verdone ci hanno parlato dei tormenti di una generazione. Sono stati bravissimi, in questo: ci hanno fatto appassionare, talvolta piangere, spesso ridere. Dove però il sorriso, con i Mastroianni e i Gassman, era amaro, con i Nuti e i Benigni è stato tenero. Lo scarto fra l’amarezza e la tenerezza è quello che passa fra la capacità di osservare la storia e l’acume (pur nobile) di catturare i tic dell’orizzonte più prossimo.

È stata comunque commedia all’italiana? Sì, in qualche modo. È stato il momento finale di un grande periodo artistico, con la responsabilità pesante di farlo proseguire e il destino, ancora una volta tragico, di concluderlo. Perché, dopo il ripiegamento nel privato, la commedia all’italiana non è stata più, e non poteva più essere. Ci resteranno, comunque, tante cose. Le marionette dolci di Benigni. La volenterosa goffaggine dei personaggi di Verdone. La folgorante insicurezza di quelli di Troisi. Il fascino ombroso di Francesco Nuti.

Sì: non sono stati i colonnelli, magari per i loro limiti, magari per lo spirito del tempo. Ma il destino cinico ha avuto una parte in commedia.

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