La Fionda è anche su Telegram.
Clicca qui per entrare e rimanere aggiornato.
Berlusconi: creare un immaginario e un sistema politico
La morte di Silvio Berlusconi sarebbe una ottima occasione per un dibattito sulla Seconda Repubblica (periodo i cui meri estremi cronologici sarebbero tutti da discutere), per capire le trasformazioni sociali profonde di un periodo chiave del nostro paese, richiamando però la memoria di eventi oggi tenuti prudentemente silenti. Come dimenticare che tale figura è stata bollata per anni come mafioso, criminale, tiranno mediatico, anomalia antidemocratica, traghettatore di scorie fasciste in area di governo, evasore fiscale, volgare arruffapopolo, sordido sporcaccione e figura clownesca e chi più ne ha ne metta, dalle medesime forze di centro-sinistra che oggi accettano quietamente i funerali di Stato e il lutto nazionale? Il rispetto per il tramonto della vicenda terrena non pare sufficiente a spiegare tale rivolgimento.
Per risolvere la contraddizione e iniziare a stilare un bilancio politico occorre mettere un po’ le cose in prospettiva storica.
Il ventennio berlusconiano: mercato, conservatorismo, aziendalismo
Il periodo che possiamo considerare focale dura circa vent’anni, dalla sua oramai mitica “discesa in campo” (1993) per terminare con la “grande coalizione” che lo porta a governare col Partito Democratico col governo Letta (2013), dopo aver sostenuto la maggioranza di Mario Monti. In questo lasso di tempo è stato l’incontrastato leader del centro-destra ed il principale obiettivo polemico della opposizione. In quegli anni la delegittimazione reciproca delle due parti era intensissima, con una tifoseria molto serrata e principalmente incentrata su Berlusconi stesso. Il politologo Ilvo Diamanti coniò l’espressione “muro di Arcore” per designare lo scenario elettorale italiano come inesorabilmente compartimentato: chi cambiava voto si rivolgeva sempre ad una alternativa interna allo stesso schieramento. Flussi da una coalizione all’altra erano completamente marginali: “La ricerca condotta da Itanes (“Dov’è la vittoria?”, Il Mulino, 2006) sottolinea come, alle elezioni del 2006, il tasso di “fedeltà” degli elettori delle due coalizioni sia molto elevato: il 92% nella Cdl [Casa delle Libertà, il centro-destra] e il 94% nell’Ulivo”.
Al suo esordio, che po porta ad una breve esperienza di governo nel 1994 il Cavaliere si presenta come il classico liberista di marca anglosassone: celebrazione del privato e dell’aziendalismo, il mercato come elemento vincente contro la “vecchia” politica, l’anticomunismo (sentire bollare come comunisti i dirigenti del PCI che avevano gettato alle ortiche il propri patrimonio ideale a favore del liberismo era straniante). Inizia il mito della “rivoluzione liberale” che avrà lunga durata.
Per mantenere la presa sul “popolo di destra” il Cavaliere, confermandosi come l’asse della sua coalizione come capo dell’opposizione (1996-2001) e come Presidente del Consiglio (2001-05) assume sempre più caratteri “culturali” da affiancare al suo presunto liberalismo: deferenza verso il cattolicesimo (e grande appoggio verso le componenti più velenosamente conservatrici di esso, in primis Comunione e Liberazione) con centralità della “famiglia tradizionale” e chiusura verso i diritti civili LGBT e affini; favore e fondi per le scuole private (per lo più religiose); avversione all’immigrazione e promesse di contenerla con maggiore uso delle forze di polizia; tema della sicurezza da conseguire con una stretta repressiva. Avversione verso i sindacati e insofferenza verso ogni forma di protesta sociale. Gli elettori forzisti del 2001 sarebbero stati basiti di fronte all’immagine di un Berlusconi del 2022, sorta di nonno benevolo latamente progressista con aperture ai diritti gay e l’esibizione di sostegno ai diritti degli animali.
Un aspetto sostanziale – che fece del personaggio una sorta di “sorvegliato speciale” presso altri paesi – era la questione del conflitto di interessi (forse l’espressione più gettonata della politica italiana di un decennio): entrando al governo aveva mantenuto la proprietà ed il controllo di fatto di un vasto impero economico: sport, banche, supermercati, editoria, e ovviamente le televisioni. Tutti settori in cui l’attività di governo ha un ruolo centrale, per cui i dubbi che ci si approfittasse della posizione di governo per rafforzare tale impero restavano consistenti, e non solo a sinistra. Presso l’opposizione i principi di antitrust e di blind trust erano diventati più familiari di quelli del socialismo!
La dimensione del Berlusconi-imprenditore informa potentemente la sua ostinata auto-promozione come uomo d’affari self-made man e figura di successo. Tale auto-celebrazione, al di là della necessità di propaganda, mostra un ego spropositato che in alcune fasi assumerà quasi i tratti del culto della personalità.
La questione delle aziende ci introduce un tema fondamentale: lui, uomo del business e del marketing, introduce tali strumenti in politica.
Nuovo stile “moderno” della politica
Berlusconi col suo partito-azienda (Forza Italia era formata da quadri di dirigenti di sue aziende e di residui della Prima Repubblica raccattati un po’ a casaccio, in particolare dai partiti amici che gli avevano consentito di arricchirsi infrangendo la legge) portò un modo molto americano di fare politica; per esempio la moltiplicazione di sondaggi elettorali, gli spot, le canzoncine, i gadget da distribuire ai militanti, e simili. I progressisti erano molto più legati ad una idea di politica farraginosa e antiquata. Il marketing politico ebbe presto ragione degli ex-PCI che non lo conoscevano né lo volevano adottare, e tale gap sarebbe sopravvissuto fino all’avvento di Matteo Renzi, abile manovriero che avrebbe ripagato il cavaliere con la stessa moneta, mentre i vecchi DS (D’Alema, Bersani ecc.) facevano la figura degli ippopotami al circo delle scimmie.
Il nucleo di tale innovazione è che le persone non votano in modo razionale, ma in base ad una narrazione che si collega a strutture psicologiche profonde ed inconsce della collettività. L’elaborazione programmatica ed ideologica cede il passo alla ricerca di un modo di porsi che esprime un messaggio di base e che deve innervare tutti i singoli passaggi della comunicazione, dal modo di vestire in occasioni pubbliche ai testi dei volantini da distribuire in strada. Sottostimare il ruolo di apripista di Berlusconi è difficile, sebbene non abbia certo inventato lui tali tecniche – erano ben conosciute nel marketing pubblicitario da anni, e presto sarebbero state impiegate in tutto il mondo: lui le ha applicate per primo in Italia, e oggi costituiscono l’ABC della politica per tutti.
E qual era la narrazione di Berlusconi? Che il paese rischiava di cadere ai piedi del comunismo, e che l’azienda-Italia aveva bisogno di un abile manager che la dirigesse con efficienza. Ovviamente l’”uomo della provvidenza” sarebbe stato lui.
Berlusconismo e antiberlusconismo
Ma non è solo il linguaggio che viene rivoluzionato. In questo ventennio Berlusconi diventa un elemento regolatore della articolazione stessa del sistema politico: il collante di chi gli si oppone è l’antiberlusconismo, un campo in cui i temi di giustizia, informazione, legalità sono dominanti, e la necessità di opporsi all’autocrate di Arcore sopravanza ogni altra cosa. Nel 2001 un gruppo di prestigiosi intellettuali dà una legittimità a tale assetto:
È necessario battere col voto la cosiddetta Casa delle libertà. Destra e sinistra non c’entrano: è in gioco la democrazia. Berlusconi ha dichiarato di voler riformare anche la prima parte della Costituzione, e cioè i valori fondamentali su cui poggia la Repubblica italiana. Ha annunciato una legge che darebbe al parlamento la facoltà di stabilire ogni anno la priorità dei reati da perseguire. Una tale legge subordinerebbe il potere giudiziario al potere politico, abbattendo così uno dei pilastri dello Stato di diritto. Oltre a ciò, Berlusconi, già più volte condannato e indagato, in Italia e all’estero, per reati diversi, fra cui uno riguardante la mafia, insulta i giudici e cerca di delegittimarli in tutti i modi, un fatto che non ha riscontri al mondo. Ma siamo ancora un paese civile? Chi pensa ai propri affari economici e ai propri vantaggi fiscali governa malissimo: nei sette mesi del 1994 il governo Berlusconi dette una prova disastrosa. Gli innumerevoli conflitti d’interesse creerebbero ostacoli tremendi a un suo governo sia in Italia sia, e ancor di più, in Europa. A coloro che, delusi dal centro-sinistra, pensano di non andare a votare, diciamo: chi si astiene vota Berlusconi. Una vittoria della Casa delle libertà minerebbe le basi stesse della democrazia.
Le firme in calce erano di Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Alessandro Pizzorusso e Paolo Sylos Labini.
Questo clima di emergenzialismo democratico a tratti moraleggiante (“Siamo ancora un paese civile?”) è stato visto recentemente come una bancarotta politica totale, che avrebbe portato il perno del dibattito ad ignorare alcuni processi fondamentali – in primis le sottrazioni di sovranità nell’ambito Ue – e a permettere una netta diminuzione di democrazia nel paese a favore dell’inserimento del paese nell’ambito di un capitalismo fortemente finanziarizzato con profondissimi danni ai ceti popolari, proprio mentre i maggiori rappresentanti del centro-sinistra diventavano gli agenti di tale trasformazione.
In questo c’è molto di vero, in specie la posizione di rendita di legittimazione politica degli ex comunisti che potevano abbracciare un programma ferocemente de-emancipatorio (imponenti privatizzazioni, precarizzare il lavoro, riforma delle pensioni) senza venire azzerata nei consensi come avrebbe ampiamente meritato. Leggendo il programma dell’Ulivo (l’alleanza di partiti afferenti al centro-sinistra) del 1996 si trova scritto:
Il debito e la spesa per interessi irrigidiscono la finanza pubblica; impongono oneri alle nuove generazioni; rappresentano un costo per le imprese. […] Il controllo dell’inflazione e la prosecuzione dello sforzo di risanamento della finanza pubblica rappresentano due vie obbligate, dalle quali non si può deviare. Queste costrizioni non derivano solo dai vincoli del Trattato di Maastricht per l’adesione all’Unione Economica e Monetaria. Un’inflazione elevata e variabile è comunque dannosa. Un allentamento della guardia sul fronte della finanza pubblica produrrebbe comunque più alti tassi d’interesse e il rischio di crisi finanziarie. […]
Deve essere proseguita la politica dei redditi impostata con gli accordi del 1992 e del 1993, che ha consentito di contenere i costi della svalutazione in termini di inflazione.
L’indipendenza della Banca centrale nel perseguire l’obiettivo di disinflazione deve essere mantenuta e, semmai, rafforzata. […] Si deve portare a termine nei prossimi due anni il risanamento della finanza pubblica, per persuadere i mercati che le esigenze di bilancio non interferiranno con l’autonomia della politica monetaria.
Si deve però contestualizzare. Nel campo del centro-destra vi era una demonizzazione egualmente intensa degli avversari, ora per un presunto “complotto delle procure” che avrebbero inquisito Berlusconi in base ad un disegno criminoso volto a sostituire una maggioranza eletta dal popolo sulla base di accuse false ed infondate. Un intervento televisivo del Cavaliere del 2005, che fece epoca, sembra anticipare i migliori fasti del complottismo:
C’è uno stato dei poteri forti organizzati che sono tutti nelle mani della sinistra. E sono: le scuole superiori, le università, i giornali, le radio, le televisioni [sic!!!] le procure, la magistratura della Repubblica, il Consiglio di Stato, la Corte Costituzionale.
In sostanza il paese era sostanzialmente diviso: il “muro di Arcore” non separava solo due segmenti di elettorato, ma due fazioni ognuna delle quali guardava all’altra con ostilità e disprezzo, come ad un pericolo antidemocratico, in forme fanatizzate. Questa articolazione simbolica dello spazio politico si è realizzata, non a caso, quando si era teorizzato il bipolarismo. Divenne celebre una metafora di Gianfranco Fini: la vittoria elettorale come una palla da tennis, che va o di qua o di là, senza punti intermedi. Certezza del vincitore e garanzia di governabilità: la spinta verso un maggioritario – mai veramente compiuto – era basata su una visione fortemente agonistica della politica: si gioca per vincere, chi “arriva primo” piglia tutto. Una cosa molto “berlusconiana” peraltro: il vincitore deve poter controllare la macchina dello Stato come un nuovo azionista deve poter dirigere la sua azienda, al di là di autorità terze o istituti di garanzia. Anche questo lo ritroveremo, fortissimo, in Renzi.
La Fionda è una rivista di battaglia politico-culturale che non ha alle spalle finanziatori di alcun tipo. I pensieri espressi nelle pagine del cartaceo, sul blog online e sui nostri social sono il frutto di un dibattito interno aperto, libero e autonomo. Aprendo il sito de La Fionda non sarai mai tempestato di pubblicità e pop up invasivi, a tutto beneficio dei nostri lettori. Se apprezzi il nostro lavoro e vuoi aiutarci a crescere e migliorare, sia a livello di contenuti che di iniziative, hai la possibilità di cliccare qui di seguito e offrirci un contributo. Un grazie enorme da tutta la redazione!